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A giugno è uscito per Minimum Fax, Sarà un capolavoro: Lettere all’agente, all’editor e agli amici scrittori di F. Scott Fitzgerald, nella traduzione di Vincenzo Perna. La pubblicazione dimostra come l’interesse per lo scrittore americano nel nostro paese sia arrivato finalmente a una svolta critica che si aspettava da lungo tempo: non è un romanzo e nemmeno una raccolta di racconti, ma una guida quanto mai necessaria al panorama privato di un uomo.

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Eppure non è stato sempre così. L’Italia e Fitzgerald non si sono mai guardati di buon occhio: se volessimo trovare una causa mitica a questa storia, come gli antichi romani che giustificavano l’odio dei Cartaginesi con l’abbandono di Didone da parte di Enea, potremmo dire che cominciò nel 1924 quando lo scrittore prese a pugni un tassista romano in preda a una sbronza. In realtà, la vicenda editoriale di Fitzgerald nel nostro paese è molto complessa e si muove tra le principali personalità che avevano diritto di parola sulla cultura americana nel novecento: Elio Vittorini, Cesare Pavese, Fernanda Pivano e Nemi d’Agostino, solo per citarne alcuni nomi.

La prima pubblicazione di un’opera di Fitzgerald in Italia esce per la collana mensile della Mondadori, I Romanzi della Palma, nel 1936: Gatsby il magnifico, nella bizzarra traduzione di  Giardini. Queste sono le parole con cui veniva presentato il libro: «Questo libro… è un documento del profondo squilibrio sociale, morale e finanziario che dominò e determinò la vita negli Stati Uniti nel periodo che va dalla fine della guerra al crollo verificatosi in Wall Street nel 1929». Una discrepanza risulta però subito evidente: The Great Gatsby viene pubblicato in America per la Scribner & Sons nel 1925, nel pieno fervore degli Anni Venti e forse, la descrizione avrebbe funzionato meglio per un romanzo come Tenera è la notte del 1934, posteriore alla grande crisi.

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A ogni modo, Fitzgerald viene praticamente ignorato dalla critica italiana. E non sembra dargli maggiore peso Elio Vittorini che nell’antologia Americana (Bompiani, 1941) inserisce lo scrittore all’interno della sezione Eccentrici, una parentesi assieme ai dimenticati Kay Boyle, Evelyn Scott e Morley Callaghan: siamo alla seconda apparizione ufficiale, ma il risultato è identico. Elio Vittorini considerava Fitzgerald come uno scrittore frivolo, che poco aveva a che vedere con la visione magica che il primo aveva del mega continente: «L’America, in questa leggenda, è una specie di nuovo Oriente favoloso, e l’uomo vi appare di volta in volta sotto il segno di una squisita particolarità, filippino o cinese o slavo o curdo, per essere sostanzialmente sempre lo stesso: io lirico, protagonista della creazione». Anche perché il racconto che viene tradotto da Eugenio Montale con il titolo di Il giovin signore (dall’originale The Rich Boy del 1926) dimostra come la chiave di lettura dello scrittore fosse completamente errata: la storia dello sfacelo interiore di un ricco giovanotto americano che non viene ricambiato dalla ragazza amata, sullo sfondo di una dissolutezza generale. Fuori invece, c’era la tragica realtà: la disoccupazione, gli scioperi, la crisi economica… la letteratura sociale.

Il problema, come capirà Fernanda Pivano più avanti, è che ogni opera di Fitzgerald non può essere compresa a pieno se non si tiene conto della sua vicenda biografica. Come diceva Hemingway in Festa Mobile e ribadirà lo scrittore stesso in Il Crollo (nella trad. di Ottavio Fatica, Adelphi, 2010), Fitzgerald aveva avuto nella vita due o tre esperienze a cui aveva dato un valore universale: tra queste, l’incontro con Zelda Sayre. The Rich Boy non era altro che la trattazione ipotetica e potenzialmente autobiografica di un’esistenza parallela in cui la donna respingeva l’uomo, questa volta per sempre.

La sincerità con cui Fitzgerald gioca con se stesso è davvero una grande prova di quanto nella cultura americana, la lezione pirandelliana sulle lettere venga completamente ribaltata: qui, il binomio vita-scrittura è praticamente inscindibile. Il secondo errore di Vittorini è nel fatto che vede in Hemingway (migliore amico di Fitzgerald) il trionfo della propria visione: l’America gli sembrava come un gigantesco non luogo, che in quanto tale potesse parlare a nome dell’umanità tutta. Di conseguenza qualsiasi opera pubblicata poteva travisare i generi letterari e venire considerata come Poesia. Come vedremo più avanti però, in Fitzgerald traspare forse più che in qualsiasi altra opera americana quello che un critico italiano definirà come realismo magico.

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Il successo di F. Scott Fitzgerald in Italia comincia grazie alla traduzione di Tenera è la notte (Einaudi, 1949) di Fernanda Pivano voluta fortemente da Pavese che così scriveva in una lettera all’amico Davide Lajolo: «Non ho voluto tradurre io i libri di questo scrittore […] perché mi piacevano troppo». Mondadori poi acquista i diritti delle altre opere che escono in ordine sparso rispetto alla cronologia reale e che vengono tutte tradotte da Fernanda Pivano, eccetto l’ultima: Il Grande Gatsby, Di qua dal Paradiso, Belli e dannati e il romanzo incompiuto Gli ultimi fuochi (nella traduzione di Oddera). Nelle prefazioni Pivano insiste sempre su due componenti precise nel tentativo di sfatare il mito che vuole Fitzgerald come il principale esponente dell’Età del Jazz: il realismo dello stile sostituito da quello che definisce come poetico e il parallelismo tra la finzione e la vita privata dello scrittore. Quindi non lo specchio di una particolare società, ma il ritratto fedele di se stesso come personaggio che si muove in quella particolare società, ma che è preso da un dramma del tutto personale, individuale.

Da quel momento, comincia un vero e proprio dibattito intorno allo scrittore sulle principali riviste letterarie italiane. Carlo Izzo rappresenta la principale controparte negativa quando dice che forse il tempo avrebbe ridotto la figura di Fitzgerald «a proporzioni più modeste di quelle che oggi si tende ad assegnargli». Per fortuna però non tutti la pensavano così: Luigi Berti sulla Fiera Letteraria muove il primo passo critico importante contro il mito fondato da Vittorini, sostenendo come Fitzgerald non sia minimamente inferiore a Hemingway. Il colpo fatale arriva da Nemi D’Agostino che su Studi Americani definisce lo stile dello scrittore con l’appellativo di realismo magico. La leggenda americana teorizzata dieci anni prima, si realizzava adesso proprio attraverso uno di quegli eccentrici minori.

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Per finire, il riconoscimento accademico: nel 1958 Sergio Perosa pubblica la prima gigantesca monografia sull’operato di F. Scott Fitzgerald a cui seguono una serie di traduzioni delle opere minori dello scrittore fino all’edizione cumulativa dei Romanzi curata da Fernanda Pivano per la Mondadori nel 1972.

Negli ultimi anni l’interesse per Fitzgerald non ha fatto che aumentare in tutto il mondo: il recente film Genius di Michael Grandage è una prova di come il mito dello scrittore come macchietta degli Anni Venti che vediamo per esempio in Midnight and Paris di Woody Allen, stia finalmente per esaurirsi. Nella pellicola, anche se Fitzgerald compare solo come personaggio secondario, il tentativo di rendere fedelmente la psicologia dell’uomo reale è quanto mai evidente. E anche in Italia, cominciano a essere pubblicate una serie di opere dello scrittore che hanno la forza della testimonianza: tra queste, Rossella Monaco si è già occupata qui su Altri Animali della raccolta Per te morirei (Rizzoli). Ma Minimum Fax merita forse una medaglia d’onore: dopo Nuotare sott’acqua e trattenere il fiato e le nuove edizioni de Il Grande Gatsby e Tenera è la notte, la raccolta di lettere Sarà un capolavoro dimostra come ormai sia quanto mai necessario cominciare anche qui da noi a leggere Fitzgerald attraverso una chiave biografica.

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