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Come inaugurare uno spazio dedicato alla rappresentazione delle Fisica sul grande schermo? La risposta è molto semplice: si prende un critico cinematografico, si sceglie un film e gli si chiede di buttare giù qualche idea. È molto semplice! A meno che il critico, in realtà, non sia un fisico appassionato di fantascienza con un’indole un po’ polemica verso le imprecisioni scientifiche. In questo caso le cose si fanno più complicate e, si spera, più intriganti.

spaceScelta (a malincuore) la persona, si passa alla scelta del film. I titoli sono innumerevoli e tutti estremamente interessanti, ma per battezzare questa rubrica inizierei da quello che ormai è già un grande classico, un archetipo post litteram, del filone Fisica di Hollywood: Interstellar. Innanzitutto fare una premessa è d’obbligo: per quanto io sia affezionato ad un certo rigore scientifico sono anche un grande appassionato di fantascienza e, in quanto tale, sono sempre pronto a sospendere la mia incredulità davanti a espedienti che poco hanno a che fare con l’accuratezza scientifica (per esempio, iperspazio stile Star Wars, viaggi interstellari, intelligenze artificiali e quant’altro).

Per ultime, ma non per importanza, vengono le idee. E la mia idea di base riguardo all’ultima fatica di Nolan è che il film poteva essere sviluppato molto meglio di quanto non sia stato fatto. Nonostante alcuni concetti scientifici riguardanti la Relatività Generale vengano rappresentati in modo preciso e dettagliato (altri un po’ meno), la trama del film risulta forzata e assoggettata alla Fisica, come se essa stessa fosse il fulcro del film invece di essere un espediente al servizio della storia.

Ripercorriamo brevemente le vicende narrate nel film. In un futuro non meglio precisato la Terra affronta una grave carestia di cibo dovuta a cambiamenti climatici e infestazioni parassitarie che devastano le coltivazioni. In questo scenario (si poteva spendere qualche parola e dettaglio in più per contestualizzare meglio la situazione) la società umana affronta una regressione: abbandona il cielo (la NASA entra in clandestinità, le missioni spaziali vengono ridimensionate a semplice propaganda) e torna alla terra (l’agricoltura si gode le luci della ribalta). La famiglia del protagonista non è da meno. Lui, Cooper, ex pilota convertito all’agricoltura che salverà l’umanità, la figlia, Murphy, futura (o passata, dipende dai punti di vista) scienziata che salverà l’umanità ed infine il figlio di cui nessuno ricorda il nome o il ruolo nel film.

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La situazione sembra non aver alcuna via di uscita fino a quando Cooper non si auto-convoca (dal futuro, dall’interno di un buco nero, tramite codice morse, manipolando la gravità attraverso lo spazio e il tempo…) nel quartier generale della NASA. Nonostante la clandestinità, la NASA è tutt’altro che inattiva e sta perfezionando una tecnica di viaggio interstellare, ancora in fase teorica, per salvare l’umanità trasportandola su nuovi pianeti abitabili (ma non era più facile trovare una soluzione più casalinga?). Senza Cooper, l’unico vero pilota di tutto il film, la missione da cui dipendeva la salvezza del genere umano sarebbe stata affidata a qualche neodiplomato pilota, genio dei simulatori di volo, ma pur sempre alle prime armi e senza alcuna esperienza nello spazio. Fortunatamente la missione di salvezza viene facilitata dalla presenza di un wormhole vicino Saturno che collega il nostro sistema solare a un altro molto lontano popolato da vari pianeti abitabili, orbitanti attorno ad un buco nero di proporzioni immense: Gargantua (siamo ancora in tempo per la soluzione casalinga?). Dico fortunatamente perché il cunicolo spazio-temporale non si trova lì per caso ma è opera degli esseri umani del futuro che, dopo essersi salvati grazie agli esseri umani del passato, aiutano gli esseri umani del passato a salvarsi cosicché possano diventare gli esseri umani del futuro e salvare quelli del passato affinché a loro volta possano salvare quelli del futuro. Qualcuno ha per caso parlato di paradosso? No? Ok.

Comunque, tutto va per il meglio: gli eroi, guidati da Cooper, entrano nel wormhole, ispezionano vari pianeti, qualcuno muore, alcuni invecchiano e altri restano giovani (mentre sulla Terra tutti invecchiano e soffocano per la polvere) fino a quando il protagonista non decide di entrare nel buco nero e di telegrafare dal suo interno la soluzione alla teoria del viaggio interstellare. Tutto grazie all’Amore, la forza che trascende lo spazio e il tempo (ho la glicemia alle stelle, rischio il diabete). Da qui in poi è tutto in discesa: grazie ai dati di Cooper (che la figlia, ormai cresciuta e rimasta sulla Terra, riceve tramite il vecchio orologio da polso del padre) il viaggio interstellare viene perfezionato e in pochi decenni gli esseri umani si evolvono in esseri a cinque dimensioni in grado di manipolare la gravità. In pochi decenni. Mentre per noi il salto da iPhone 5 ad iPhone 6 è il culmine dell’avanzamento tecnologico.

Sicuramente il film ha il grande merito di aver portato la Relatività su grande schermo come mai prima d’ora. Per giunta in modo molto accurato, sia visivamente (i paesaggi sono una gioia per gli occhi) che per quanto riguarda gli effetti. Questo grande punto di forza rischia però di diventare un punto debole nel momento in cui la trama viene plasmata attorno ad essa, la Relatività, mettendo completamente in ombra il vero fulcro del film: il dramma di un padre che vede la propria figlia diventare più vecchia di lui. Un dramma talmente sentito dal protagonista che, dopo un breve saluto al momento del (tanto desiderato?) ricongiungimento, lui (il padre, ancora giovane) lascia lei (la figlia, ormai invecchiatissima) sul letto di morte per andare a recuperare un membro della spedizione rimasto indietro. Mentre da una parte trionfa la caparbietà dell’umanità nel sopravvivere a tutti i costi (senza mai fare appello ad interventi divini), dall’altra l’amore entra prepotentemente nel film (soprattutto a parole, ma più difficilmente nei fatti) sotto forma di cliché sanremese.

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A differenza, invece, di un film come Inception (per non allontanarsi troppo) in cui di amore si parla poco ma che di fatto, a più riprese e su piani diversi, è il motore vero di tutto il film. Il tentativo di accostare l’Amore alle forze fondamentali della Fisica è una metafora estremamente interessante ed appropriata (nei limiti della metafora stessa, suggerire che si tratti di una dimensione a sé stante è un po’ troppo): una forza tra due corpi che non ha limiti di propagazione come le forze fisiche canoniche e quindi anche più forte. L’Amore che unisce ed attrae le persone anche a distanza di tempo e di spazio è un tema molto ricorrente anche nella fantascienza (vedi Vanilla Sky), ma in Interstellar a dispetto delle premesse non trova compimento. Cooper, a differenza di David (Vanilla Sky) e Cobb (Inception), non inizia la sua avventura per amore ma per amor proprio, curiosità, istinto di autorealizzazione e al momento del ricongiungimento la sua reazione emotiva è quella di un citofono. Ciò che muove Cooper è tutt’altro che amore e questo invalida e sconfessa le premesse ambiziose che il film si poneva sull’Amore stesso. Mentre la rappresentazione della Fisica di Interstellar è piuttosto chiara, con i suoi pregi e difetti, quella dell’Amore è vaga quanto il rapporto tra Cooper e suo figlio. L’amor che move il sole e l’altre stelle. Ma non Cooper.

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