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Marinai, ciechi, mendicanti, zoppi, operai disoccupati, un ballerino con moglie chiromante, un falco impagliato, vecchie che ballano: questi e altri animi randagi, improbabili attori (o bersagli) di un destino tragico, sono i protagonisti dei racconti di Arturo Loria dai quali non intendo separarmi mai.

Nato a Carpi all’inizio del secolo scorso, fiorentino d’adozione, Loria porta sulla pagina un mondo un po’ fantastico e un po’ squallido, talvolta soffocante, cristallizzato, che sembra privo di passato e futuro. Una realtà costruita dai dettagli, piccoli incanti che possono trascinare nel nulla, nel sogno o nell’insania. Insomma, la sua è «un’estetica di stracci appesi alla luna» come scriveva Emilio Cecchi riferendosi al primo Loria su Pegaso nel 1929.((Da introduzione di Rocco Carbone, La scuola di Ballo, Arturo Loria, Sellerio Editore, Palermo, 1989.))

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E così alla domanda Quale raccolta di racconti – trascurata o dimenticata – ha segnato la tua vita come lettrice e scrittrice rispondo senza dubbio La scuola di ballo che rappresenta per me uno di quei libri-compagni-luoghi-mappe nei quali, nonostante siano trascorsi ventidue anni dalla prima lettura, torno a rifugiarmi. Erano appena iniziati gli anni ‘90 e con loro il mio primo anno di liceo al Conservatorio di Milano. Accanto alle letture scolastiche previste dal programma ministeriale di italiano la nostra professoressa Silvia Tomasi, (autrice, fra il resto, di Il bello della bestia: Saggi Sulle esitazioni del Fantastico, Transeuropa, 1998 e di Arturo Loria, storia di un ebreo narrante, Monte Università Parma, 2008) ci somministrava qualcosa di diverso e in piccole dosi: i racconti. Quasi d’amore di Bontempelli, Il mar delle blatte di Landolfi, La morte e la bussola di Borges, Le Milesie di Schwob… uno a settimana, non di più, perché potessimo lasciarlo agire sulla fantasia.

Fu durante una di queste letture che incontrai quello che ancora oggi resta uno dei miei racconti preferiti di Arturo Loria, La serra: è una freddissima sera d’inverno, un giardiniere raggiunge la serra in cui lavora per coprire il turno di notte. Qui trova i compagni intenti a occuparsi di una vecchia mendicante che hanno trovato quasi assiderata non lontano da lì. Gli uomini non vedono l’ora di tornare alle loro case e così gli affidano l’anziana. Il giardiniere, da poco vedovo, si fa coinvolgere dai racconti della donna che gli narra del suo passato, del palazzo con giardino nel quale viveva e dell’accusa di avere avvelenato il marito.

«”Adesso capisco dove sono” riprese la vecchia. “Sono in un giardino. Anche io ne avevo uno molto bello nel mio palazzo. Allora l’inverno non mi faceva paura.”
[…] Ad ogni domanda il giardiniere sentiva un godimento aggiungersi alla sua pietà, il godimento di sentirla, nell’ombra, vicino a sé non come una mendicante ma un’antica padrona ritrovata in gran miseria, che si abbandonasse al proprio giuoco di rivendicazione del passato lontano con un’esaltata volontà da subir dolcemente per farle piacere.

Incredulo prima, incantato poi, il giardiniere si lascia avvolgere dalle ombre della sera e dal calore femminile di cui ha bisogno.

Quel riposo accanto alla vecchia gli sembrava più un sogno che una realtà, e pur tentato, resisteva alla voglia di distogliere lo sguardo dall’alto per osservarla ancora nel volto grinzoso, nella bocca sdentata, nei cenci da mendicante.
[…] Bastava un pencolar del capo a buttarlo vicino a lei con la voglia di addormentarsi al suo fianco come in un letto di madre ritrovata per miracolo, ma la coscienza del dovere da compiere lo tratteneva in una desolante rinunzia.

Ma poi i compagni, insieme alla luce del mattino, ritornano e l’incantesimo si infrange.

Voleva difenderla da quel trattamento che l’avviliva e faceva di lei una mendica anche ai suoi occhi, ma il capo amava mostrarsi duro, talvolta, e i compagni sopraggiunti eran fermi sulla porta e sogghignavano, vogliosi di indovinar qualcosa della nottata dal suo contegno del mattino. Si sentì meschino, temette di esser ridicolo. Guardò fuori di un finestrone: nel cielo freddo nasceva il sole e l’inverno non aveva più alcun orrore.

La vecchia, intimidita di tanta gente nuova cercava il suo amico della notte, ma quello, adesso, attizzava la stufa, le volgeva le spalle.»(( Arturo Loria, La scuola di Ballo))

La serra è il quinto racconto che insieme a Il caffè arabo, La casa ritinta, La parrucca, Il muratore stanco, L’ora sul mare, La danza sul prato, Il fratellino, La scuola di ballo, compone appunto il libro uscito nel 1932 La scuola di ballo (e preceduto da altre due bellissime raccolte Il cieco e la bellona del 1928 e Fannias Ventosca del 1929).

A rileggerlo oggi il legame che ho con questo libro, con una scrittura che insiste sui sensi, sul tempo, sulla vecchiaia, sui dettagli, sulle pulsioni fisiche – mai troppo liete nemmeno quando i corpi sono quelli dei giovani – è per me ribadito. Quelle di Loria sono storie riflessive, nelle quali compaiono attimi di dolcezza inconsueta, scenari e oggetti che vivono e vedono quanto i personaggi.

Picareschi e avventurosi prima, più cupi e pessimisti poi, i racconti di Arturo Loria sono un patrimonio prezioso e complesso fatto di sguardi, interpretazioni e idee narrative. Un patrimonio purtroppo difficile da incontrare oggi in libreria ma non privo di fascino e mistero entrambi decisamente attuali.

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