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Si sa che il racconto è un’arte diversa da quella del romanzo, e chi per mestiere scrive romanzi finirà per trovare i suoi principali testi di riferimento in altri romanzi, più che in raccolte di racconti. Per me, tuttavia, ogni cosa comincia da un libro di racconti. Si tratta di Finzioni di Borges, che per primo – lo lessi che ero bambino, anzi lessi un solo racconto, La biblioteca di Babele, e solo dopo un po’ gli altri, ma l’incantesimo era già partito – mi fece capire che la letteratura ha a che fare con l’esplorazione dell’ignoto, con la ricerca della verità e con la costruzione di mondi: che è, insomma, qualcosa di sacro, su cui può valer la pena buttar l’esistenza.

Dovevano passare vent’anni perché decidessi di buttarcela veramente, ma insomma, se c’era un seme era per via di quel libro. Sarebbe però ozioso star qua a consigliare un indiscutibile capolavoro, che tutti hanno letto o che almeno sanno che dovrebbero leggere. Facciamo allora quel salto di vent’anni, anzi di ventitré: eccomi nel 2009, da poco ho pubblicato un libro con un editore che in cambio mi ha dato addirittura del denaro, e la possibilità, o almeno una voglia non più del tutto ingiustificata, di fare lo scrittore si profilava a levante. Già da qualche anno avevo cominciato a prendere le distanze dai primi maestri, un po’ perché lo sentivo inevitabile (sempre sputare in faccia ai padri, prima di tornare, poi, a riconoscere la loro grandezza a capino basso), un po’ perché in alcuni casi, ed è certamente quello di Borges, si era di fronte a un fatto quanto più compiuto, che poteva portare solo ad approcci epigonali e quindi a vicoli ciechi.

La mia attenzione in quel periodo si era così spostata tutta verso il realismo e verso la contemporaneità, volevo storie crude, attuali, che non guardassero in faccia nessuno, non perdessero tempo dietro a speculazioni filosofiche e mi fornissero filtri immediatamente utili a descrivere il mondo in cui vivevamo. Tra i tanti libri del genere che lessi in quel periodo, ce ne fu uno che mi attirò sia perché l’autore era del tutto sconosciuto – Donald Ray Pollock, sembrava più lo pseudonimo di un cantante honky-tonk che il vero nome di uno scrittore –, sia perché tra quarta, bandella e forse pure fascetta, l’editore italiano (che era ed è Elliot) spendeva o citava paragoni che apparivano senz’altro esagerati. Si paragonava questo Donald Ray a Raymond Carver, John Fante e Flannery O’Connor; si chiamava in causa pure Hemingway.

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Ammetto che lo presi per vedere quanto potevano essere stati sfacciati: quanto costui fosse in realtà lontano da siffatti maestri della forma breve. Toccò ammettere: non molto, anzi davvero poco. Il paragone ci stava tutto. Donald Ray Pollock, con i suoi disastrati bifolchi sullo sfondo della cittadina quasi fantasma del midwest chiamata appunto Knockemstiff, con i suoi ciccioni disposti a fare da

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bersaglio per le freccette pur di avere qualche amico, con i suoi laboratori clandestini di crystal meth molto tempo prima di Breaking bad, poteva sedersi al loro desco (arrivando, immaginavo, a bordo di un pickup, con un cappellino da camionista, una spiga tra i denti e un fucile a pompa nel cassone), e a testa alta, da veridico continuatore di una tradizione. Scopro oggi, proprio scrivendo questo pezzo e cercando su Google l’autore, di cui negli anni non avevo avuto altra notizia, che è stato recentemente insignito di una Guggenheim Fellowship, e che quindi potrà dedicarsi alla scrittura senza troppe preoccupazioni: una scelta intelligente da parte della commissione, tanto più utile a uno scrittore di racconti, e tanto più grata per uno che nella vita, esattamente come ci si aspetta da un personaggio del genere, ha fatto i lavori più duri, nei macelli e in industrie pesanti – circa l’aspetto, invece, Google mi mostra foto abbastanza distanti da quel che mi ero immaginato, ma comunque il pur invecchiato, pur incivilito Donald Ray non mi tradisce sul piglio da don’t fuck with me e sulla camicia a quadri.

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