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Il giorno dopo che il Portogallo vince gli Europei di Francia 2016, arriviamo a Bruxelles. Il cielo è grigio e il clima non è quello che ci si aspetterebbe in un luglio inoltrato. Abbiamo avuto un po’ di strizza io e Sara prima di partire. Solo pochi mesi fa, dopo la cattura di Adbeslam Salah, uno dei terroristi del 13 novembre a Parigi, si era assistito a un ulteriore attentato all’aeroporto di Bruxelles-National. Ora siamo a Charleroi. In fila mentre attendiamo il pullman che ci porterà alla Gare de Midi, scherziamo sull’eventualità che ciò possa ripetersi proprio oggi, sia per smorzare la tensione sia per esorcizzare un tale sfortunato e prematuro epilogo della nostra missione.

È proprio ciò che vuole il terrorista: infondere paura, mettere in allerta, distruggere la normalità. Nel periodo attuale, anche un semplice viaggio in uno dei paesi più sviluppati d’Europa come il Belgio è motivo d’ansia e d’apprensione.

La Grand Place è straordinaria e accogliente con i suoi imponenti edifici storici che la perimetrano insieme alle lussuose cioccolaterie. Una carrozza che trasporta una coppietta si fa largo tra la moltitudine di turisti e ci passa davanti. Ci sono operatori impegnati nel montare un palchetto e degli stand. Si preannuncia una serata particolare, qualche ricorrenza. Dopo scopriremo che si tratta della Festa Fiamminga.

Percorriamo Rue des Grands Carmes per raggiungere l’hotel, che con nostra sorpresa si trova proprio di fronte al Manneken Pis, il simbolo di Bruxelles. Intorno a noi, fioccano i venditori di waffel decorati con panna, fragole e nutella. Innumerevoli negozi di cioccolati tra cui il famoso Leonida e la Belgique Gourmande. Dopo aver lasciato i bagagli, proseguiamo la nostra passeggiata per il centro. Vediamo ristoranti italiani e greci, birrerie, i vari Panos, ideali per la colazione o uno spuntino a poco prezzo. A tratti incontriamo gruppi di scolaresche o di giapponesi. I bastoni per i selfie neppure si contano. Dopo aver mangiato uno spiedino di waffel al cioccolato fondente, decidiamo di andare a Molenbeek. Domattina, abbiamo l’appuntamento al Comune con Annalisa.

Non abbiamo idea di dove sia Molenbeek e facciamo un bel pezzo a piedi da Gare Centrale fino a De Brouckère. Man mano che ci allontaniamo dal centro storico, cominciamo a scorgere i primi grattacieli, banche e uffici di un’anonima città europea. Chiediamo informazioni a un uomo che ha appena finito di caricare scatole di medicinali su un furgoncino. È disponibile e gentile, ha un cartellino sul gilè con stampato il nome di Youssef. Ci spiega che Molenbeek-Saint Jean è molto esteso. Diverse fermate della metro portano lì nel quartiere.

«Fatemi capire dove volete andare. Étangs Noirs? Beekkant? Gare de l’Ouest ?», ci domanda con pazienza.

Noi ci guardiamo con indecisione.

«Al Comune. Qual è la fermata per il Comune?»

«Ah ok. Facile! Comte de Flandre. Solo due fermate da De Brouckère.»

Alle 17 arriviamo proprio davanti agli uffici dell’amministrazione comunale, adiacenti a una grande piazza. Proviamo a chiedere alla reception di Annalisa, l’intenzione è quella di conoscerla e salutarla prima di domani. È ancora a lavoro, per nostra fortuna. Scende e ci accoglie entusiasta. Sono oltre vent’anni che lei vive in Belgio. Il marito è di Bruxelles, i suoi figli sono cresciuti qui. Sembra non rimpiangere l’Italia. Dice che ci ha fissato un colloquio con il responsabile anti-radicalizzazione, Olivier, che tra l’altro, è curioso di incontrarci.

«Ora, però, approfittatene per farvi un giro a Molenbeek. Non abbiate alcun timore, i giornali hanno montato la cosa. Un quarto d’ora a piedi e sarete anche nel punto in cui ci sono stati i blitz, per la cattura di Salah.»

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Salutiamo Annalisa e attraversiamo tutta la piazza. Comincia a intravedersi uno spiraglio di sole e la temperatura è gradevole. Quasi tutte le donne di mezza età che passeggiano portano l’hijab e i tipici vestiti islamici. Le facce europee si contano sulla punta delle dita. Di fronte a noi scorre il fiume Senne, l’acqua è sporca e melmosa. Sfreccia un’auto davanti a noi, per poco non ci sfiora. Lo stereo è ad alto volume, è una musica hip hop. Proseguiamo a destra, attraversiamo il ponte e ci inoltriamo per una via dove si alternano edifici di piccole dimensioni a case popolari con qualche finestra rotta. La via porta a un centro ricreativo composto da un campo di calcetto, un ampio spazio con panchine e spalti e un locale con il tavolo da ping pong. Il centro è popolato da una moltitudine di giovani. Ci sediamo per qualche minuto a osservare la partita di calcetto in corso. Si capisce che è stata organizzata in extremis: alcuni giocano in jeans, tutte le maglie sono di colori diversi, ma i ragazzi sembrano conoscersi. Sono di etnie diverse: alcuni biondi e occhi azzurri, altri con la pelle scura e gli occhi neri. Un intenso vociare proviene dal popolatissimo locale, dove tanti teenager giocano e ridono. Tre donne con il velo sedute su un muretto attirano la nostra attenzione. Sembrano discutere delle loro vicende domestiche. Vorremmo interagire con loro.

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«Buonasera, stiamo cercando la moschea più vicina. Saprebbe indicarcela?», chiediamo a quella con l’aria più sveglia. Ci fissano tutte e tre interdette. Capiamo subito che non parlano il francese. Una di loro si alza, va a prendere una bimba con le trecce nere e il viso simpatico, che nel frattempo sta giocando con altri coetanei, e la porta da noi. Rivolgiamo la stessa domanda alla piccola.

«Ce n’è una più avanti, a cinquecento metri da qui. È quella più grande, la noterete subito perché ha un portone bianco», ci risponde.

Invece, non la notiamo. E un motivo c’è: a Molenbeek, le moschee sono comunissimi edifici, contraddistinti da nessun segno o emblema che le renda riconoscibili. Come potremmo mai riuscire a entrarci?

Proseguiamo per un lungo vialone dove si alternano case basse a ristoranti non ancora aperti, phone center, officine meccaniche, supermercati e negozi di frutta e verdura. Le pareti degli edifici sono rosse. Il rosso è il colore predominante. C’è poca gente in giro, ma l’impressione è quella di essere in un paese del Marocco dove tutti sembrano conoscersi. Giungiamo in una piazzetta alberata e ci sediamo su una panchina. Finalmente vediamo un imam. È alto, vestito di bianco con una specie di fez sul capo e discute con un signore anziano con i baffi, basso e scuro davanti all’uscio di quella che dovrebbe essere una moschea. Parlano in arabo. Poco dopo, un barbiere spunta fuori dal suo locale, di fronte alla piazzetta, e chiede qualcosa ad alta voce all’imam. Sempre in arabo. Intuiamo che si stanno mettendo d’accordo sull’orario per un taglio di capelli. Poi, l’imam riprende il discorso con l’anziano. Aspettiamo che finiscano di parlare e, non appena l’imam rientra, seguiamo il vecchio che sta per riprendere la strada che abbiamo fatto in precedenza e appena lo raggiungiamo, proviamo a interagire con lui in francese.

«Stiamo cercando rue de l’Indépendance, può darci indicazioni?» Si tratta della via più vicina a rue des Quatre – Vents, quella in cui è stato arrestato Salah. Ma è meglio non chiedere di quest’ultima via: ha avuto una vasta eco sugli organi di stampa nei mesi scorsi e non sappiamo come potrebbe reagire la gente del posto. Potremmo rischiare di essere scambiati per giornalisti.

«È proprio qua vicino» ci risponde cordialmente, «la terza o quarta traversa più avanti. Se volete sono di strada e posso accompagnarvi.»

Accettiamo volentieri l’invito, ci spacciamo per turisti che sono venuti a trovare un amico.

«Lei, invece, di dov’è originario?»

«Sono di Fez, Marocco. Ormai, sono più di vent’anni che vivo in Belgio.»

Parliamo del Marocco, per prendere confidenza con lui. È felice nel sapere che conosciamo molti posti del suo paese natio: la conceria, la medina, la Porta Blu, il cimitero dei Merinidi e il quartiere ebraico. Poi, cambiamo discorso.

«Senta, ma quella che si trova in piazza è una moschea?»

«Sì, è una delle moschee di Molenbeek. Mi pare che ce ne siano cinque nella zona.»

«E quello con cui parlava prima era l’imam, vero?»

«Quello vestito di bianco? Sì, esatto.»

«Sarebbe bello poterla visitare e parlare con lui.»

«Per visitarla credo che si possa fare, per parlare con lui la vedo un po’ difficile. Comprende solo l’arabo, viene dalla Giordania.»

Dopo aver salutato il tipo, cambiamo strada. Rue des Quatre-Vents è esattamente la perpendicolare. La prima cosa che vediamo è un fruttivendolo che fa angolo con Rue Delaunoy. C’è poca gente in giro, in una traversa scorgiamo dei bambini che giocano a calcio. Ci fermiamo in un bar per prendere una bottiglia d’acqua. Vorremmo chiedere dove si trova la casa in cui è stato arrestato Salah, ma non lo facciamo: abbiamo paura che le nostre domande possano risultare inopportune. A volte è difficile muoversi con cautela in un contesto in cui è forte la stigmatizzazione sociale e non si può mai sapere la reazione che può generare una semplice domanda.

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Diamo un’occhiata ai video dell’arresto sui nostri smartphone e riusciamo a individuarla da soli. È il numero 79: a pochi metri dal fruttivendolo, accanto a una farmacia e di fronte a un panificio. Il portone è bianco, sul citofono compaiono due o tre nomi arabi. Amici di Salah? Le persone che gli hanno offerto rifugio durante la fuga? L’edificio non è alto, forse tre o quattro piani. È strano pensare come Salah avesse abitato lì, indisturbato, per quattro mesi, mentre era ricercato dalle polizie di tutta Europa. Sotto un sole via via sempre più pallido, scattiamo qualche foto.

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L’intervista

La mattina del giorno dopo siamo nell’ufficio di Annalisa, in rue Comte de Flandre n. 20. Ci accoglie offrendoci il caffè della macchinetta che ha su una scrivania. Le spieghiamo per bene le ragioni della nostra visita.

«Sono contenta che qualcuno si interessi a voler andare fino in fondo alla radice del problema, senza accontentarsi dei luoghi comuni della stampa.»

Gli chiediamo di parlarci di Molenbeek.

«Molenbeek è un ghetto.»

«Abbiamo appreso dai giornali che quasi il 40% della popolazione è di religione musulmana, quindi possiamo presumere che abbia origini maghrebine o mediorientale?»

«Non saprei darvi dei numeri precisi in questo momento. Tra l’altro la catalogazione delle etnie è vietata dalla legge. Considerate che il 75% degli abitanti di Molenbeek ha la nazionalità belga – tra questi ovviamente un forte numero è costituito dalle seconde/terze generazioni. Del restante 25%, il 35% ha la nazionalità marocchina.»

«Cosa sta succedendo alle seconde/terze generazioni di Molenbeek?»

«La situazione di certo è degenerata con l’avvento dello Stato Islamico, ma tra i giovani c’è e c’era un malessere diffuso. Il problema è soprattutto di carattere identitario. I giovani non sanno chi sono. Di certo non si riconoscono nello Stato belga e di conseguenza non riescono e non hanno voglia di integrarsi nella società occidentale. La colpa è in parte dovuta alle prime generazioni di immigrati, stabilitesi nel quartiere per lavoro. In genere, l’uomo marocchino e islamico è molto orgoglioso. Assai difficilmente potrebbe accettare il fatto di sposare una ragazza belga emancipata e con una propria autonomia. Per questo decide di prendere come moglie una ragazza marocchina che vive a Tetouan, o a Rabat o a Casablanca, generalmente presentatagli dai genitori. Un matrimonio combinato, insomma. A questo punto, la ragazza marocchina andrà a vivere in Belgio a fianco del marito e baderà all’educazione della prole secondo i rigidi dettami in base ai quali lei è cresciuta. Ecco, quindi, le seconde generazioni. Il figlio marocchino, ma di fatto naturalizzato belga, seguirà le orme del padre e anche lui prenderà in sposa una ragazza del Marocco, magari anche conosciuta dai nonni che ancora vivono lì. In questo modo la prole sarà ancora una seconda generazione! Non ci potrà mai essere una piena fusione con il posto in cui si vive, a scapito dell’integrazione.

Un altro problema è il complicato rapporto tra i giovani e la polizia. Vi faccio un esempio banale: se un poliziotto becca per strada un ragazzo con gli occhi azzurri e i capelli biondi e un altro con la barba, gli occhi neri e la pelle scura, secondo voi a chi chiederà i documenti?Questo è quello che si verifica tutti i giorni qui a Molenbeek.»

«Qualcuno di questi giovani ha mai partecipato, per esempio, a un concorso nazionale per diventare poliziotto?»

«Una percentuale davvero bassissima. Per due ragioni: la prima, come già vi ho accennato, per il fatto che non riconoscono l’autorità della polizia. Non la considerano legittima, perché rappresenta il Belgio, stato al quale non sentono di appartenere. La seconda ragione è più per una questione linguistica. Molti sanno meglio l’arabo che il francese o il fiammingo e non riescono a superare le prove concorsuali. Nelle scuole la percentuale delle bocciature dei giovani di seconda generazione è alta, tra le altre cose.»

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Poco dopo incontriamo in una struttura nei pressi del Comune, Olivier e Stephan. Entrambi sono esperti di anti-radicalizzazione e si occupano di dare sostegno alle famiglie che hanno visto i loro figli partire per arruolarsi nelle fila dell’Isis.

Olivier non vuole che registriamo il colloquio che faremo, e ci dice subito che non ci potrà in alcun modo aiutare per incontrare le persone colpite dal dramma.

Per Olivier il Belgio non è il focolaio del terrorismo internazionale, e contrariamente a quanto detto da Annalisa, Molenbeek per lui non è un ghetto. La sua prima affermazione stona, però, con i dati pubblicati dall’International Centre for Counter-Terrorism.

«Prima si registravano in media 12 partenze al mese. Ora siamo scesi a 5 o 6, per fortuna» ci dice.

Ma se ciò fosse dovuto al cambiamento di strategia del Califfato, all’incitamento rivolto agli aspiranti jihadisti a compiere attentati in patria anziché raggiungere il Daesh? Non avremo risposta a questa domanda.

«Come avviene il reclutamento e qual è il ruolo di internet?»

«I reclutatori in genere si aggirano nei pressi delle moschee. È in questo modo che entrano in contatto con i ragazzi. Internet ha un ruolo accessorio, ma comunque importante nella radicalizzazione. Noi ci occupiamo di parlare alle famiglie che hanno visto i loro figli partire, ma anche a quei giovani che sono partiti e poi ritornati, alcuni dei quali si trovano ancora in carcere.»

«Un programma di de-radicalizzazione quindi?»

«Sì, anche se ancora è in via sperimentale. Una precisazione: io preferisco il termine disimpegno a quello di de-radicalizzazione. Considerate che l’Isis ha in qualche modo ipnotizzato questi giovani, facendo leva sulle loro debolezze, al punto da convincerli alla giustificazione della violenza. A quel punto la paura più grande per i giovani è quella di essere allontanati dal gruppo, quello dei miliziani dell’Isis, a cui sentono ora di appartenere. Il nostro compito è di agevolare il loro reinserimento nella società, soprattutto attraverso il dialogo. Il disimpegno è quindi il disinteresse verso l’ideologia jihadista a cui hanno aderito.»

«Gli aspiranti foreign fighters hanno in genere un passato criminale alle spalle? In media che età hanno?»

«Molti hanno dei precedenti per piccoli crimini, ma alcuni non hanno mai avuto a che fare con le forze dell’ordine. La fascia d’età più vulnerabile è quella fra i 15 e 23 anni.»

«Olivier, mai nella storia è stata registrata una così alta adesione delle donne a un’organizzazione jihadista. Perché? Cosa spinge una donna che è cresciuta in Occidente a desiderare di far parte di una società maschilista dove l’aspetta una vita di sacrificio e sottomissione?»

«Le motivazioni sono tre. Innanzitutto l’ideologia, legata all’Islam e alla percezione – indotta dall’Isis – del pericolo in cui versa la cosiddetta umma, la comunità musulmana mondiale: la sensazione che l’Occidente la distruggerà. Secondariamente, il desiderio di una giovane musulmana è quello di avere un uomo serio al proprio fianco e il mito del jihadista che combatte tutto il giorno e di sera rientra a casa dalla famiglia, indubbiamente la affascina. Il terzo motivo è la volontà di raggiungere i propri fratelli e il gruppo a cui desiderano appartenere.»

Riflettiamo un secondo sulle parole di Olivier. Il tempo a nostra disposizione sta per scadere.

«Olivier, perché la Francia? Perché quasi tutti gli attentati si sono verificati proprio lì?»

Ancora non possiamo saperlo, ma due giorni dopo il nostro colloquio, il 14 luglio, ci sarà la strage di Nizza: un uomo, membro dell’Isis, alla guida di un autocarro, investirà la folla che nel frattempo partecipa alla festa nazionale francese lungo la promenade des Anglais, causando 85 morti.

«La Francia rappresenta gli ideali occidentali e ha anche avuto un ruolo di primo piano nella colonizzazione.»

Insistiamo sulla possibilità di conoscere le famiglie e i giovani che Olivier e Stephan assistono. È importante per la nostra ricerca.

«Mi dispiace, ma non è possibile. Per far bene il nostro lavoro è necessaria la massima riservatezza.»

A Stephan, però, viene il colpo di genio.

«C’è un’associazione a Molenbeek nata da poco. Quest’associazione raccoglie un buon numero di mamme che hanno visto i loro figli partire per il Daesh. Alcuni dei loro figli sono morti, altri sono ritornati e stanno affrontando un percorso di riabilitazione, altri sono in carcere. Mi pare che ogni mese facciano degli incontri per parlare e affrontare insieme il problema. Se volete possiamo darvi il contatto di ***, la presidentessa. Credo che avrete buone possibilità di essere ricevuti.»

Per noi quest’informazione è manna caduta dal cielo.

Continua…

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