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Scorrendo la lista dei libri che ho amato, scopro che con un piccolo sforzo, e un certo gusto per la semplificazione, potrei suddividerli in due categorie: i sorprendenti e i perfetti. Tra i primi, potrei mettere L’informazione di Martin Amis, Viaggio al termine della notte di Céline, e di recente Appunti da un bordello turco di Philip Ó Ceallaigh: sono libri che costringono a rivedere il modo di pensare alla scrittura, di immaginare una storia, di affrontare il mondo. Invece di porsi nel solco di una qualche tradizione, tendono a rompere i paradigmi esistenti, proponendo un nuovo punto di vista. La lettura di questi libri può risultare perfino dolorosa perché talvolta attaccano convinzioni profonde: finita l’ultima pagina, può succedere che si avverta la sensazione che niente potrà essere più come prima. Alzano l’asticella di ciò che si può fare con la lingua. Inventano problemi che nessuno si era posto fino a quel momento.

Ci sono poi i perfetti. Mentre li leggo, continuo ad annuire tra me e me, pensando: ecco, è proprio così che dovrebbe essere scritto un libro, è di questo che dovrebbe parlare, è questa la lingua che dovrebbe essere usata. Mi è successo tanti anni fa con L’insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera – avevo sedici anni, un’età in cui si è sorprendentemente ricettivi – e poi con Pastorale americana di Philip Roth: è stato come arrivare in un paese che avevo sognato nei minimi dettagli e che non avevo mai raggiunto. Ragionando da scrittore, si potrebbe dire che leggendo un sorprendente si pensa: avrei voluto scriverlo io; di fronte a un perfetto, avrei dovuto scriverlo io.

Dovendo collocare in uno di questi gruppi Brevi incontri con il nemico di Saïd Sayrafiezadeh (traduzione di Gioia Guerzoni, Codice Edizioni, 2016), sceglierei senza dubbio quello dei perfetti. In un celebre saggio uscito nei primi anni sessanta, un giovane Philip Roth (quasi un ossimoro: risulta difficile immaginare la giovinezza di un autore che sembra nato con tutti i denti in bocca), guardando l’America in cui viveva, pur ammettendo la difficoltà di raccontare un mondo talmente grottesco da superare la fantasia di un romanziere, si domandava: di cos’altro dovrebbe parlare, uno scrittore, del paesaggio? E probabilmente Sayrafiezadeh deve essersi fatto una domanda simile, decidendo infine di affrontare ciò che non può essere eluso, cioè la realtà, scoprendola, svelandone le contraddizioni laceranti fino a scarnificarla.

Unknown

Questa raccolta di otto racconti parla dell’America contemporanea, e concentra la propria attenzione su due aspetti centrali, per certi versi fondativi, della vita di questa nazione, il lavoro e la guerra, che continuano a incrociarsi, e a scontarsi, sulla pelle dei personaggi. Il mondo scelto da Sayrafiezadeh, lo scenario che fa da sfondo a tutte le storie, è quello di una città americana di medie dimensioni dove la periferia, sfiancata dalla disoccupazione o dall’occupazione precaria, è separata dall’uptown da un ponte che i personaggi percorrono più volte, avanti e indietro, seguendo sogni di riscatto – inutilmente. Tra queste strade deserte, nelle case fredde e abusive, attorno ai Walmart, sotto un cielo sempre troppo freddo o troppo caldo, si muovono immigrati clandestini, ex studenti brillanti che hanno perso l’occasione giusta, cuochi in fast food comandati da tiranni, donne cleptomani, geometri molestati sessualmente dal loro capo, dipendenti sottilmente disonesti. È un’umanità che ha fallito nel tentativo di realizzare il sogno americano e che ora vive malamente la propria resa incondizionata: vedono la ricchezza come se fosse a portata di mano, ma non riescono a vedere qual è la strada per arrivarci.

Ciascuno di loro finisce, prima o poi, per venire in contatto con la guerra, una guerra mai chiamata per nome e dall’esito sempre incerto: a trionfali marce verso la capitale seguono clamorose ritirate. I notiziari continuano a riportare i bollettini delle perdite giornaliere, come l’indice di una borsa. Ma è proprio la guerra che fornisce la possibilità di riscatto. Immersa in un patriottismo che scatta in automatico di fronte a un soldato (ma che si stanca presto: alla manifestazione per accogliere la seconda ondata di reduci non c’è nessuno), l’America premia i figli che decidono di partire per il fronte donando loro un attimo di gloria. Nei Walmart si organizzano feste con bandiere e torte a ogni partenza e a ogni ritorno; anche il fattorino a cui nessuno aveva mai fatto caso diventa improvvisamente un eroe quando decide di andare in guerra.

La verità era che nessuno di noi era entrato nell’esercito per i motivi giusti. Forse potevo averlo pensato all’inizio, quando ero andato al Career Center e avevo firmato le carte e fatto la visita e preso il volantino che prometteva «un’esperienza che vi cambierà la vita», con cinque o sei ragazzi in uniforme che sembravano divertirsi un mondo su una spiaggia. Non c’era voluto molto a illudermi, anche perché tutti si congratulavano perché quella decisione era all’altezza dei miei ideali. Chi poteva contraddirli? E alla mia festa pre-partenza c’erano trecento persone che cantavano: «Luke! Luke! Luke! U.S.A.! U.S.A.!». C’era gente che non mi aveva mai rivolto la parola, con cui non avevo mai nemmeno incrociato lo sguardo in ufficio, incluso il direttore. Ora facevano finta di aver sempre saputo come mi chiamassi, come se fossi un divo del cinema che faceva una comparsata nella ditta.

Ma nessuno pare domandarsi cosa facciano, in concreto, i soldati al fronte: noi lettori lo scopriamo nel racconto più amaro, e forse più bello, del libro, che in qualche modo dà il titolo all’intera raccolta: Breve incontro con il nemico. Qui un soldato, anche lui dipendente di Walmart (l’azienda più grande del mondo, con 2.200.000 dipendenti, più degli abitanti dell’intera Calabria), si trova impegnato nella costruzione di un ponte per raggiungere una collina dove si nascondono, dice il sergente che li comanda, ottocento ottanta nemici.

Non avevamo idea di come fosse arrivato a quel numero. Era così preciso che doveva essere vero. […] Ma la verità era che nessuno voleva davvero che il ponte fosse completato, perché nessuno voleva andare sulla collina. Non era una cosa che ci dicevamo apertamente, ma lavoravamo nel modo più lento e incompetente possibile. Facevamo cadere gli attrezzi nella vallata. Una volta avevo fatto cadere la fiamma ossidrica. Mi era scivolata di mano come una saponetta, ed era rotolata sul fianco della collina fino a scomparire nell’abisso.
«Sai quanto costa quella fiamma ossidrica?» aveva urlato il sergente. Urlava come se avesse scucito i soldi di tasca sua. Urlava come se avessi buttato sua figlia nella valle. Mi fissò così a lungo – a due centimetri dalla faccia, con il fiatone, come se avesse appena fatto una gara di corsa, e l’alito che sapeva di uova in polvere – che pensai mi stesse chiedendo davvero se sapevo quanto costava.
«Centotrentacinque dollari?» tirai a indovinare.
«Costa quaranta dollari» mi corresse, colto alla sprovvista
Non sembrava poi questa gran cifra.
«Dovrei buttarti giù nella valle» disse. Mi fece fare delle flessioni, lì sul posto, trenta flessioni. Mi misi a terra, ma non ci riuscivo. Mi ordinò di togliere lo zaino, ma non riuscivo lo stesso, e si incazzò ancora di più. Mi mise a pulire i bagni, che a me stava bene. Avrei potuto pulire cessi fino alla fine del mandato e sarei stato felicissimo. Avrei potuto pulire cessi per il resto della vita. Qualsiasi cosa pur di non andare su quella collina e combattere con gli ottocento ottanta nemici che ci aspettavano.

In tutti gli altri racconti, la guerra è il convitato di pietra, una presenza ingombrante di cui però si sa poco o nulla; ma quando finalmente ci viene parata davanti, scopriamo la sua insopportabile e straziante inutilità. Non esiste alcuna grande missione da compiere. E nessuno ci crede veramente. Quando il ponte viene completato, si scopre che nella collina dall’altra parte della valle non c’è nessuno. È impossibile non pensare a una scena di un altro libro perfetto, Cuore di tenebra di Joseph Conrad, nella parte in cui Marlow si sta avvicinando all’Africa:

Una volta, ricordo, ci imbattemmo in una nave da guerra ancorata al largo della costa. Non c’era neppure una tettoia, lì, e stava cannoneggiando la boscaglia. Era chiaro che i francesi stavano combattendo una delle loro guerre in quelle parti. La sua bandiera pendeva floscia come uno straccio; le bocche dei lunghi cannoni da sei pollici sporgevano da tutto lo scafo basso; il mare lungo, untuoso, limaccioso, la sollevava pigramente e la lasciava ricadere, facendo oscillare gli alberi sottili. Nella vuota immensità di terra, cielo e acque, era là, che sparava, incomprensibile, contro un continente. Bum, faceva uno dei cannoni da sei pollici; una breve fiammata dardeggiava e spariva, un po’ di fumo bianco svaniva, uno snello proiettile gettava un sottile sibilo — e non succedeva niente. Non poteva accadere niente. C’era un tocco di follia in quell’operazione, la sensazione di un macabro scherzo in quella visione; e non venne dissipata da qualcuno che a bordo mi assicurò in tutta serietà che c’era un accampamento di indigeni — lui li chiamava nemici! — nascosto alla vista chissà dove.

[Trad. Flaminio Di Biagi, Newton Compton Editori]

Ma la tragedia verso la quale scivola la barca di Marlow – un mondo primordiale sconvolto dalla follia di Kurtz – nella sua mostruosità ha ancora qualcosa di titanico e vitale; nel XXI secolo, l’orrore assume le forme del nulla. Il personaggio del racconto passa settimane e settimane in attesa di qualcosa che non arriva. Alle 19.12 dell’ultimo giorno al fronte, il breve incontro con il nemico:

Fu in quel momento che lo vidi. All’inizio non capii che cosa fosse. Pensai a un animale. Vedevo solo dei piccoli movimenti nella prateria, più o meno a un chilometro di distanza, l’erba che si increspava. È soltanto il vento, pensai. Misi giù il sandwich e presi lo zaino. Estrassi il binocolo con le mani tremanti, e dovetti unire i gomiti per mettere a fuoco. Finché non lo vidi. Un uomo alto, grasso, sulla cinquantina, forse più giovane: il nemico. (…)
Lo osservai nel reticolo. Era a millesettecento metri di distanza. Era alto uno e settantasette. Si scrollò, chiuse la patta e s’incamminò con calma lungo la sponda verso la prateria. Ben presto fu a millenovecento metri di distanza.
Poi si voltò verso le pianure, verso l’erba alta, e proprio quando stava per scomparire per sempre, misi il dito sul grilletto. Puf. Il fucile vibrò delicatamente lanciando il suo messaggio.
L’uomo barcollò e cadde a faccia in giù. Successe così in fretta che pensavo fosse inciampato. Di certo non potevo essere stato io. Ma poi una pozza di sangue cominciò ad allargarsi sotto di lui.
La pecora o la capra non erano né una pecora né una capra, ma un bambino. Correva intorno al corpo, in un cerchio di panico. Lo osservai nel reticolo. La sua isteria aumentò tanto che sembrava potesse scavare una buca nel terreno con i piedi. Scomparve nell’erba alta, e un secondo dopo tornò per sollevare il braccio dell’uomo e cercare di trascinarlo. Ovviamente non ci riuscì e per un attimo pensai di correre lì ad aiutarlo. L’avrei aiutato e poi avrei mandato una mail a Becky per raccontarle cosa avevo fatto.
«Cara Becky, oggi ho aiutato uno dei bambini del posto».
Puf.
Il bambino cadde di colpo, come se si fosse sciolto in una pozza di sangue. Non si muoveva più. Era l’uomo a muoversi adesso, e a cercare di rialzarsi, ma era evidente che non ne aveva le forze. Poi rimase immobile, come se stesse riposando. La pozza di sangue si allargò nell’erba alta. (…)
Era quasi del tutto buio, e al buio sentivo mio padre che ripeteva di continuo «Cos’hai fatto, Luke? Cos’hai fatto nelle ultime due o tre ore?».
Niente, non ho fatto niente.
Il giorno dopo rientrammo in gran stile, proprio come ci era stato promesso.

Niente, non ho fatto niente. La distanza tra i centri commerciali organizzati come delle caserme, in cui il nemico è la mano invisibile del libero mercato, e il fronte, oltre il quale si muovono uomini ai quali non si riconosce neppure il diritto all’esistenza, nel senso ontologico del termine, è minima, quasi impercettibile. I principi sui quali si basa la sedicente «democrazia più grande del mondo» producono Walmart e droni, CEO e generali, senza soluzione di continuità. E talune affinità con Tempo di uccidere di Ennio Flaiano, romanzo sulla disastrosa avventura italiana nell’Etiopia del 1936, gettano una luce sinistra sulle guerre dei nostri giorni.

Brevi incontri con il nemico è una raccolta di racconti compatta con la quale Sayrafiezadeh sceglie di eseguire un profondissimo carotaggio in un unico punto della superficie dell’America, piuttosto che dipingere un affresco onnicomprensivo – e in questo senso la forma del racconto, più tagliente e affilata, diventa strumento necessario. Se in qualche momento l’omogeneità dei temi trattati rischia di essere eccessiva, l’ironia dolente e sottilmente feroce che pervade tutti i racconti riesce a riequilibrare il risultato finale.

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