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«Vigevano (Avgevan in dialetto vigevanese) è un comune italiano di 63.412 abitanti della provincia di Pavia in Lombardia. Tra i più importanti centri industriali dell’intera Lombardia, Vigevano è nota in tutta Italia per essere stata a lungo uno dei principali centri di produzione di scarpe. Ivi vi sorse, nel 1866, il primo calzaturificio a modello industriale, aprendo una stagione che nel secolo successivo avrebbe portato il capoluogo lomellino a produrre decine di milioni di scarpe esportate in tutto il mondo.» (Fonte: Wikipedia).

L’enciclopedia del web coglie in modo involontariamente ironico quello che Ivan Ruccione cerca di trasmettere col suo romanzo d’esordio A fuoco vivo, o almeno la prima parte di un ragionamento che viene dispiegato nelle 168 pagine pubblicate da Miraggi Edizioni. La cittadina lombarda è famosa soprattutto per aver esportato milioni di scarpe in tutto il mondo e non tanto per aver dato i natali allo scrittore Lucio Mastronardi o per ospitare una delle piazze più belle della Penisola, quella piazza Ducale progettata da Leonardo su commissione di Ludovico il Moro nel 1492.

A-fuoco-vivo

Una specie di goffo fraintendimento vive anche nella Vigevano di Ruccione, appassita sotto il sole – si fa per dire, in quelle lande lombarde c’è giusto un pallido ricordo della stella più importante – della crisi economica che ha trasformato l’atmosfera di storia e cultura in un «cielo grigio, tanto grigio che sembra d’un grigio tossico».

Non solo il cielo, ma più verosimilmente la gente sotto quella cappa opprimente ha perso ogni istinto di solidarietà. La cocaina e le slot machines, i bingo, l’alcol scadente e gli strip club, uomini e donne di origine meridionale che si esibiscono in un perfetto vigevanese fingendo di esser nati in Lombardia; cocktail di calcio e sterili routine provinciali unite a pedofilia, prostituzione e all’odio per i nuovi immigrati, quei nemici invisibili che si aggirano per le strade senza lasciare il segno nell’intreccio delle storie. Sono le aspirazioni e le direzioni di anime gobbe che si muovono come fossero nella Edimburgo di Irvine Welsh nel Lercio: caricate di un fardello insostenibile perché esistenziale si spingono sempre più in là nel reiterare stancamente i propri errori.

Proprio come il fardello del protagonista, Mariano Li Cani, cuoco e aspirante scrittore, padre e marito fallito, alla ricerca dell’uomo che è in lui. Alla ricerca di un se stesso che probabilmente non troverà mai ma che vuole scorgere disperatamente nei personaggi che gli gravitano attorno. Proprio come l’autore che scandaglia se stesso e il proprio stile attraverso le sue creature letterarie, mischiando fiction e autofiction e inscrivendosi nel frangente di quella tradizione americana in cui Arturo Bandini e Henry Chinaski si incontrano. Fante e Bukowski sono due scrittori immigrati alla ricerca di una terra promessa dove esaudire le proprie aspettative; e dopo la cocente delusione i rispettivi personaggi continuano ad amare la propria città con tutta la dose di cinismo e insoddisfazione che questa porta con sé. E pare proprio che il terrone Mariano Li Cani compia la medesima parabola, disilluso dalla pochezza sbiadita di Vigevano, eppure ancora calamitato da una cittadina che riesce a incantarlo con le sue mostruosità e le docili imperfezioni.
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Tutto è umido e cupo nel deserto che gli anni Duemila hanno regalato all’Italia. Persino la ristorazione – «l’unica cosa seria in questo paese», per citare Boris – è un ricettacolo di invidie, incompetenza, sfruttamento del lavoro, razzismo. Anche il sesso è corrotto, un’esperienza squallida come lo scolo di bottiglia di un liquore rancido. Forse per questo il protagonista non riesce a farlo, e non tanto per il ricordo della moglie Ines che rianima a ogni respiro il sangue vivo delle sue ferite, ma perché in una simile incomprensione ecumenica niente ha più senso. Forse solo la scrittura può redimere il narratore oppure il ricordo della figlia Nora o forse soltanto il beneficio della lettura, forse.

Quel che rimane è un guazzabuglio di traiettorie di vita che Mariano Li Cani non riesce mai a seguire fino in fondo, perché a destinazione c’è sempre l’idea della morte o, peggio, di una fine insignificante:

«Dunque ho fatto scattare alcune disposizioni forzate: ho preso uno dei pochi pezzi d’intelligenza che mi è rimasta e l’ho vestito con una tuta bianca. Gli ho fatto indossare un paio di guanti in lattice, gli ho messo sulla bocca una mascherina chirurgica. Il compito che gli ho assegnato è quello di ispezionarmi da cima a fondo, verificare quale pensiero sia rimasto acceso e non sia stato trucidato.

In una busta trasparente, che sembra quella di un reperto autoptico, un pensiero volteggia, pulsando come una lucciola, in cerchi irregolari.

Lo afferro, lo alzo sotto gli occhi e lo scruto: m’ammazzo, m’ammazzo, m’ammazzo».

La capacità di costruire immagini, creare scarti o deviazioni dal linguaggio comune sono la cifra del romanzo e senz’altro gli aspetti più funzionanti della macchina A fuoco vivo. Non se ne abusa mai, e forse si dovrebbe dal momento che l’immaginario dello scrittore sa pescare nel fervido, talvolta con precisione clinica:

«Il cielo notturno non mi pare altro che un sacco nero in cui sono in trappola. Nemmeno lei, la notte, sembra più dalla mia parte. Ci vuole coraggio, penso, ci vuole coraggio per continuare a camminare stancamente in questo immondezzaio di esistenza, e io non so se ce l’ho, il coraggio».

L’universo di Mariano Li Cani è in bilico su una pedana propriocettiva che invece di raddrizzare la spina dorsale lo sbilancia pericolosamente da una parte all’altra. Allo stesso modo la sua storia si spacca a metà nel cuore del romanzo: nella prima parte si svolge tutto sulla riviera romagnola e la cucina è l’elemento dominante, la gabbia dentro cui si agita l’esistenza tormentata del protagonista; il luogo della disperazione dove subire o infliggere angherie è apparentemente il doppio volto di una stessa medaglia. Ma è solo nella seconda parte, quella ambientata nella Vigevano di Ruccione, che il climax si compie e Mariano Li Cani assume sembianze goth affettando cattiveria e allo stesso tempo buon cuore, come fosse uno dei Warriors di Coney Island trapiantato nel lomellino con ambizioni letterarie.

La missione della scrittura e la sua sacralità, in quanto unico altare a cui sacrificare lo scorrere di una vita essenzialmente mortificante, sono l’anima di ciò che muove Mariano Li Cani e Ivan Ruccione o quasi, potremmo dire, Mariano Ruccione e Ivan Li Cani. Alla fine, la stella polare e l’attracco di A fuoco vivo sembrano essere racchiusi in ciò che disse Emil Cioran: «Lo scrivere, per poco che valga, mi ha aiutato a passare da un anno all’altro, perché le ossessioni espresse si attenuano e in parte vengono superate. Sono certo che se non fossi stato un imbrattacarte mi sarei ucciso da un pezzo. Scrivere è un enorme sollievo. E pubblicare anche».

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