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Sono uno scienziato, parola grossa, altisonante, ma che rivendico inflessibilmente come titolo. Per favore, almeno questo. Faccio il ricercatore, ricerco da diciannove anni, non ho mai trovato nulla. Non è che non sia bravo, o che mi manchino i mezzi, è che nella vita, in tutte le questioni della vita, se non hai fortuna ti puoi spremere come un limone, puoi stillare tutto il sudore che hai, fino a prosciugarti, disseccato come un pezzo di cartone nel deserto. Puoi rimboccarti le maniche fino alle orecchie e usare barili di olio di gomito, puoi aguzzare il tuo ingegno, renderlo penetrante come un spillo rovente, pronto ad affondare nel burro della tua meta, puoi applicare metodologie tradizionali, consolidate, sofisticate, innovative, sperimentali, futuristiche, puoi meditare, pregare, implorare, imprecare, puoi fingerti distratto in modo da ingannare la sorte e coglierla a sua volta distratta, così da poter sgusciare dalle strette maglie della sua rete che tengono te e tutte le tue speranze saldamente imbrigliate all’insuccesso. Non serve, è inutile, tutto questo nulla può contro la decisione presa dal fato. Questa stabilisce che se, interrotto l’accanimento lavorativo, si fosse rimasti a casa a controllare il variare della temperatura del frigorifero in funzione di quella ambientale, annotare la progressiva perdita giornaliera in lumen della lampadina alogena del soggiorno, appurare se la crescita del geranio posto sulla finestra della camera da letto è maggiore o minore di quella del suo omologo situato sul terrazzino, rendicontare il diversificato consumo della carta igienica al cambiamento stagionale della dieta, si sarebbe ottenuto un risultato di pari significato e rilevanza.

Sapete cosa vuol dire svegliarsi ogni mattina, di ogni giorno, di ogni settimana, di ogni mese, di ogni anno, e, tolte le vacanze, per diciannove anni, entrare nei laboratori, tra provette, vetrini, microscopi, topi, cavie e altri animaletti, schermi di computer, insulsi o pericolosi microrganismi, tornando a casa la sera con la mediocrità che ti tiene a braccetto. Non consola aver portato a compimento un lavoro di squadra, una ricerca, una statistica, una catalogazione, uno studio che chiunque al posto tuo avrebbe potuto portare a termine con gli stessi risultati. E non riuscire a smettere di desiderare ardentemente il raggiungimento di un traguardo personale, anche uno solo, che scolli dalle facce dei tuoi colleghi quell’espressione invisibile e manifesta che dice: lo sappiamo, non ti accalorare, ce la metti tutta ma non è necessario, lascia perdere, prendi atto dunque che un ronzino non è fatto per vincere gran premi ma per tirare la carretta.

Converrete con me quindi, che quanto potei osservare, non tra le algide pareti di un laboratorio ma tra le assi della staccionata della piccola fattoria di mio zio, costituì sufficiente motivo per il mio fiuto di scienziato per attivarsi al massimo livello.

Definire fattoria la casetta in campagna di mio zio è forse eccessivo, quattro capre, un pollaio, un piccolo orto e un praticello delimitato da un recinto, questo è tutto ciò che di agreste si affianca a una normalissima villetta a due piani. Ci è andato a vivere, non per fare il contadino, attività dalla quale è molto distante per indole e per prestanza fisica, quanto invece per la necessità di reperire un alloggio che fosse in linea con le modeste possibilità offerte dalla sua pensione. L’aggiunta di quella animalesca compagnia si deve a uno di quei malinconici moti di rinnovamento che a volte accompagnano l’essere umano in età tarda.

Al di là di quel recinto, i cui cornuti abitanti stavo osservando con annoiata fissità dello sguardo mentre piluccavo un grappolo d’uva, notai un comportamento del caprone che mi diede da pensare. Era intento a montare le tre capre. Un po’ minacciando un po’ seducendo con goffi saltelli e sbuffi, qua e là qualche cornata a chi cercava di sottrarsi, saliva e scendeva senza soluzione di continuità su e giù da quelle poverette che non sembravano mosse da pari ardore erotico, tant’è che appena potevano tornavano a brucare l’erba e a guardarsi attorno con quei loro occhi attoniti, come a voler dire: Ma avete visto? Ma nessuno fa niente per porre fine a questo scandalo?

Restai a osservare la scena, non certo con finalità voyeuristiche, piuttosto in curiosa attesa della fine di quell’esibizione di vitalità. Continuando a masticare gli acini d’uva, mi spostai all’ombra del fico. Attesi una mezz’oretta, la scena non cambiava di una virgola. Sputai un paio di semi chiedendo a mio zio:

«È la stagione degli amori?»

«Macché! È sempre così, non fanno altro, quel caprone è un vero toro!»

«Dici che è così tutti i giorni?»

«Tutti i giorni! Con il caldo e con il freddo, con il sole e con la pioggia, dalla mattina alla sera. Ho provato a separare il maschio ma diventa una furia, si spacca la testa a forza di cornate al muro, allora l’ho rimesso insieme alle altre, in fondo che male fa poverino? Almeno se la spassano un po’.»

Tornai a guardare la scena, l’implacabile cornuto campione assestava colpi con un piglio professionale, metodico, inesorabile. Sembrava nato per quello.

«Ti risulta sia un comportamento caprino?» chiesi sempre più interessato.

«Ho chiesto a un tipo che sta poco lontano e di capre ne ha una quantità, mi ha detto che le sue non fanno così, mi ha anche chiesto di venderglielo come stallone da monta, ma non ho voluto, mi ci sono affezionato, a parte questa sua, diciamo mania, è molto tranquillo e sembra volermi bene.»

«Hai fatto bene zio, hai fatto bene, i sentimenti prima di tutto»risposi senza staccare gli occhi da quel portento ormonale.

«E non si stanca mai? Voglio dire, deve essere faticoso, lo sforzo delle zampe, dei muscoli, il fiatone, insomma lo sai no?»

«Sì, sì ho capito» rispose con fare da uomo di mondo «quello che succederebbe a tutti, è una bella fatica, ma lui no, non si stanca, si ferma per mangiare, dorme tre o quattro ore al giorno e poi hop! Si ricomincia.»

Metodicamente, tramite le opportune domande poste a mio zio, presi in esame i vari possibili motivi che avessero potuto scatenare quella furia amorosa. La cosa andava approfondita:

«Ci sono campi elettromagnetici nelle vicinanze?»

«No.»

«Questa zona in passato ha ospitato centrali nucleari o depositi di scorie?»

«No.»

«Lo stallone ha fratelli che si comportino in modo simile?»

«No.»

«Le altre tue capre hanno strani comportamenti?»

«No.»

«Ci sono contadini o allevatori del circondario che raccontano anomalie comportamentali, anche in tempi passati, dei loro animali?» «No.»

«C’è stata caduta di meteoriti?»

«No.»

«Caduta di velivoli aerei o incidenti con autocisterne il cui carico si sia riversato nel terreno?»

«No.»

«La tua casa o il ricovero delle capre è stato colpito da un fulmine?»

«No.»

«Ti risulta la presenza di falde acquifere che siano state in qualsiasi modo contaminate?»

«No.»

«Nelle vicinanze c’è una zona militare?»

«No.»

«Fai uso di pesticidi?»

«No.»

«Ci sono discariche da queste parti?»

«No.»

Lo zio, domanda dopo domanda, assumeva un’aria sempre più preoccupata e ombrosa, me ne accorsi e alleggerii quello che sembrava un interrogatorio con una battuta:

«Che gli dai a colazione, il Viagra?»

Fui folgorato da una scossa, come d’allarme scientifico.

«Zio, che cosa mangiano le tue capre?»

Fiutavo la soluzione, l’atto di genio è spesso frutto di un’intuizione che arriva di getto, senza bisogno di qualsiasi elucubrazione.

Venni dunque a sapere che il buon zio nutriva le capre, un poco con l’erba del suo praticello, un poco portandole al pascolo di proprietà del comune. Esaminai sommariamente la vegetazione all’interno del recinto. Raccolsi alcuni campioni di prato e alcuni esemplari di fiori ed erbe matte. Chiesi poi allo zio di portarmi al terreno di proprietà comunale adibito a pascolo. Pochi minuti di passeggiata ci condussero su un ampio campo in parte scosceso, un misto di prato e roccia con qualche alberello qua e là. Il campionamento vegetale si presentava complesso. La presenza di una quantità di diversi cespugli, zone miste di macchia mediterranea e vegetazione collinare, richiedeva una mappatura del terreno e tempi di raccolta che la giornata, ormai prossima al tramonto, non consentiva. Il giorno dopo, di buon’ora mi ripresentai alla fattoria con l’occorrente: contenitori sigillabili di varie dimensioni, alcuni refrigerati, sacche trasparenti in plastica che con un minuscolo aspiratore diventano contenitori sottovuoto, guanti da laboratorio, mascherina protettiva, pinzette, cesoie, varie lenti d’ingrandimento, un piccolo microscopio per eventuali osservazioni sul posto, alcune cartine di tornasole e reagenti vari, stick per l’analisi delle urine delle capre, scatole per la raccolta di urine e feci, siringhe e provette per l’analisi del sangue, bicchierini per la raccolta di sperma, una macchina fotografica, una cinepresa, una quantità di etichette, buste nere di plastica, block notes, due bottiglie di vino buono per farmi perdonare il fastidio dallo zio.

Passai così tutta la mattina e buona parte del pomeriggio a raccogliere, campionare, analizzare, filmare, inscatolare, osservare, annotare, compilare, fotografare, tagliuzzare, pungere, aspirare, immergere, imbustare, impacchettare, annusare, assaggiare, di nuovo annotare, etichettare, sorseggiare il vino che mio zio sconsolato e silenzioso aveva stappato e continuava a offrirmi, forse con la speranza che la facessi finita con tutto quel fervore che sembrava metterlo a disagio. Naturalmente osservai minuziosamente il momento del pasto delle capre. Calcolai anche le quantità dei diversi cibi ingeriti, cercando di disturbare gli animali il meno possibile per non alterare l’attendibilità del rilievo.

Quando ebbi finito chiesi se alle capre venisse dato qualche alimento extra o qualche integratore. Lo zio mi fece vedere due sacchetti di integratori vitaminici e minerali che sequestrai immediatamente, aggiunse che talvolta gli lasciava quello che restava dei rametti di liquirizia da lui masticati.

«Quali zio?»

«Questi» rispose infilandosi una mano in tasca e mostrandomi tre bastoncini.

«Zio ti ringrazio tantissimo» dissi mentre sfilatigli i bastoncini dalla mano mi dirigevo alla macchina carica, per tornare però immediatamente sui miei passi.

«Hai detto che i bastoncini di liquirizia glieli dai masticati?»

«Sì»

«Ti dispiace sputare in questo bicchierino?»

Lo fece, se ne andò senza salutarmi, la bocca piegata all’ingiù.

Presi una settimana di permesso dal lavoro che mi venne concessa senza tanti perché né ma. Cominciai a catalogare ogni reperto raccolto, analizzai ogni campione vegetale confrontandolo con i valori di riferimento, analizzai urina, feci, sperma, saliva, secrezioni vaginali, lacrime, muco nasale, sangue degli animali. Analizzai i componenti degli integratori, i bastoncini di liquirizia e la saliva dello zio. Tutti i valori dei campioni vegetali rientravano nella norma, significativa la presenza di bacche di Datura stramonium, Giusquiamo nero e Nicotiana di cui ritrovai tracce nelle feci, la presenza di Belladonna e Nicotina nelle urine ne confermò poi l’ingestione. I campioni biologici segnalavano, come ci si poteva aspettare che il caprone aveva un livello di testosterone assolutamente fuori dalla norma, alcuni ormoni tiroidei risultavano alterati, quasi assente la prolattina, un ormone antagonista del desiderio sessuale. Risultavano normali tutti i valori testati delle capre femmine.

Tornai dallo zio per ripetere più volte l’osservazione del pasto degli animali, questo mi diede un’idea più precisa di quali alimenti e in quali proporzioni venissero giornalmente ingeriti. Un ultimo esame, che fece quasi perdere le staffe a mio zio, fu l’effettuazione di una serie di radiografie e di una ecografia, presso uno studio veterinario, a tutti gli organi interni del caprone e di una delle femmine, che richiese la tosatura, anche se parziale, delle povere bestie. Avevo abbastanza elementi per mettermi all’opera.

Per arrivare ai risultati sperati, in campo scientifico, possono volerci mesi, anni o decenni, sai cosa vuoi ottenere, stabilisci una serie di percorsi che potrebbero portarti al successo, non sai quali ti ci porteranno, né quando ti ci porteranno e nemmeno se ti ci porteranno. Allungai il mio permesso dal lavoro a un mese, anche questa volta nessuno trovò da eccepire, in capo a tre settimane ottenni un composto che giudicai interessante. I primi test li effettuai con tre coppie di topi, somministrai una dose del mio preparato che giudicai proporzionata alla loro piccola taglia. Notai dopo pochi minuti uno stato di netta iperattività nel primo topo maschio sottoposto al test. Si muoveva in maniera frenetica, annusava ovunque, voleva uscire dalla gabbia, sembrava cercare qualcosa. Lo feci uscire, iniziò a correre su e giù per la stanza, dovetti faticare non poco per riprenderlo. Non sembrò però per niente interessato a faccende di tipo amoroso. Il risultato con gli altri due maschi fu del tutto simile, le femmine non diedero segno di alcun rilevante cambio comportamentale. Ma naturalmente ero solo all’inizio della sperimentazione. Provai con i conigli, i piccioni, i porcellini d’india, lo confesso, di nascosto perfino con il cane di mia sorella, gliene somministrai una bella dose. I risultati si sovrapponevano completamente al primo test effettuato sui topi. Mi recai di nuovo a far visita a mio zio. Il mio arrivo parve turbarlo,

«Devi fare ancora ricerche?» domandò.

«Tranquillo zio, basta ricerche, devo fare solo qualche prova sugli animali.»

«Ah no! Lascia stare le mie bestie, che hai abbastanza strapazzato» mi disse indicando le capre mezzo glabre.

«Non mi sembrano tanto provate» gli risposi, il caprone, indovinate un po’, era intento alla sua attività preferita.

«Non se ne parla… no!» Mi si piazzò davanti con le mani sui fianchi, con un’espressione che voleva dimostrare un’incrollabile fermezza, aggiungendo subito mansueto:

«Cerca di capire, io gli sono affezionato, lasciamole in pace.»

Il caprone intanto assestava fieri colpi, mi guardò, mi parve di cogliere nei suoi occhi, se mai una capra ne fosse capace, una sfumatura di ironia, quasi mi dicesse: Ehilà amico, ti è andata male? Non te la prendere, fai come me! Distolsi lo sguardo. «Ma certo zio, non è poi così importante, era solo una ulteriore verifica, se ne può fare a meno.»

Era maturo il tempo per la prova più importante, il test su di un essere umano, io. Chissenefrega di quello che fanno le capre, qui era in ballo ben altro.

Il composto da me ottenuto più che a una sostanza medicinale somigliava a una brodaglia mezzo disseccata, una pappetta molliccia e scura che tenevo in frigo. Avrei avuto bisogno dei mezzi del mio laboratorio per perfezionare le mie procedure, ma naturalmente mi guardavo bene dall’andarci, avrei dovuto rendere partecipi delle mie investigazioni i miei altezzosi e supponenti colleghi. L’abilità di un ricercatore sta anche nel sapere ottenere il meglio da quello che si ha a disposizione. Teofrasto, Plinio il vecchio, Galeno, tanto per citare alcuni dei padri della biologia, hanno gettato le fondamenta di una nuova scienza utilizzando solo il proprio ingegno. Mi accinsi quindi a ingerire il frutto del mio lavoro, non mi vergogno a dirlo, con un certo batticuore. Una questione non da poco era ovviamente rappresentata dal dosaggio che dovevo assumere, decisi di raddoppiare la dose che avevo somministrato al minuscolo cane di mia sorella. Mandai giù, il sapore era amaro, un retrogusto di olio rancido mi provocò un accenno di conato ma niente di più. Mi misi a sedere, pronto a riconoscere e registrare ogni minima reazione. Dopo mezz’ora nulla di significativamente avvertibile si era prodotto nel mio organismo, a un lievissimo rialzo della frequenza cardiaca non potei che attribuire la causa alla comprensibile emozione a cui ero sottoposto. Dopo un’ora feci un prelievo sanguigno e iniziai una serie di indagini che due giorni dopo mi portarono a constatare un nulla di fatto. Raddoppiai la dose. Un senso di inquietudine, dapprima sottile, poi più marcato, non era ansia, mi sentivo come se fossi in procinto di ottenere qualcosa da lungo tempo desiderata. Faticavo a stare fermo come avrei dovuto, per indagare, analizzare, registrare. Alla fine lo scienziato prevalse sulla cavia, prelevai diversi campioni: sangue, urina, saliva, lacrime, sudore, muco nasale, il vapore del mio respiro. Non riuscii a campionare il mio sperma, diciamo per impossibilità funzionale. La cosa mi sorprese alquanto, lo stallone capra al mio posto avrebbe elargito con generosità. Proprio non riuscivo a capire, provai a concentrarmi, a ricordare certi momenti di gloria carnale, nulla, eppure non sono il tipo che difetta nel campo, alle mie fantasie corrisponde regolarmente una risposta fisiologica, eccome se corrisponde.

Andai al computer, non sono un estimatore della pornografia, spesso infarcita com’è di eccessi che trovo caricaturali, ma la scienza le deve provare tutte, non conosce limiti né moralismi. A quell’affannarsi di corpi sullo schermo, a quegli ansiti e gemiti non corrispondeva una reazione del mio apparato riproduttore che se ne stava in stato di placida quiete. Quiete che era ben lungi da abitare il resto del mio organismo. Il farmaco aveva prodotto uno stato di eccitazione fisica e psicologica da cui era estromessa solo la zona dove la ricerca mirava, proprio il punto cui era richiesto di rispondere per primo all’appello. Gli esami rilevarono un’impressionante attinenza con quelli del caprone, ero in pratica una bomba sessuale pronta a esplodere a ripetizione. Mi diedi dello sciocco, ma certo, quali fantasie, quali immagini pornografiche, ci voleva una donna in carne e ossa! Dove cercare? L’ultima mia fiamma era affare di un paio di anni prima, dopo di che non avevo incontrato anime gemelle o avventurose compagne di una notte. Mi ripugnava l’idea di ricorrere a un incontro mercenario, feci mentalmente un elenco delle mie conoscenze femminili, non era granché ma un paio di nomi li trovai. Presi il telefono e interloquii con la femmina inconsapevole, parlammo dapprima del più e del meno, lentamente iniziai a usare un tono più suadente che le dovette drizzare le antenne. Difatti mi stoppò tirando in ballo qualcosa a proposito del suo fidanzato, posi fine frettolosamente alla conversazione divenuta ormai inutile. Provai con la seconda, assai meno attraente della prima, ma forse, proprio per questo più appropriata per verificare l’efficacia del mio preparato. Come la legge dei rapporti tra uomini e donne sancisce, a una minore apparenza corrisponde spesso una maggiore disponibilità, trovai difatti un certo gradimento alle mie sottintese quanto garbate proposte.

Ci trovammo la sera stessa a consumare una cenetta in un modesto ristorantino, lei parlava ad alta voce con fare faceto di cose per le quali nessuna creatura raziocinante avrebbe provato il più piccolo interesse, mi arrivavano alle orecchie frammenti di vuoto significato, inconsistenti come un’eco lontana. Mi metteva al corrente a proposito di certi mobili che voleva cambiare, doveva entrarci qualcosa una sorella sposata e un vicino di casa suscettibile ai rumori. Annuivo con l’accenno di un sorriso, guardandola con un’espressione sognante causata dal fumo del locale che mi faceva socchiudere un poco le palpebre, alle sue risa contraevo i muscoli facciali e il mio sorriso si intensificava risultando così appropriato a quanto lei diceva. Intanto pensavo: Non sai cosa t’aspetta, non lo immagini proprio, e ancora: Devo stare attento a non esagerare con il troppo ardore,a foga, questa magari non regge la botta, il problema sarà come riuscire a smettere, chissà per quanto tempo sopporterà, e ancora: Dove la porto, a casa mia no, è un tipo ridanciano, estroverso, incapace di trattenersi, figuriamoci sotto la foga alla quale sarà sottoposta quali vocalizzi tirerà fuori da quella bocca ciarliera, non voglio che i vicini sentano, ho già problemi di condominio, non ho pagato la mia quota per la riverniciatura dell’immobile, non mi servono altre seccature, ho bisogno di un posto appartato, casa sua.

«Abiti lontano?»

«Un quarto d’ora di macchina, quello che ci metto ogni giorno, lavoro proprio qui vicino.»

«Perfetto! Io invece sto dall’altra parte della città, ti va se andiamo da te a metterci comodi?»

«Certo, la mamma sarà contenta di conoscerti! Aspetta che la chiamo così ci prepara il caffè.»

Trasalii, non potevo vedere svanire tutto proprio in prossimità dell’inizio dell’esperimento, l’unico motivo per il quale ero lì a sorbirmi un mediocre cibo e una seccante compagnia.

«Sarò felice di conoscerla, ma non questa sera. Sai, intendevo più una cosa tra me e te, da soli…»

Assunse un’espressione scherzosamente sospettosa, si vedeva che ci stava.

«Non stiamo un pochino troppo correndo?»

Era fatta, dato un colpetto al ramo, bastava tendere il braccio perché il frutto maturo cadesse nella mia mano.

«Tu che dici?» le dissi con il più ammaliante dei miei sorrisi.

Optammo per l’automobile, la mia, perché no? Un ritorno di gioventù. Trovammo un posto tranquillo, appartato, uno di quei ritrovi cittadini usati dalle coppiette che non dispongono di meglio per amarsi un po’, ci ero stato qualche volta da ragazzo con certe mie conquiste giovanili. Bei tempi bei ricordi. Era un piccolo belvedere con non più di quattro posti auto, in realtà ne potevano entrare più del doppio, ma quello era il numero giusto per le ore notturne, in quel modo si stabiliva una certa distanza di cortesia, da tutti rispettata, che impediva imbarazzanti sbirciamenti. Ci mettemmo all’opera, lei sembrava molto ben disposta, passammo presto dai primi baci ai palpeggiamenti, il suo respiro si fece presto affannoso. Io ero in attesa, a occhi chiusi. Mentre la sua lingua mi frugava i molari pensavo: Ecco, ora ci siamo. Ogni mio neurone, ogni più remoto anfratto del mio cervello si concentrava in un solo luogo del mio corpo, che forse intimidito da tanta attenzione tardava a fare il suo. Certo, osservazione scientifica e passione forse non vanno a braccetto, ma avendo a fine pasto ingurgitato nella toilette del ristorante una massiccia dose del preparato, confidavo che l’attivazione del mio apparato genitale restasse autonoma e immune alle attività da ricercatore cui ero intento. Cominciai a sentirmi a dir poco inquieto, e non solo per l’attesa dell’effetto agognato, è che non riuscivo proprio a stare fermo. Iniziai ad agitare le braccia e le gambe mentre le mie mani ghermivano le sue tette. Lei si staccò dalle mie labbra con un movimento felino che provocò una frustata dei suoi capelli al mio occhio sinistro, lanciò una risata:

«Hai proprio voglia mmh?»

Non risposi, strizzai l’occhio dolorante, immagino che lei recepì la cosa come un ammiccamento. In un baleno si tolse la camicetta e il reggiseno e cominciò ad armeggiare con la patta dei miei calzoni. La lasciai fare, riuscendo a calmarmi per un istante, eravamo arrivati al dunque, mi misi in attesa. Capii come si era sentito prima di me Albert Sabin quando sperimentava su di sé il vaccino contro la poliomielite, o Werner Heisenberg nel momento in cui riuscì a dimostrare il principio di indeterminazione. Era una sensazione affascinante, per nulla offuscata da quel focoso darsi da fare che andava in scena a pochi centimetri dai miei occhi, uno dei quali semichiuso e lacrimoso. Alzò lo sguardo verso di me con aria interrogativa.

«Che c’è? Sei troppo teso?»

«Non so, non riesco a capacitarmi…» le risposi pensoso. «Eppure a quest’ora dovrebbero già vedersi gli effetti.»

«Gli effetti di cosa?» disse un poco sorpresa.

«Intendevo le tue… attenzioni, mi fanno impazzire sai?»

Parve perplessa, tentai di assumere un’aria vogliosa, avevo però ripreso ad agitarmi. Rovistò ancora tra le mie zone erogene con grande impegno devo dire, poverina, ma la situazione restava stazionaria. Dopo qualche tempo si sollevò e mi diede un bacio su una guancia sussurrando:

«Può capitare a tutti sai? Forse sei troppo teso,»

Mulinai le braccia come a scacciare una zanzara, «Sì, deve essere il troppo lavoro, e poi forse avevi ragione, siamo andati troppo di corsa.»

Gesticolando la riaccompagnai alla sua macchina. Come risposta al suo invito di rivederci per il fine settimana farfugliai, mentre ingranavo la prima e mi avviavo, qualcosa di volutamente incomprensibile. Passai una notte agitata, dormii poco, i miei arti non dormirono affatto. Avevo assunto una dose evidentemente eccessiva, non ero in possesso di un antidoto, dovevo pazientemente aspettare che fegato e reni facessero la loro parte consentendomi di tornare a uno stato di normalità. Il giorno seguente non stavo molto meglio, sentivo il bisogno di muovermi, non era come quando ci si sente pieni di energia e non si vede l’ora di usarla, provavo solo un impulso che mi chiedeva di fare qualcosa e al quale non sapevo dare una risposta. Tracannai un’intera bottiglia di acqua per cercare di depurarmi più in fretta, tra l’altro mi sentivo avvilito per l’esito dell’esperimento e conseguentemente per il traballare dell’intera mia ricerca. Decisi di fare visita allo zio campagnolo, l’aria pulita e qualche passeggiata forse mi avrebbero fatto bene. Parcheggiai nel vialetto, notai subito due auto, riconobbi quella di mio cognato, giorno di visite. Raggiunsi i miei parenti in casa, la porta era aperta, oltre a mio cognato c’erano sua moglie, cioè mia sorella, i loro due figli, due bamboccetti di quattro e sei anni e un’anziana coppia. Questi ultimi mi vennero presentati come amici dello zio, il quale, tornato in quel momento dalla cucina, era in procinto di servire un tè, mi salutò cordialmente:

«Non sei qui per lavoro spero! Che bello vederti insieme a noi! Siediti, capiti proprio a proposito per una bella merenda.»

Passammo una mezz’oretta, sbocconcellando pasticcini e frutti dell’orto, la mia iperattività non accennava a diminuire, mentre il mio piede destro teneva un frenetico ritmo, giocherellavo con la tazzina e il cucchiaino, le mie spalle non trovavano pace, le tiravo su e giù producendo scrocchi, serravo la mascella, inspiravo profondamente, mi schiarivo in continuazione la gola.

«Tu lavori troppo, dovresti prenderti un periodo di riposo» mi disse mia sorella.

«Mi sono preso un mese di permesso dal lavoro.»

«Hai fatto bene, bisogna staccare la spina ogni tanto, specie per te, con il lavoro che fai, tutta quella concentrazione, hai fatto bene, perché non vieni a stare qui dallo zio per un po’? Ti rilassi e ti ricarichi, per noi cittadini la campagna è un toccasana, vero zio?»

Mio cognato è un brav’uomo ma quello che dice è spesso frutto di luoghi comuni, di frasi fatte intrise di un insulso buon senso, le prende qua e là e le stipa in un vano della sua mente da dove vengono estratte e sparacchiate alla rinfusa durante una qualunque conversazione. Chi lo sa se dietro quella cortina di vacuità esiste un pensiero autonomo, chissà se quando parla con se stesso, che è poi l’unico momento in cui siamo, di nascosto al mondo, realmente autentici, usa gli stessi stupidi mezzucci verbali. Sarebbe una ricerca interessante.

«Non ho staccato nessuna spina, il mese di permesso mi occorre per certe questioni di lavoro» risposi con tono acido.

Mio zio eluse abilmente ogni possibile approfondimento riguardo al mio possibile soggiorno presso di lui, troncò ogni replica:

«Andiamo tutti fuori, questa è l’ora migliore per il fresco.»

Andammo. Passammo dallo stare seduti attorno al tavolo da pranzo allo stare seduti attorno al tavolo da giardino che era posto sotto al pergolato. C’era una leggera e piacevole brezza, gli amici di mio zio, una grassa e claudicante signora e un minuscolo compunto e affabile ometto, tessevano le lodi del panorama di cui da lì si godeva, mia sorella piazzata la sua sedia nel punto giusto, a occhi chiusi si prendeva gli ultimi raggi di sole. Lo zio aveva un’aria serena e soddisfatta, probabilmente quello era uno di quei momenti in cui si compiaceva per la scelta che lo aveva portato a trasferirsi in quella casa. I bambini, appena fuori, corsero verso il recinto degli animali, le loro risa si mescolarono all’abbaiare stridulo del cagnetto di mia sorella. Mio cognato seduto al mio fianco mi parlava con un basso tono di voce. Come se fossi stato privato delle orecchie, nemmeno una parola di quello che disse raggiunse la mia ragione. Quell’aria fresca aveva acuito la mia irrequietezza, sentivo battere forte il cuore, i miei muscoli erano in tensione, avevo gli occhi sbarrati, le mani stringevano spasmodicamente i braccioli della sedia di plastica. Nessuno pareva accorgersi del mio stato, cercavo di calmarmi, volevo chiudere gli occhi ma quelli si riaprivano da soli, come spinti da una molla. Il cane non la smetteva di abbaiare, sentii mia sorella lamentarsi con voce assonnata:

«Ma che ha oggi Cicci?»

Poi senza aprire gli occhi, evidentemente rivolgendosi al marito aggiunse: «Vai un po’ a vedere.» Mio cognato fece per alzarsi dicendomi: «Scusa un attimo, continuiamo dopo» non finì di alzarsi che i bambini correndo verso di noi iniziarono a gridare: «Mamma, guarda Cicci! Ha il pisellino dritto!»

Ci voltammo tutti verso i bambini che giunti al tavolo continuarono in tono cantilenante:

«Cicci ha il pisellino dritto, ha il pisellino dritto» interrompendosi di tanto in tanto con scoppi di risa. Guardai verso il recinto degli animali, il cagnetto saltellava abbaiando, a quella distanza era impossibile notare, viste anche le esigue dimensioni della bestiola, il particolare sottolineato dai bambini. Comunque guardai. Fu un tutt’uno: i miei occhi inquadrarono una capra, il mio sangue cominciò a bollire, il cuore andò alle stelle, cose di poco conto rispetto a ben altro, il mio membro si impennò, sembrava voler perforare gli abiti che lo contenevano. Mi ritrovai in piedi, le narici frementi, i pugni serrati. Il resto venne da sé. Non avrei potuto contrastare gli eventi anche se non fossi stato colto di sorpresa. Iniziai a correre mentre contemporaneamente mi slacciavo i calzoni e mi abbassavo le mutande, caddi rotolando a terra e in un attimo ripresi la mia marcia folle verso il recinto, questa volta saltellando a piè pari. Urlavo a pieni polmoni una nota sola. Sentivo l’asta di ferro che una volta era stato il mio pene ondeggiare su e giù a ogni balzo, sembrava annuire con un’intensità da invasato dicendomi:

«Ecco quello che volevo! Alla fine ci sei arrivato idiota! Sono giorni che te lo dicevo, ma tu non mi ascoltavi!».

Dietro di me si alzavano grida che non decifrai, arrivai al recinto, febbrilmente, con le mani che tremavano e sussultavano, trovai il modo di aprire il cancelletto di legno, appena dentro fu una gara tra me e Cicci, il quale pareva trovarsi in condizioni simili alle mie, a chi si accaparrava la capra più vicina, una delle tre era già impegnata con il caprone. Non era facile avere ragione di quelle bestie spaventate, per di più il caprone, che doveva aver capito l’antifona, e per nulla propenso all’amore di gruppo, sceso dalla sua capra tentava di incornare me e Cicci, ma anche lui aveva il suo bel da fare tanto eravamo forsennati e veloci. Né io né il cagnolino avemmo fortuna, in breve venimmo sopraffatti da mio zio, mio cognato e perfino dall’anziano omettino che si dimostrò sorprendentemente aitante. Io fui atterrato e trascinato fuori per le gambe, iniziavo a percepire il senso delle grida intorno. Lo zio: «Adesso basta, pazzo deficiente!» Il cognato: «Ma che gli ha preso?» L’omettino rivolto alla moglie: «Cara non venire! Stai lì! Resta lì ti ho detto!» La sorella: «È impazzito! E tu Cicci a cuccia! Sporcaccione!» Mi ritrovai, ancora con le braghe calate, al sedile di guida della mia macchina, le chiavi inserite, il motore messo in moto da qualcuno. «Vai! Vai!»” mi incitava lo zio con grandi gesti delle braccia. Schiacciai macchinalmente l’acceleratore e con un enorme sforzo di volontà e il cuore in pezzi partii.

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