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Nicola Guaglianone è autore del soggetto e della sceneggiatura, insieme a Menotti, del film Lo chiamavano Jeeg Robot che ha squarciato il panorama cinematografico italiano. Il successo della pellicola, prodotta da Goon Films e Rai Cinema e firmata dal regista Gabriele Mainetti, ha portato alla ribalta un nuovo modo di intendere il cinema di genere (film di supereroi) declinato nella realtà italiana dell’emarginazione sociale.

Quali sono stati i punti di riferimento per scrivere un soggetto che riesce a coniugare esigenze di genere e denuncia sociale?

Sicuramente siamo partiti dal mito dei cartoni giapponesi e dal genere del supereroe. Ma a ispirarmi è stata anche la tradizione dello Spaghetti western. Fin da piccolo sono stato abituato a vedere i film di Sergio Leone e ho avuto modo di imparare molto dal mio maestro Leo Benvenuti. Anche il lavoro di Claudio Caligari è stato molto importante, insieme all’idea che il cinema deve anche essere spettacolo. Quando ho chiesto a Gabriele (Mainetti ndr) se volevamo fare un film con le pistole o con i sentimenti, ha vinto la prima opzione.  Anche se all’inizio ero partito dal soggetto di una storia criminale, a cui poi si è aggiunto l’elemento del supereroe.

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Come nasce l’idea di un soggetto basato su un supereroe nato e cresciuto a Tor Bella Monaca?

Alle spalle c’è il rapporto col Mito, in questo caso col mito dei cartoni giapponesi, come dicevo. D’altra parte possiamo definirci come la Generazione Bim Bum Bam, quella nata a cavallo tra gli anni ’70 e ’80 che è cresciuta passando moltissimo tempo davanti alla tv. Nel rapporto col Mito ci sono chiaramente diverse fasi. Nell’infanzia è un compagno di giochi, poi crescendo diventa qualcuno che porta il tuo peso sulle sue spalle e andando ancora avanti qualcuno da cui vuoi separarti. Nasce da qui il cuore del progetto che ho proposto a Gabriele, come in alcuni cortometraggi realizzati insieme prima di Lo chiamavano Jeeg Robot. In Basette, per esempio, il protagonista usa il mito di Lupin III per trovare il sorriso che lo accompagni alla morte, in Tiger Boy il bambino protagonista invece si rifugia nel mito del lottatore mascherato per fuggire dalla triste realtà dell’abuso.

Eroi e Antieroi sono credibili perché scomodi,  sporchi e declinati in un contesto italiano di emarginazione sociale. È un’operazione in cui pochi sono riusciti. Come ci sei riuscito? Quanto ha inciso l’esperienza nel centro per il disagio psichico di Tor Bella Monaca in questo senso?

Moltissimo. Hanno inciso le storie di dolore, emarginazione e disperazione. Il nostro Jeeg vuole dare giustizia a quelle persone e soprattutto a quei ragazzi giovani in cui ho notato l’incredibile capacità di cadere in trappole sociali. Con destini già segnati e immodificabili che scontano condanne da parte di una società incapace di aiutarli. Il fatto che Tor Bella Monaca sia appena a due ore del centro, ma così lontana dal centro, crea certamente un senso di impotenza che ho voluto restituire nel soggetto.

C’è un filo che connette Accattone di Pasolini, Cesare di Caligari e il vostro Enzo, che fine ha fatto «il commercialista in crisi esistenziale»  delle recenti commedie italiane? Cosa hai preso da Accattone e Cesare per tratteggiare la personalità di Enzo?

Non si tratta di singoli elementi ma di una serie di immagini che ho assimilato. Sicuramente il fatto che Enzo sia romano e un supereroe insieme è significativo. Perché sembrerebbe quanto di più più lontano dall’idea di uomo che si sacrifica per gli altri: pensa solo a se stesso come meccanismo di autodifesa. Infatti appena conquista i poteri li usa per continuare a fare la stessa vita di prima, solitaria e riparata. È l’uomo che, tra il dolore e il nulla, sceglie il nulla. Ecco la componente più romana di tutte: una specie di apatia per cui non si prende mai nulla sul serio, cosa che vale per Accattone di Pasolini e Cesare di Caligari.

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L’eroe protagonista è quindi un ladruncolo emarginato molto attuale. Cosa lo lega così strettamente alla realtà?

Enzo è un supereroe romano in contrasto con quello americano. Quello romano intende il potere come un privilegio, è prima un uomo e poi un supereroe: direi un uomo con superpoteri. Un altro aspetto è che la tensione emotiva è concentrata sull’identità: Enzo non ha paura di essere preso dalla polizia, ma che venga colpito sugli affetti. Quando scopre il proprio volto e tutto diventa pubblico, la sfera privata viene negata. Il vero perno del soggetto e del film infatti è il conflitto di relazione di Enzo. Appena scopre i propri superpoteri li usa soltanto per agevolare il suo vecchio stile di vita. È solo attraverso l’amore per Alessia che riesce a emanciparsi dalla cupa realtà. Questo è il punto in cui l’arco di trasformazione del personaggio si compie.

Anche il personaggio dello Zingaro, una sorta di Joker alla Renato Zero splendidamente interpretato da Luca Marinelli, pare molto ancorato a una realtà fuori dal classico plot di genere.

Effettivamente lo è. L’idea di fondo è che doveva aver a che fare col mondo dello spettacolo, cosa che si allaccia bene all’attualità. Per lui infatti il vero potere è il «Like», il consenso della gente e non la forza. Per questo ha velleità artistiche e di successo perché non è soddisfatto della propria realtà e cerca in continuazione una svolta.

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LCJR è un film che coinvolge in modo particolare la generazione nata a cavallo tra 70 e 80. Credi che ci sia una nuova generazione di artisti nata in quegli anni che possa fungere da Movimento culturale?

Non lo so. Io non mi definirei assolutamente un artista. Mi sento più un artigiano. Più che un Movimento si potrebbe dire che insieme a Gabriele formiamo un duetto. Non mi piace molto l’idea di Movimento così come è intesa oggi. Non mi piace il pensiero unico. Mi piace di più pensare a dialogare e conservare la propria identità.

Dopo LCJR si può aprire una pista per una fiction di qualità anche nella tv generalista italiana oppure dobbiamo sperare soltanto in Netflix?

Forse sì, ma bisognerebbe cambiare il sistema produttivo e mettere al centro lo scrittore, chi crea la serie. Come succede negli Stati Uniti dove chi scrive si occupa di tutti gli aspetti e propone direttamente il proprio progetto al produttore, che a quel punto decide se accettarlo o meno. Sarebbe un metodo più coerente e  garantirebbe maggior qualità. Con Netflix, per cui sto scrivendo la serie Suburrra insieme ad altri colleghi, finalmente non ci dobbiamo porre più la domanda «ce lo passeranno o meno?». L’unica domanda che ci poniamo è : «funziona o non funziona?».

Credi che il formato short stories possa avere un futuro nel panorama italiano?

Credo sia il futuro. Oltre tutto il web offre occasioni di guadagno, quindi potrebbe diventare un canale molto interessante. In questo senso mi ha colpito come il cortometraggio Due piedi sinistri che abbiamo realizzato e messo su Youtube abbia avuto un grandissimo successo in pochissimo tempo. Quindi si può fare, a patto che si capisca che ci si pone in nuovo contesto con degli usi differenti che vanno studiati e che richiede l’invenzione di nuovi linguaggi.

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