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L’illuminazione pubblica si era appena spenta e il sole cominciava a sbadigliare, quando l’autista diede un colpetto di gomito alla coordinatrice a significare che stavano procedendo secondo tabella e che lei dormiva a bocca spalancata. La Citroen della federazione, di quelle azzurre con tre file di sedili, lasciò la strada provinciale e, sul sedile di dietro, una delle ragazze si chinò verso le altre. Si chiamava Gemma e sapeva acconciarsi i capelli in modo grazioso e quando era abbastanza lontana da casa che la sua schiena non era più che un puntolino, si metteva pure un velo di rossetto.

«La moglie del dottor Haas» bisbigliò, «faceva la ballerina. Sarà stato per via dei tutù che lui ha pensato…»

Carola, la spilungona, disse che quel particolare non era scritto sul ritaglio del Denver Post che avevano visto in federazione. Si trattava solo di una réclame: una scatoletta da dieci per quarantacinque centesimi più una minutissima posologia.

«Ma è vero, l’ho letto su certi giornalini» disse Gemma con fare saputo.

Da un po’ aveva scoperto sul fondo della cesta del bucato certe letture dai contenuti interessanti e la sera, quando tutti erano già a letto e lei in bagno per lavarsi, gli dava una sfogliata fumando dalle finestrelle smerigliate. Così, in sottoveste, si sentiva molto americana e buttava la cicca nel water quando sentiva il padre sbuffare dietro la porta. «Quasi finito» diceva pigramente, perché suo padre non era pericoloso in pigiama, ma in tuta da lavoro – o peggio ancora con la giacca – era tutta un’altra storia; avrebbe preso la giacca dalla gruccia e le avrebbe dato aria alla finestra per andare dritto alla federazione, se solo avesse immaginato dov’erano dirette.

Dal finestrino Carola guardava il cielo smaltato d’azzurro e le nubi candide come cumuli di panna fatti con la sac à poche. Provava a immaginare il dottor Haas sorseggiare un bicchiere di buon brandy, fissare la moglie che danzava e percepirne, finalmente, tutta l’aspirazione a librarsi dalla materia come un tuorlo che sguscia dall’albume. Una biologia via via domata, arresa alle ragioni dell’estetica, pensò Carola tutta fiera della bella espressione. Si passò la mano sulla fronte sudata e si sfilò i guanti: era già maggio e i papaveri si erano mescolati all’orzo, le rose erano sbocciate al capolinea dei filari.

La terza ragazza – della quale la coordinatrice si era accorta con sgomento di aver dimenticato il fascicolo in federazione – disse con gli occhi di un bambino appena sveglio:

«Il dottor Haas l’avrà fatto per amore».

«Non c’entra niente l’amore!» sbottò la coordinatrice annaspando sulla maniglia della portiera e leccandosi le labbra. Si era ruotata col busto fino a far uscire la camicia dalla cintura; era una donna pingue, nonostante i trascorsi da atleta.

«Lo sai bene» e qui avrebbe gradito dire il nome della ragazza se soltanto avesse avuto il fascicolo, «lo sai bene anche tu che è solo una questione di biologia.»

Ma lo era? La coordinatrice stessa non lo credeva affatto. Non è mai solo una questione di biologia. La Citroen non sarebbe venuta a prenderla nel cuore della notte e non avrebbe spento quei suoi occhiacci gialli entrando nella via, se si fosse trattato di una semplice visita sportiva.

«La conosce la provincia, lei» aveva detto l’autista facendosi scricchiolare i guanti sul volante. Ma non era questione neanche di provincia, la coordinatrice lì ci era cresciuta e aveva imparato la corsa a ostacoli infrangendosi le ginocchia sui muretti a secco; nell’era precedente a quella dei calzoni aveva sempre saltato come un ragazzo senza aver bisogno di tirare in ballo scuse di sottane. Poi tutte quelle cosce come in riva al mare, e i sederi in bella vista: come poteva lo sport aver abdicato al decoro?

«Signor presidente» aveva detto tirandosi su il collo del maglione, «come può domandarlo proprio a me?»

«Signora» aveva riposto il presidente, «ci sarà la mondovisione.»

Il presidente le aveva dato l’incarico di accompagnare le giovani atlete dal dottor Fumaccini e lei, nonostante aborrisse in toto l’incarico, aveva obbedito a riprova della specchiata moralità della federazione. Era anche un po’ curiosa di vederlo, tale dottor Fumaccini, e di provare a farsi illuminare. La sua visione sarebbe stata maschile, certo, ma scientifica, o quanto meno come si deve, senza depravazioni. E dentro di sé sperava che il dottore ne sarebbe convenuto: era proprio una …

«… rivoluzione? Dici?» Così direbbe Giusi Leone, gli occhi un po’ all’ingiù, le gambe sempre in movimento. Ha già fatto 11’4” lasciando dietro i talloni ragazze come loro. Carola si immagina di sederle a fianco in sala d’attesa, e dirle: «Giusi, te lo confido, io sono spaventata». E Giusi distoglierebbe lo sguardo un po’ scostante, come chi ti vuole far pesare di doversi girare sempre indietro per vedere dove sei, e sicuramente direbbe: «Io paura ce l’ho solo delle Press». E Carola allora le bloccherebbe il ginocchio con la mano: «Ma che vuoi, cosa vuoi che possano combinare le sovietiche senza il dottor Haas? Mica certe cose arrivano laggiù». «Allora è veramente una rivoluzione» direbbe Giusi guardandola con un misto di scetticismo e gratitudine.

La terza giovincella, quella del fascicolo, all’altezza del grande raccordo anulare era stata colta da una crisi. La coordinatrice, abbastanza matura da chiamarla ancora attacco isterico, di fronte a una simile evenienza aveva ritenuto ragionevole la richiesta della ragazza di essere accompagnata alla stazione più vicina. «Non lo posso fare» aveva detto la ragazza fra i singhiozzi, «sono ufficialmente fidanzata». La coordinatrice confortata da quel pudore virginale, dentro di sé sperava che anche le altre due avessero una simile reazione, e di imbarcarle tutte insieme a Roma Termini senza preamboli medici. Poi ci avrebbe scambiato quattro paroline da sola, con quel dottor Fumaccini. Doveva anche essere un bell’uomo, questo luminare, i capelli brizzolati, magari le basette, lunghe e compatte sulla pelle asciutta, rasata.

Niente basette, Fumaccini non indossava il camice ma una camicia bianca sopra pantaloni grigi, un cravattino slacciato, aveva i capelli corti sulla nuca e non portava il reggiseno. Guardò con simpatia via via scemante le tre donne che stringevano i manici delle borsette con fare spaventato, anche Carola, nonostante l’incoraggiamento della Leone.

«Signore» disse reggendo davanti ai loro occhi una cannuletta, «oggi vi traghetterò nella modernità. O almeno spero. Cominciamo con lei, signora. Guardate bene ragazze. La semplicità…»

«No no» iniziò a dire la coordinatrice cercando di guadagnare la porta a piccoli passi, «Dio mio» – e qui la Fumaccini sottolineò che Dio non centrava proprio niente – «io non devo mica gareggiare, alla mia età.» La Fumaccini disse che proprio per l’età l’aveva individuata come prima dell’esame. «Avrà o non avrà una qualche dimestichezza con se stessa?»

A questo punto le reazioni della coordinatrice furono diverse e sovrapposte: rise, si commosse, disse che aveva due figli uno più bello dell’altro, che non l’aveva mai fatto se non per… cioè due volte sole e neanche le era piaciuto, lo giurava sulle teste di quei due, e suo marito non è che fosse proprio pratico in generale e allora qualche volta lei gli suggeriva di sistemarsi da solo in bagno e, cioè, proprio no, Gesù santo.

Il robusto sedere crollò su una sedia di plastica alla parola santo sfiancato dalla tensione dell’isteria. Forse avrebbero dovuto farle le bende fredde, ma la Fumaccini si limitò ad allungarle un bicchiere d’acqua di rubinetto. «Passi in coda» le disse seccamente. «Questo si chiama applicatore» continuò rivolta alle ragazze sollevando tra il pollice e l’indice la cannuletta che involontariamente aveva quasi accartocciato. Gemma scoppiò a ridere con le mani sulla bocca. Era famosa, sulla pista, la sua risata completamente a casaccio, in grado di disintegrare i nervi di chiunque. I suoi stessi anche, e infatti dopo un secondo già piangeva. Confessò che l’aveva già fatto. La Fumaccini fissò dubbiosa l’applicatore: «E dove diavolo l’avresti trovato?». Le risultava che il dottor Haas lo avesse commercializzato solo negli Stati Uniti. «In chiesa» rispose Gemma, «alle prove del coro.»

Carola la guardò con tanto d’occhi. E sì che gliel’aveva chiesto mille volte: «Ma ci sei andata? Dimmelo che ci sei andata, c’hai la faccia, non da zoccola, ma che dici, Gemmina, di ragazza innamorata». Gemma non si era mai fatta scucire più del bacio e la tirava lunga questa sua storia d’amore, come un romanzo d’appendice, nonostante il giovanotto non lo vedesse neanche più. Invece c’era andata a letto! Gemma sverginata, o Gesù, questo cambiava tutto. E quell’aggeggio le sarebbe andato fino a chissà dove, avrebbe corso un rischio, come si diceva in oratorio: non l’avrebbe più trovato. Non che Carola prestasse più di tanto orecchio alle chiacchiere degli altri, che i suoi apposta l’avevano fatta studiare da maestra, ma lo studio, soprattutto la filosofia, le avevano fatto perdere ogni certezza. Per questo correva: per imbrigliare l’angoscia paso dopo passo. Aveva cominciato alle elementari scappando dai maschi nel cortile, e aveva continuato alle medie per sfuggire da un corpo che si arrotondava, si copriva di peluria, sudava e sanguinava. Avrebbe voluto mettergli una cavezza, proprio come il dottor Haas con la biologia, trainarlo lungo una linea retta costringendolo nelle maglie dei minuti e dei secondi; i muscoli tirati, il corpo asciutto come quello di un uomo.

Era così bella Giusi Leone col suo corpo da eterno ragazzo, mai piagato dalla femminilità.

Carola correva perché non era nata maschio e il suo unico fratello era morto nella pancia. Correva perché suo padre si era alzato quando lei aveva tagliato il traguardo ai Giochi della gioventù e aveva applaudito con le mani sopra la testa. Correva perché sua madre le guardava le suole delle scarpe e le diceva sorridendo «Quanti chilometri hai fatto, bambina mia, più di me in una vita». Correva perché le stava male il grembiule della scuola. Perché era innamorata del barista del paese che le aveva dato un passaggio sul palo della bici. Correva perché lui era sposato. E correva perché era anche innamorata del suo allenatore, e di ciascun atleta della squadra maschile. Correva perché le piaceva andare tutti assieme sulla Citroen della federazione, soprattutto sedersi sui posti in terza fila, l’ultima volta di fronte a lei stava Francesco Colizzi e le punte delle loro scarpe ginniche si erano sfiorate per un attimo. Correva soprattutto per sfuggire, quanto Gemma per acchiappare, e in questo gioco circolare erano diventate amiche del cuore.

O quasi, visto che ora saltava fuori che Gemma era sverginata, in ripudio di tutti i discorsi, i valori e i sogni che avevano fatto sul muretto, quando si sentivano molto inglesi perché si passavano la sigaretta e accavallano le gambe, ma fumavano alla francese senza aspirare, perché se no in pista l’allenatore la sgridava. L’allenatore le guardava come da sempre avrebbero desiderato essere guardate dai loro padri: occhi severi ma benevoli, mai scatti di tono, mai mani levate. Se il padre di Gemma avesse saputo del corista sarebbe stato capace di ammazzarla. Se il padre di Carola avesse saputo di cosa stavano parlando con la dottoressa Fumaccini, avrebbe detto alla moglie di dire tutto al confessore.

La dottoressa Fumaccini ripose l’applicatore e lanciando una sguardo alla coordinatrice che rimaneva a occhi chiusi come in attesa di un’apparizione, mise sulla scrivania uno spaccato di gesso.

«Necessita che cominciamo dall’inizio, signore» disse, «vi presento l’apparato genitale. Cervice, utero, tube di Falloppio.»

Cavità, curve, canali, nascondigli.

Le ragazze, con lo stesso stupore che avevano provato da piccole in gita nelle grotte di Postumia, rimiravano ora la mano della Fumaccini che, con quel che rimaneva dell’applicatore, indicava le varie componenti.
«Provo io» disse Carola dirigendosi verso il lettino con un coraggio da Leone. Gemma scoppiò a ridere con le mani sulla bocca.

«Non deflora, non fa distorcere gli istinti sessuali, non interferisce con la riproduzione, non cagiona parossismi.» La dottoressa Fumaccini parlava scandendo ciascuna parola come se pensasse che Carola fosse ritardata, in mano quella capsuletta di ovatta pressata legata da un cordino.

«Siccome le Olimpiadi saranno in mondovisione sarà il caso che le nostre atlete non siano costrette a scendere in pista con le fasce da neonati bensì che siano al passo con i tempi.»

«Quindi migliorerà i nostri tempi?» chiese Gemma che in realtà si stava domandando se anche un occhio censore come quello di suo padre avrebbe mai potuto individuare un simile cosino.

«Se più comode correte più veloci» rispose la Fumaccini al limite della sopportazione.

«Che significa che non provoca parossismi?» domandò Carola, guardando il tampone con vaga delusione.

«Che non è un fottuto vibratore!»

Giusi Leone, a differenza delle altre, si sarebbe stesa sul lettino gemello con le mani dietro la testa e il capo un po’ eretto per seguire bene, le gambe abbronzate fino agli inguini.

«Non fa male» avrebbe detto, «non si sente nulla. È come nascondere un tesoro.»

Carola sentì gli occhi riempirsi di lacrime e strinse la mascelle per non sembrare Gemma, ma le lacrime colarono fresche sulle orecchie e sulle perle che sua madre aveva insistito per prestarle. «Vai a Roma» le aveva detto, «magari incontri il Papa, o il Presidente.» Come si sarebbe vestita sua madre il giorno delle Olimpiadi? Sarebbe riuscita a farsi i riccioli con l’asciugacapelli dell’albergo? Carola non sarebbe mai riuscita a riconoscerla nella folla, senza quel panettone di riccioli, issato a forza di forcine. Giusi avrebbe sorriso: «Regala a tua madre una lacca» e le avrebbe messo una mano sul ginocchio, le gambe di Carola come due ali di gabbiano, «Io paura ce l’ho solo delle Press».

«È normale avere paura» disse la Fumaccini.

Gemma, intanto, stava scrutando lo spaccato di gesso con la testa inclinata sulla spalla e le spalle inclinate a loro volta. «Me lo vedo, mio padre» disse scoppiando a ridere, «una cosa del genere neanche se la immagina.»

La coordinatrice sobbalzò. «Già finito?» chiese, sempre a occhi chiusi. Carola guardò Giusi Leone scendere dal lettino e infilarsi le scarpette. Pensò che Giusi correva solo per correre: un piede davanti all’altro per dilatare il proprio spazio in questo mondo, occuparne di più, portarsi oltre il tempo, dominare l’equazione. A questo pensiero sentì qualcosa di caldo e di fresco assieme, rossore e brivido, felicità o tristezza. Avrebbe voluto che le facesse un segno di saluto ma Giusi, tutta presa dalle Press, non si voltò neppure.

La Fumaccini si lasciò sfuggire uno di quegli sguardi che di solito teneva riservato. «Faremo un’ottima olimpiade» disse a tutte le presenti e a nessuna in particolare. Forse a se stessa, perché si emozionava sempre a veder correre le atlete. E a vedere il seno e i fianchi quando sollevavano le braccia per mostrare a tutti le medaglie. E gli occhi, soprattutto gli occhi.

Olimpiadi 25 agosto – 11 settembre 1960

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