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Nel nome del coniglio

Cemetery Dance Magazine n° 57, Primavera 2007

Questo è uno di quei racconti scritti in-una-sola-botta, benché nella versione che è stata pubblicata per prima non mi sia mai veramente sembrato di aver trovato il finale giusto, quello che avrebbe portato a conclusione la traccia drammatica e, in un certo senso, spalancato la narrazione, come dovrebbe fare l’horror. Come dovrebbero fare le storie. Voglio dire, il racconto faceva il suo dovere, perlomeno secondo le mie intenzioni: mostrare fino a che punto un padre può amare il figlio; una storia che mi portavo dietro da anni, finché non è stata così pura e perfetta da farmi pensare che non l’avrei mai scritta in modo da farla corrispondere a quel modello, però non andava oltre, mostrava solo quello. E le storie devono essere di più, devono fare effettivamente qualcosa.

Dopo alcuni anni, oggi, rivedendola, sono finalmente in grado di sondare alcune delle ripercussioni dell’esperienza che il ragazzino ha avuto nel bosco. O comunque immaginarle. Il modo in cui una storia come quella non ti abbandona mai del tutto. E, sia stata sfortuna o destino, lo stesso anno in cui uscì questo racconto mi smarrii sul serio in un grande bosco grigio della riserva e mi stavo portando dietro un coniglio bianco che mi sanguinava addosso e c’erano ovunque tracce di orso e di lupo, quasi come uno scherzo, come se mi stessero prendendo in giro, e poi la mia lussuosissima bussola si ruppe e riuscii a perdere il walkie-talkie. Mio padre però sapeva che, quando ho tutte queste ore di ritardo, doveva sparare in aria con il fucile per tre volte, a breve distanza l’una dall’altra. Cosa che deve aver fatto più volte. Io, però, mi trovavo in un luogo completamente diverso, camminavo in mezzo a un sacco di alberi capovolti che non avevo mai pensato potessero esistere, con ventagli di radici tre volte più alti del massimo a cui riuscivo ad arrivare, intriso di sangue com’ero, e continuavo a vedere impronte che sapevo essere sicuramente le mie, ma non lo sembravano perché non ero mai stato in quel posto, o forse sì? Quindi, se avessi saputo che gli elementi del mio racconto avrebbero preso forma intorno a me, avrei scritto di un bell’unicorno con un fiore in bocca, incorniciato da un arcobaleno. Magari di una sirena che canta nella risacca. E comunque alla fine ho trovato mio padre, il che suppongo sia un altro modo in cui avrebbe potuto concludersi Nel nome del coniglio. O magari il modo in cui è poi terminato.

Finché non arriva il mattino

The Storyteller Speaks: Rare and Different Fictions of the Grateful Dead (a cura di) Gary McKinney & Robert G. Weiner (Kearney Street Books, 2010)

Non avevo assolutamente progettato di scrivere questo racconto. Non lo avrei neanche mai fatto, senonché mi telefonò il mio buon amico Rob Weiner per dirmi che stava realizzando un’antologia horror, non è che potevo scrivere una storia? Ma certo, ovvio, naturale. Poi però ecco il colpo basso del tema: i Grateful Dead. Voglio dire: Touch of Grey è il massimo a cui arriva la mia conoscenza in fatto di Grateful Dead. Il primo passo, quindi, è stato aspettare fino all’ultimissimo minuto, con Rob che continuava a dirmi che la scadenza si stava avvicinando, e io che pensavo Passerà, passerà, ma poi casualmente ho cercato nella loro discografia per vedere se conoscevo qualche altra loro canzone – macché – e mi sono appuntato tre o quattro titoli. L’unico però che sembrava avere qualche potenzialità orrorifica era Finché viene il mattino. Non è quasi come dire che è ancora notte? E la notte, per me, è sempre il momento peggiore. Poi ho proprio cercato un po’ di illustrazioni dei Grateful Dead e, accidenti: quelli erano i manifesti che mi terrorizzavano, quando ero ragazzino, quelli che gli zii – vivevamo tutti nella casa della nonna – proprio quelli che gli zii tenevano nelle loro stanze. Ecco quindi il ragazzino che cammina rigido lungo il corridoio e accidenti se lo conoscevo quel corridoio, so benissimo che cosa significa spiare la porta dello zio per tutta la notte. Mi terrorizza ancora. Spero davvero che quei manifesti siano bruciati sul serio. Oppure in questa storia sono io che li brucio, che cerco di bruciarli. Per favore.

Albero di carne

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I figli di Billy Clay

Doorways Magazine n° 4, gennaio 2008

Non guardo il poker, non riesco a guardare il golf, a malapena riesco a restare seduto per una partita dell’NBA: deve essere registrata, così posso fare lo slalom tra i tiri liberi, i commentatori e le pubblicità – ma il rodeo dei tori, accidenti, quello sì che riesco a guardarlo per tutto il giorno. Probabilmente perché un sacco di amici ai tempi delle superiori ci si dedicava, ma per un motivo o per l’altro ho lasciato perdere. Il che è assolutamente la scelta migliore: i tipi alti, allampanati e scoordinati, scarsamente dotati di istinto di conservazione, tendono a spaccarsi la faccia sul bozzo delle corna e non saranno mai più gli stessi. Il massimo a cui sono arrivato è stato legare i manzi da esposizione, sul cemento, e sono stato disarcionato e calpestato. E ho cavalcato tori meccanici finché non si fermano. Perché volevo essere Debra Winger((Il riferimento è al film Urban Cowboy (1980) nel quale un toro meccanico e la capacità di cavalcarlo scatena le tensioni tra i protagonisti, Debra Winger e John Travolta. (N.d.T.) )), ebbene sì. Ma i tori meccanici sono completamente diversi da quelli veri, lo so bene. Però ci sono anche cose che sono più reali del cavalcare i tori. Ecco cosa mi è successo una o due settimane prima di scrivere questo racconto. Partecipo a un gruppo numeroso che si è accampato tra i mesquite((Genere di pianta della famiglia delle Mimosacee diffusa in America Latina e anche negli stati sudoccidentali del Nord-America, tra cui il Texas. (N.d.T.) )) e la boscaglia; i ragazzini sono già andati a dormire e ci sono quindi tutti gli adulti radunati intorno al fuoco a bere birra e raccontarsi storie. Tutti tranne me, naturalmente: io sono in tenda e leggo John Grisham con una torcia a pile perché non bevo birra. Ma era difficile non mettersi ad ascoltare le storie che i maschi si raccontavano lì. Ce n’era una che parlava di un secondino che, quando i detenuti non dormivano, portava nel braccio del carcere una motosega o un tagliaerba, indossava la maschera antigas che aveva in dotazione e li accendeva, in modo che i fumi mettessero ko i detenuti per la notte. Risate a comando dalla gente intorno al fuoco, già. I ragazzini là intorno che fingono di dormire. Ma in questo racconto è la guardia a fare in un certo senso una brutta fine. Quella a cui, suppongo, apparecchio la brutta fine. Il che è un uso corretto della narrativa. E l’illustrazione che Doorways ha realizzato per il racconto è fichissima, proprio il toro che uno degli amici di mio zio (erano sedici, diciassette; io avevo forse sei anni) disegnava sempre sui tovaglioli della nonna, lasciandoli sul bancone perché li rubassi e li nascondessi tra i miei libri. I tori venivano da una lattina di birra, credo. Qualche anno fa ho visto una di queste lattine da un rigattiere, posata sul davanzale della finestra, tutta sbiadita, non era in vendita, stava lì, e – credetemi – mi è sembrato di tornare a casa. Eppure non sono riuscito ad allungare la mano, toccare quella lattina, sfiorare il toro. Se non in un racconto.

Perfetta

Grok n° 8, Inverno 2008

A me questo racconto fa pensare al film Schegge di follia((Film di Michael Lehmann (tit. orig. Heathers, 1989): una commedia nera sui gruppi di studenti delle scuole superiori e sulle dinamiche di bullismo che si possono instaurare al loro interno. (N.d.T.) )). In realtà parla… be’ non esattamente di mio padre, però un fine settimana lui era a casa da solo, piuttosto lontano da dove mi trovavo io, e il lunedì mi telefonò raccontandomi che in quei tre giorni per poco non era morto. Ogni benedetta ora di quei tre giorni. Perché, come del resto ho sempre fatto io, non aveva preso sul serio le avvertenze stampate sulle etichette degli applicatori del Frontline. Probabilmente perché gli applicatori assomigliano moltissimo agli attivatori del collante per gli specchietti retrovisori che, sì, possono incasinarsi, ma non è un incasinamento per cui si muore. L’insetticida antizecche, però, ti fa a pezzi. Voglio dire, mi è già capitato di averne addosso quanto bastava a stare male, ma a piccole dosi, non quel malore che dura tre giorni durante i quali pensi di stare per morire. E comunque, aggiungete questa scena al giorno in cui mi presentai per la lezione di letteratura del martedì e stavo così così perché erano quattro giorni che soffrivo di una specie di intossicazione alimentare, per via di un pezzo di carne color grigio-nero, di consistenza oleosa che avevo trovato in fondo al frigo e che avevo pensato di condire con una dose gigante di ketchup, convinto che non importasse da quanto tempo la carne stesse in frigo. È ovvio che la quantità di ketchup è ininfluente. Comunque, uno studente della prima fila commentò ad alta voce che quel giorno sembravo diverso (suppongo che non riuscissi ancora a stare dritto) e io risposi che sì, ero stato male, nel fine settimana avevo perso quasi sei chili e una ragazza seduta qualche fila indietro ebbe un’espressione meravigliata e alzò la mano, aspettò che le dessi la parola e chiese se per favore potevo alitarle in faccia. Un modo di pensare, per lei molto ovvio, per cui si procede da un punto A a un punto B. Mi è rimasto in testa e l’unico modo perché avesse senso è stato scriverne da dentro, procedere a tentoni, provare a documentare quello che potevo e usare un po’ delle immagini di Redmond O’Hanlon((Scrittore inglese (1947), autore di resoconti di viaggi in luoghi selvaggi, oltre che redattore per la Storia Naturale del Times Literary Supplement. (N.d.T.) )) (riesce a descrivere le zecche in modi assolutamente sgradevoli). E, in quanto a Bastoncino di Zucchero, ho vissuto a Denton, Texas, e ricordo che per qualche mese vedevo una ragazza al margine di qualsiasi scena, che indossava una calzamaglia a righe bianche e rosse che sembrava uscita dai fumetti del Dr Seuss, come per affermare qualcosa su di sé. In questo modo, le ho permesso di fare la sua dichiarazione.

La fortuna di Lonegan

New Genre n°6, Estate 2009

Eccomi mentre provo a essere Lansdale. Inoltre, nei miei programmi, questo doveva essere il primo di una raccolta di racconti con Lonegan come personaggio, Le cronache di Sempre Solo o qualcosa del genere, nelle quali lui muore alla fine di ogni racconto però riappare nel successivo e se la vede con vampiri, lupi mannari, spettri, alieni e compagnia cantando, cercando semplicemente di cavarsela meglio che può nel Vecchio West, finché la sua vera natura non viene rivelata. Potrei ancora farlo. L’unico motivo per cui finora non l’ho fatto – o comunque fino al momento in cui ho scritto questo – è che nessuno voleva pubblicarla e quindi mi è più o meno mancato il coraggio, ho pensato le cose che si pensano di solito in questi casi, che i miei racconti erano stupidi e che avevo idee grandiose. Quindi, grazie Adam Golaski per aver corso il rischio e grazie Ellen Datlow per averlo scelto per Best Horror of the Year, Volume 2. Magari adesso riuscirò a scrivere altri cloni di Lansdale di lunghezza problematica e a innamorarmene. E grazie anche a te, Louis L’Amour((Scrittore americano (vero nome: Louis Dearborn LaMoore (1908-1988), prolifico e assai popolare. I suoi romanzi erano avventurosi e incentrati su ambienti western. Il cinema americano ha attinto spesso alle sue opere (tra gli interpreti, John Wayne), ma anche in Italia ha goduto di un buon successo editoriale.(N.d.T.) )). Non ti ringrazio però per tutti gli indiani ai quali i tuoi personaggi sparavano, o che depredavano delle terre o rendevano schiavi. Ma per il resto, grazie. Non avrei saputo costruirmi una personalità senza aver letto e riletto tutti i tuoi libri. I tuoi erano i volumi insieme ai quali scappavo nel bosco: leggevo la prima pagina alla luce di un fiammifero e poi la strappavo, le davo fuoco e, con quella, leggevo la pagina successiva e andavo avanti così: alla fine avevo in mano un pugno di cenere. Però ero contento perché i buoni vincevano. Solo che, nel segreto della mia mente, li facevo diventare tutti indiani. In questo modo erano molto più credibili.

Mostri

Niteblade Horror and Fantasy Magazine n°8, giugno 2009

Questo doveva essere semplicemente un racconto del tipo quello-che-ho- fatto-durante-le-vacanze-estive. Innocente, frivolo, nostalgico. Io che provo a indossare un passato diverso nel quale avrei potuto essere il ragazzino che d’estate va nelle località marine e vive avventure e storie romantiche. Volevo solo vedere se riuscivo a farlo, sulla pagina, cioè. Sembra di no. Non appena Matey si rivela un cane poliziotto, è ovvio che diventa un cane per rintracciare i cadaveri, perché gli altri sono cani noiosi e poi perché è addestrato per quello per cui è addestrato e quell’addestramento è inutile a meno che non ci sia uno zombie sotto la passerella che lui possa annusare, giusto? E non è che potessi estromettere dalla storia il tizio dopo avercelo fatto entrare. Era lì per fare qualcosa, è evidente. Dovevo solo metterlo in parole.

Eppure, persino dopo aver finito – un altro trucchetto da niente – non ho mai pensato che funzionasse finché non sono incappato in quel titolo oramai evidente. È l’unica cosa che riesce a far sì che il finale sia giusto, credo. Perché, voglio dire, il vampiro è un problema, certo, però fa esattamente quello che fanno quelli come lui. In quanto ai veri mostri di questo racconto, però, la voce narrante lo sa eccome dove vivono. Io avrei lasciato che si contaminasse, così avrebbe potuto distribuire un po’ di giustizia, ma ovviamente, come ho detto, a quel punto non sarebbe più stata giustizia, no? Ma, semplicemente, quelli come lui che fanno quello che per loro è naturale. Peggio – meglio – ancora se fosse lui che fa quello che magari fa per scelta. Sempre meglio così.

Wolf Island

Juked 17/12/2009

È il mio secondo racconto sui lupi mannari. E credo che sia in un certo senso un furto di quel racconto di Stephen King (L’arte di sopravvivere ((In italiano è incluso nel volume di racconti Scheletri (1985), ma è originariamente uscito nell’antologia horror curata da Charles L. Grant.  (N.d.T.) )) in Terrors, 1982) in cui il medico contrabbandiere di eroina finisce abbandonato su un’isola e, per sopravvivere, deve mangiare la maggior parte di se stesso. Quel racconto e Il viaggio (in Scheletri, Sperling & Kupfer, 1989) non mi hanno mai abbandonato né mai lo faranno. Quel racconto si è perennemente annidato nella mia testa ed eccomi sul divano a mangiare patatine mentre guardo un documentario sulla natura nel quale un’orca atterra su una spiaggia del Sud America o roba del genere, inseguendo una foca e, ragazzi, le patatine sono volate dappertutto. Non avevo mai visto una ficata simile. Quindi ho pensato Cos’altro potrebbe anche solo lontanamente essere altrettanto fico? Risposta: i lupi mannari. Risultato finale: questo racconto. Oltretutto molto influenzato da Barry Lopez((Scrittore e saggista americano noto per gli interessi naturalistici (Lupi e uomini, Piemme, 2015). (N.d.T.) )) che una volta mi disse di avere osservato una coppia di alci – poteva benissimo essere una coppia romantica, suppongo – nuotare da un promontorio in Alaska fino a un’isola. Tutto bene, pensano gli alci nella loro lingua, quando – bam! – un branco di orche li avvista e li mangia in un boccone. Potrei ascoltare quel racconto per tutto il giorno, per tutti i giorni della settimana. Cioè, perfino raccontandolo in modo così schematico, mi emoziona al punto che le dita vanno troppo veloci e ci sono errori ovunque. Si tratta inoltre di uno schema che vedo in tutti i miei racconti e in tutti i miei romanzi: voglio sempre che le cose si riducano a uno scontro tra Hulk e Thor che se la vedono tra di loro, più o meno. Oppure tra il serpente a sonagli e la mangusta di Fai come ti pare((Film del 1980 con Clint Eastwood come interprete (regia di Buddy Van Horn), seguito del film Filo da torcere (1978) sempre con Clint Eastwood come protagonista. (N.d.T.) )). Oppure Jane contro l’intera, malata federazione dei pianeti o quello che era nel terzo libro del Ciclo di Ender, Xenocidio. Alien vs. Predator, Freddy vs. Jason, Terminator vs Terminator, tutto l’ambaradam, sì. Per quanto mi riguarda, tutti i racconti sono racconti alla Highlander: ne resterà uno solo.

Denti

Brutarian n° 44, Primavera 2005

Il fine settimana in cui vendetti All the Beautiful Sinners a Sean Coyne di Rugged Land… no, il fine settimana in cui vendetti a Rugged Land il generico, vago progetto di ATBS, quando non c’era una trama, zero personaggi, nessuna ambientazione, niente di niente se non la vaga idea che sarebbe stato di genere poliziesco, forse ci sarebbero state un paio di auto della polizia, immaginai che non sarebbe stata una brutta idea vedere se sarei riuscito a combinare qualcosa in questo ambito. Quindi, in circa trentasei ore, per dimostrare a me stesso – e a Coyne – che ero in grado di farlo, produssi Denti. Spero tanto di non dover pensare di essere in qualche modo debitore a Cattedrale di Raymond Carver, dato che detesto quel racconto, sono convinto che sia totalmente inutile, di gran lunga troppo citato nelle antologie – voglio dire, Carver ha del materiale eccellente, perché non usare quello? – ma l’idea dei calchi dei denti, non so neppure dove avrei potuto trovarla. E quindi, grazie Carver. E in quanto al nome, Kupier, un articolo che stavo leggendo a quel tempo – probabilmente su Discover dato che nel 2002 il mio amato OMNI era finito da un pezzo – si trattava di una cintura di asteroidi di cui avevo intenzione di scrivere. Ma intanto potevo almeno introdurre il nome e metterlo da parte per dopo. E quei boli di gufo, la semplice idea mi ha sempre affascinato. Un paio di anni fa un amico me ne ha perfino regalato uno e io lo sezionai con delle pinzette cercandoci dentro lo scheletro di un topo Molto fico. E sì, ancora una volta, questo racconto probabilmente deve tutto a L’arte di sopravvivere di King. Però, insomma. In pratica, tutto quello che scrivo deve tutto a King.

Raphael

Cemetery Dance, n°55, Autunno 2006

Questo racconto superava di gran lunga il limite di parole di Cemetery Dance e veniva da una tale nullità – me stesso, nel 2006 – che non ho proprio idea di che cosa spinse Robert Morrish a sceglierlo dal traballante cumulo di fanghiglia nel quale si trovava. Voglio dire, in un certo senso sospettavo che fosse comunque un racconto fallito, lo spedii solo perché sapevo di non poterlo migliorare e avevo bisogno di togliermelo dalla scrivania in modo da poter andare avanti. Ma poi Ellen Datlow lo selezionò per The Year’s Best Fantasy & Horror e la storia intascò alcune candidature a premi importanti e quindi eccomi qui anche con tutti questi altri racconti, all’improvviso e del tutto inaspettatamente. Prima di tutto grazie ancora a Robert ed Ellen e, secondariamente, anche in questo racconto c’entra il mio amore per It di King, un libro che spero di non smettere mai di amare, un libro nel quale sono entrato venti anni fa e dal quale non sono mai realmente uscito. E il volume che i ragazzi leggono, quello che seppelliscono in un contenitore di plastica, è il Reader’s Digest’s Strange Stories, Amazing Facts. Probabilmente il libro in assoluto più importante della mia vita. Quando avevo dodici anni ero patito di The Enquirer e di quel genere di pubblicazioni e non ho mai nemmeno pensato che le storie sugli alieni, su Bigfoot potessero essere inventate – non ebbi mai alcun motivo di dubitarne, dato che a quel tempo tutte le cose che riguardavano la mia famiglia erano non meno bizzarre. The Enquirer fu davvero un’àncora, una specie di punto di riferimento. In quel periodo ero assolutamente convinto che ci fosse un tizio calvo con gli occhi verdi che viveva sotto le scale di casa nostra che si trovava in un perpetuo stadio di costruzione incompleta e c’erano notti in cui mi svegliavo perché delle teste di cervo si erano staccate dalla parete ed erano cadute sul mio letto, le vespe mi pungevano sul collo, i miei serpenti giravano liberi per la casa, il vicino seppelliva il mio cane vivo e l’unica cosa da fare, il posto migliore dove andare era fuggire negli spazi aperti. Come Gabe e gli altri spettri. È tranquillo là fuori, da solo. Bene. Finché non succede una cosa come quella che succede a Melanie, già. Per me è stata una totale sorpresa. Per come avevo più o meno pianificato il racconto – titolo originale The Gorgeous Ladies of Wrestling (il programma che il padre di Gabe stava guardando) – una delle loro storie (quella di Gabe) alla fine si sarebbe avverata e quindi loro avrebbero appreso il potere della narrazione. Tranne che poi ecco Melanie diventare Melody, inarcare la schiena per non cadere in acqua, e io ero totalmente sconvolto, dovetti abbandonare il racconto per un po’. Ecco perché, quando riprende, sono passati trentadue anni. Non volevo restare lì al bordo dell’acqua nemmeno un momento di più. Tranne che poi, come per il racconto del coniglio, quello è anche l’unico posto esistente. Come dovrà scoprire Gabe. E parlandone adesso, pensai che avrei sicuramente trovato un finale diverso, pensai che non avrebbe sicuramente funzionato, che, nel racconto, si sbagliavano tutti, però questo finale, con i capelli di Melanie che si protendono verso di lui, accidenti. Ancora adesso mi spaventa, mi fa intravedere con la coda dell’occhio cose a proposito delle quali mi devo ripetere che non è vero, che non esistono. Ma poi, ovviamente, devo comunque dare una sbirciatina.

Il lamento del capitano

Clarkesworld n°17, febbraio 2008

Non sono mai stato su una barca. Oppure bisogna dire «nave» se si parla di un’imbarcazione marina? Non ne ho idea. Non sono mai stato sul mare, sull’oceano. Il mio sogno, però, è vedere un giorno una balena. Ci penso un sacco. Abbastanza perché questa voce, Muley, sia stata di gran lunga quella più facile tra tutte quelle che ho sperimentato. Il suo modo di parlare obliquo e vagamente antiquato, lo stile nautico, mi sembrano più naturali di… no, l’unica altra voce che abbia mai creato e che suoni altrettanto naturale è stata quella di Francis Dalimpere in Ledfeather. Ma questo è Muley. E li ho scritti entrambi nello stesso periodo, già. Dentro un personaggio con un’indole così romantica c’è qualcosa che contagia anche il suo modo di parlare, sembra così giusto e vero, libero dalle consuete restrizioni. Per molto tempo Don Chisciotte è stato il mio libro preferito. Ma poi naturalmente, in Jaws, ho messo Muley in fondo alla stanza mentre fa stridere le unghie sulla lavagna. Ero fresco di un’ultima rilettura di Demon Theory, in particolare di tutte le note a Urban Legend, e ci è finito dentro anche questo. A parte il fatto che… non sapevo assolutamente come raccontare l’antefatto della più famosa tra le leggende metropolitane senza rivelare troppo presto la leggenda o toglierle improvvisamente ogni elemento orrorifico. Quindi l’unica soluzione è rendere l’antefatto altrettanto terrificante, altrettanto perverso e poi esprimerlo in uno stile per cui nessuno avrebbe chiesto che aspetto aveva o non aveva la mano destra di quel tizio.

Albero di carne

Dogmatika, primavera 2006

Penso sempre che questo racconto sia scritto al presente, perfino quando lo leggo e vedo tutti i verbi al passato e all’imperfetto. A me dà una sensazione di grande immediatezza. E credo che sia stato il primo racconto lungo che ho scritto e che non mi ha abbandonato, credo. No, ce n’è un altro che funziona – «Sterling City» – ma per questo potrebbe volerci il corsivo invece dei caporali… i romanzi brevi hanno diritto al corsivo? Comunque, quello è andato per le lunghe, aveva un problema metabolico, questo, invece, è riuscito a trovare il suo finale… probabilmente perché l’esposizione è in prima persona invece che in terza, cosa che rende più facile la narrazione. Almeno per me. E, a differenza di tutto il resto che scrivo – che inizia con una voce, una frase che mi si srotola nella testa – questo racconto in realtà è iniziato con un’immagine: l’albero drappeggiato di fette di carne su tutti i rami. Pensavo che assomigliasse all’albero dei bambini di Cormac McCarthy in Meridiano di sangue, amen. Credo che con la carne sia molto più interessante. Perché a questo punto bisogna chiedersi che genere di creatura lo lascerebbe lì e perché. Questa volta, semplicemente, il personaggio, il narratore, ha preso forma intorno a questo elemento, per rispondere a quelle domande e poi inquadrarle secondo i suoi termini personali. E forse più che in qualsiasi altro di questi racconti, il tizio sono io a vent’anni. Quasi per ogni dettaglio (a parte il fatto che non avrei mai potuto mangiare uno Slim Jim((È il marchio che produce una serie di snack costituiti da vari tipi di carne essiccata caratteristicamente tagliata a striscette, in confezioni sottovuoto. (N.d.T.) )) e, cioè, un Randy Savage((Fino al 2000, la pubblicità degli snack era affidata al famoso lottatore di wrestling Randy Savage, noto come Macho Man. (N.d.T.) )). E, a proposito del ragazzino scomparso – Jeremy – credo che si tratti di un senso di colpa per tutti i pali del telefono che per poco non ho quasi abbattuto con il trattore oppure i cui fili ho tirato fino a rimetterli in tiro. E quei pali del telefono era dove appiccicavano i volti dei ragazzini, giusto, no? È stupido, ma mi sono sempre, tipo, sentito in colpa per aver inciso quei pali con un macchinario a lame, oppure per aver sparato più e più volte contro di loro, o per aver scommesso che avrebbero preso fuoco. E poi sì, questo è il secondo racconto su qualcuno che si smarrisce nel bosco. E l’ho scritto precedentemente rispetto a quello sul coniglio. Se, prima, avessi riletto questo qui, mi sarei accorto che il bosco ce lo portiamo sempre dietro. Non si tratta di un’esperienza che fai e poi ricordi con piacere, quando hai tempo. È una cosa che si vive sulla propria pelle, ci si porta dietro dappertutto, sia che riguardi alberi di carne o ricevimenti per il tè. Se mai esistesse una teoria per spiegare quello che faccio, suppongo sia la seguente: tutto è importante. Soprattutto quello che non vorresti lo fosse.

Gli scomparsi

Phantom, a cura di Paul Tremblay & Sean Wallace (Prime, 2009)

L’ho scritto addirittura nel 2005, credo. Forse 2006. Ed è uno di quei racconti che non so assolutamente dove vadano a parare. In realtà, avevo solo una prima frase e un adolescente che la pronunciava, poi un motivo per dirla e il fatto che il motivo fosse un amico morto e poi che l’amico fosse morto in un modo piuttosto che in un altro e, tutto a un tratto, mi ritrovo a circolare in un furgone rubato e a passare davanti alla sala da bowling dove andavo da quattordicenne a Wimberley, Texas, il luogo in cui si era svolta metà della mia vita fino a quel momento, o così sembrava, e il modo in cui le cose rallentarono durante quel passaggio in macchina fu una sensazione così definitiva, proprio da «ultima volta», perfetta ed eterna. Ancora mi turba. E mi manca Tim, mi mancano tutti i Tim. E per chissà quale motivo la prima versione di questo racconto, tratta da Phantom e da Five Chapters, mi è sembrata magica, accidentale e blindata. Ma poi ho riaperto il file, per questa raccolta, e la prima metà mi ha dato un’impressione molto sconnessa, come se potessi vedermi mentre saggio lo specifico paesaggio narrativo, per cercare i varchi attraverso cui potermi introdurre in nuovi spazi. Come quando si accende un fiammifero dopo l’altro davanti a una serie di accessi, aspettando che una delle fiammelle guizzi con più vigore. Per due giorni ho stampato una versione dopo l’altra della storia e l’ho riletta fino a odiarla, poi la rilessi un altro po’ di volte e finalmente credo che in questo modo funzioni. Nel senso, cioè, che la prima parte va d’accordo con la seconda. E ringrazio un ex studente di secoli fa, Kenneth Simpson – credo – che me lo ha suggerito per primo dicendomi che se due sezioni minori venivano scambiate, allora era la stessa storia, no? Riflettei su questo fatto per tutto il giorno e poi dovetti convenire con lui e questo è stato il germe, il primo barlume del sospetto che, se quelle due sezioni potevano essere scambiate, a questo punto erano davvero così necessarie? E se non lo erano, allora cosa poteva esserci di ulteriormente superfluo? E quindi, sì, questa versione è la stessa storia della prima volta però – mi auguro – migliore.

Intercapedine

(perlopiù inedito)

O meglio ce n’è una versione, Gabriel, ma non funziona. Il che a volte succede, tranne che Gabriel arriva vicinissimo a funzionare e poi alla fine fa cilecca. Per una mancanza di coraggio da parte mia, non so. Oppure per semplice stupidità. Ma Gabriel era la seconda versione di questo racconto lungo, cioè è lo stesso racconto – era cominciato come una versione gemellare di Raphael, sarebbe stata una serie di racconti, ma poi non conoscevo altri nomi di angeli – tranne il fatto che è in cinque parti, di cui Gabriel è praticamente solo la prima. Nel racconto lungo arriviamo a vedere Gabe crescere, diventare cattivo e Quint vive in un appartamento di un condominio del genere «Forest Arms», quelli infestati dai fantasmi o comunque contaminato da lui. Era una ficata, però non sono più riuscito a gestirlo e c’erano poi tutte queste cose che succedevano, per motivi che, a una seconda lettura, non avevano molto senso se non quello di essere strani. In questo modo, però, non era una storia. Quindi sono felice di averlo rottamato. Venticinquemila-trentamila parole… ma chissene. C’è sempre qualcosa d’altro. A parte il fatto che non riuscivo a farmi uscire Quint e Gabe dalla testa. E volevo togliermeli di mente, non avevo proprio bisogno che affollassero i miei pensieri con le loro percezioni extrasensoriali strane, totalmente comprensibili, più vere del vero (credetemi). Ma ai tempi della prima stesura non sapevo assolutamente che una donna potesse avere gemelli anche da due padri diversi. Una volta l’ho sentito dire al notiziario o chissà dove – forse era Law & Order – e ho avuto chiaro in mente il modo in cui il racconto poteva funzionare. Di solito, per qualsiasi storia che si stia raccontando, la chiave di tutto sta nell’economia: bisogna ridurre il più possibile il numero dei personaggi e poi aggiungere un altro paio di persone. Ma in questo caso venne fuori che per il senso di colpa, la certezza e la paranoia del nostro amico era necessario che fosse realmente venuto al mondo e che lo perseguitasse, facendolo diventare qualcosa di diverso se solo se ne fosse fidato. E, in quanto a lui e a Tanya – la scena sgradevole – si tratta della mia personale mescolanza tra l’ottimo racconto di Robert Boswell The Darkness of Love e la dolorosa, terribile, meravigliosa scena che Louise Erdrich introduce in Love Medicine, nella quale Nector lascia sul tavolo della cucina un biglietto di addio-perché-in-realtà-non-ti-amo per la moglie Marie, poi cambia idea, torna indietro, la trova lì ma c’è anche il biglietto: lui lo aveva messo sotto il contenitore del sale o quello del pepe? L’intero racconto è costruito su questo, credo.

Traduzione di Chiara Vatteroni

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