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Joanna Silvestri è una famosa attrice porno, ha ormai trentasette anni. Ricoverata in una clinica di Nîmes, nel sud della Francia, se ne sta a letto a veder passare i pomeriggi e ad ascoltare le storie di un detective cileno: «Chi cerca quest’uomo? Un fantasma? Io di fantasmi ne so molto, gli ho detto il secondo pomeriggio, l’ultimo che è venuto a trovarmi». In questo breve racconto di Roberto Bolaño, incluso nella raccolta Chiamate telefoniche (Adelphi, 2012), i set a luci rosse californiani fanno da sfondo a un universo di spettri, ombre decadute troppo in fretta e consumate da una malattia senza nome né volto. In questo cupo contesto ci troviamo di fronte al silenzio luminoso di Jack Holmes (chiaramente ispirato alla figura del pornodivo John Holmes), archetipo dell’attore porno finito anzitempo e legato sentimentalmente a Joanna. Jack è diventata «una scimmia in cattività, questo senza ombra di dubbio, una scimmia della malinconia, o forse la scimmia della malinconia».

Holmes, famoso per il suo fallo lungo trentacinque centimetri, è un uomo il cui corpo, dopo tanti film, si è prosciugato, non funziona più. «Solo la volontà funzionava» racconta Joanna: «infilò il suo lungo e grosso uccello flaccido tra le mie gambe, mi abbracciò dolcemente e si addormentò». Jack dopo aver dato vita ai fantasmi sessuali di milioni di spettatori è diventato fantasma lui stesso, e a Joanna viene da pensare che «tutti siamo fantasmi, tutti siamo entrati nei film di fantasmi troppo presto».

Per rimanere nella sfera dei fantasmi, si potrebbe dire che fantasmatica è stata la relazione che la letteratura ha intrattenuto con la moderna pornografia. Schiacciata nella sua reticenza e riservatezza, la produzione letteraria si è auto-inibita, mentre la panoplia pornografica invadeva gli spazi pubblici e privati, diventando accessibile a tutti (e divenendo anche oggetto di numerosi studi accademici, in particolare nord-americani). Verrebbe da interrogarsi circa le ragioni di questo ritardo del romanzesco, che avrebbe dovuto tentare di smascherare quei fantasmi e quelle ombre, demistificandoli, e invece ha in parte contribuito ad allontanarli dal dibattito culturale.

Se risveglio c’è stato, se uno tra i più vulgati e riconosciuti tabù sociali ha potuto trovare rappresentazione nel prudente cosmo letterario, questo lo si deve ad alcuni romanzi che potremmo considerare a tutti gli effetti devianti rispetto alla norma: eterotopie narrative che fanno della pornografia un elemento centrale della diegesi. Una delle autrici che hanno consentito di aprire la strada verso la de-ghettizzazione letteraria dell’industria del porno è stata la francese Virginie Despentes, che in particolare nei due romanzi Scopami (Einaudi, 1999) e Les jolies choses (Grasset, 1998) esplora la sessualità e i fantasmi femminili, indicando che la pornografia può provocare dei piaceri compositi anche nelle donne.

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L’obiettivo di Virginie Despentes sembra quello di voler sovvertire il genere pornografico orientato verso il consumo maschile per lanciarsi alla ricerca di una nouvelle morale pornographique che permetta alle donne di riappropriarsi del proprio corpo. Molte delle protagoniste dei suoi romanzi lavorano nell’industria del sesso e sono oltremodo violente, in risposta alla violenza mascolina. La creazione e il consumo di immagini porno fanno spesso parte del narrato: Scopami per esempio inizia con Nadine, una delle due eroine del libro, che si masturba guardando un video sadomaso tedesco sul divano di casa. E quando incontra Manu, in una stazione della banlieue parigina, la riconosce perché l’aveva già vista in un film porno. Manu le chiede allora: «L’hai visto insieme al tuo tipo?». E Nadine con naturalezza risponde «No. Io queste cose le faccio da sola».

In Les jolies choses invece, Pauline si ritrova nell’appartamento della sorella gemella Claudine, morta suicida qualche mese prima. C’è una videocassetta nel soggiorno. Decide di guardarla. È un porno amatoriale girato in parte in quel salotto, in parte in una discoteca. La protagonista è proprio Claudine, prima da sola, mentre fa sesso con due tipi sconosciuti che la apostrofano con epiteti poco decorosi, poi insieme ad un’amica in mezzo a un gruppo di ragazzi «che si toccano di continuo mentre loro due si baciano e si mordono i seni».

Attraverso questi racconti Virginie Despentes tenta di interrogare continuamente la pornografia, mettendone in evidenza codici e meccanismi e soffermandosi sulla complessità dei rapporti tra piacere e violenza. Ma parlare di pornografia per Despentes non vuol dire tentare di provocare piacere nel lettore: parlare di pornografia significa al contrario farla uscire da un silenzio imposto, per problematizzare il piacere immediato e ininterrotto che provoca nell’uomo. Significa anche mostrarne le brutalità e la crudezza, per spingersi verso un’idea di pornografia anti-fallocratica che sappia mettere in risalto l’ambiguità dei fantasmi femminili, come sottolinea la stessa Despentes nel saggio autobiografico King Kong Girl (Einaudi, 2007). Perché, sosteneva Annie Brink (Hardcore from the heart, Continuum, 2001), «la risposta al brutto porno non è vietare il porno, ma fare dei porno migliori».

Non un porno migliore, ma il porno dei record: questo è invece l’obiettivo dell’attrice Cassie Wright, che per porre un termine alla sua carriera vuole realizzare un film in cui «una gentile signora fa sesso con un numero spropositato di gentili signori», che in questo caso sarebbero seicento. È la storia al centro del romanzo di Chuck Palahniuk (Gang bang, Mondadori, 2008), racconto corale nel quale l’autore americano presta la voce a tre attori che attendono il loro turno (il numero 72, il 137 e il 600), e a Sheila, la giovane coordinatrice del progetto. I protagonisti si trovano in uno stanzone affollato e sporco, vengono chiamati a tre a tre per espletare il loro dovere con Cassie, che li attende al primo piano in una stanza candida e luminosissima. L’idea della Signora Wright non è quella di sublimare una carriera da stakanovista dell’hard, quanto quella di devolvere i proventi del film, La terza guerra sessuale, al figlio abbandonato, concepito nel suo primo set porno.

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Palahniuk in questa narrazione dai toni spesso brutali, sposta lo sguardo dietro le quinte di un film a luci rosse, evidenziandone la mancanza di glamour e lo squallore. In particolare degli uomini, preoccupati solamente dalla loro erezione e attenti alla loro immagine, come racconta il numero 137: «Quelli che non stanno mangiando patatine si radono. Si schiacciano i foruncoli. Oppure si spremono tubetti di roba nel palmo, sfregano le mani tra loro e si spalmano su faccia, cosce, collo e piedi uno strato marrone. Fondotinta». La voce più vibrante è però quella di Sheila, che considera i consumatori di porno dei segaioli che vivono in un patologico isolamento, incapaci di costruire legami emotivi: «Questi pugnettari. Nessuno che si sia preso il disturbo di leggere un po’ di teoria femminista. […] No. Una donna, che sia una concubina da chiavare o una donna da salvare, è sempre e soltanto un oggetto passivo, il cui unico scopo è soddisfare l’obiettivo del maschio».

Durante il racconto veniamo a scoprire che molti di quelli presenti nella sala per chiavarsi Cassie sono convinti di essere suoi figli, come il numero 72, che l’ha sempre considerata «la sua vera madre. L’unico amore insostituibile». Oppure la vorrebbero sposare, come il numero 137: «È stato proprio il fatto che entrambi conoscessimo gli stessi aneddoti a farmi innamorare di lei. Buona parte dei matrimoni si basa su molto meno». L’impressione è di assistere ad un corto circuito, in cui l’immaginario pornografico ha sostituito una realtà troppo amara, o forse semplicemente ininteressante. Ci troviamo così davanti a un’orgia – o meglio, a una gang bang – delle apparenze, in cui le impalcature sociali cadono rovinosamente dentro una solitudine stagnante, mostrando la morte sotterranea degli uomini.

Nonostante l’aura che la circonda, Cassie Wright durante la preparazione del progetto si confessa con Sheila: «Io non volevo fare la pornostar…». Ha deciso di smettere, Cassie, ma quell’etichetta di sacerdotessa del porno non se la potrà più togliere di dosso. Per cui morirà durante le riprese del film, trasformandolo in uno snuff movie. L’ultimo partner, il numero seicento, sarà Brunch Bacardi: l’attore porno che la filmò mentre dormiva, dopo averla drogata: «Chiavandomi il suo corpo morto su quel materasso, misi fine alla sua vecchia vita, al sogno di recitare, e gliene regalai una nuova». Poi mandò la cassetta ai genitori. Fu in quel momento che venne concepito il figlio abbandonato: Sheila.

Martino Bux, il personaggio ideato da Mario Desiati (Candore, Einaudi, 2016) più che a Brunch Bacardi somiglia ai malati di pippe descritti da Sheila. Bux, salentino trasferitosi a Roma, è convinto che Rocco Siffredi sia l’erede e il continuatore di Pasolini, e nel climax di desolazione in cui egli si dimena ciò che appare meno pornografico è forse proprio il porno stesso. Per Martino il porno è un surrogato del sesso, un sesso che non è (quasi) mai vissuto carnalmente, ma solo attraverso la sua enciclopedica cultura a luci rosse. Ciò che evidenzia Desiati è che l’educazione sessuale di questo ragazzo qualunque si è costruita esclusivamente attraverso i giornalini e i film pornografici, alterando irreparabilmente le sue attitudini relazionali con le donne. Non per forza un male secondo il misterioso Roberto Parsi: «Il porno ha un vantaggio, l’immagine. Ti illude che il sesso non sia mai fallace o deperibile, come l’immagine dei suoi protagonisti».

In realtà il porno è una guerra, «e come ogni guerra ti lascia i segni addosso». E Martino quei segni sembra portarli tutti: le ragazze che incrocia nel quotidiano gli ricordano delle attrici hard, e ne assumono immancabilmente il nome; tutte le esperienze della vita reale gli sembrano scene già viste nei film. C’è un rovesciamento tra il piano reale e quello fittizio: è la realtà che riproduce i film e non viceversa, è il vero che diventa falso come teorizzava Guy Debord. Il set della vita di Martino Bux è una Roma viziosa e decadente, fatta di «strade che la notte diventavano luoghi del vizio e io, nel mio piccolo ne facevo parte». Un vizio che nella sua discesa agli inferi lo porterà a diventare barbone, e l’ultima cosa che gli rimane per avere un po’ di calore saranno le riviste porno conservate in una valigia: «Le cellule di carta annerite dal fuoco che salivano su nel cielo erano i miei sogni proibiti: Moana, Ilona, Odette, Julie. Addio».

Martino ha la storia del porno cucita addosso, eppure è un uomo che non ha mai saputo andare in fondo alle proprie fantasie e trasgressioni. Forse perché non ne aveva la forza. Così, mentre lui è sprofondato nel coma, Lucia, amante mancata, si reca al suo capezzale, invaghendosi del primario. E mentre si baciano a lei sembra di sentire una voce mogia, rauca, che ripete costantemente due parole: «Posso guardare?». È la voce di Martino Bux, che per tutta la vita non ha fatto altro che guardare. Che può solo guardare: l’eterno scorrere di un ignobile e meraviglioso film porno.

Sembrano voci dall’oltretomba anche quelle dei protagonisti di Dalle rovine di Luciano Funetta (Tunué, 2015), romanzo in cui il legame tra pornografia e morte appare inscindibile. Ma la pornografia non è solo morte: è anche arte. È un affare che in pochi possono capire: per tutti gli altri è una malattia che percorre il pianeta alla velocità della luce. Il protagonista di Dalle rovine è Rivera, un uomo solo con i suoi serpenti. La sua abilità sta nel farsi masturbare da due dei suoi rettili, che non mordono più, ma servono solo a procurare piacere: una sorta di extrema ratio del sesso e del suo consumo.

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Rivera diventerà attore di un episodio (Lo specchio) del film Il regno di Birmania di Jack Birmania, regista di culto e guru del cosiddetto porno-intellettuale. In un vuoto metafasico che sembra avvolgere ogni cosa, la pornografia estrema appare come l’unico viatico per placare il dolore di una perdita; è quasi una visione sadiana quella di Funetta, perché a Fortezza la legge morale consiste nel godimento estremo, che per affermarsi, come asseriva Sade, «deve attaccarsi al dualismo più concreto: piacere – dolore». La crudeltà e il crimine appaiono come energia dell’uomo che la civilizzazione non ha ancora corrotto: una virtù, non un vizio. Soprattutto per l’argentino Alexandre Tapia: «Il corpo nudo della donna era legato a una brandina lurida. I due polsi si dibattevano nei lacci di cuoio. […] Accanto alla branda s’intravvedevano le gambe di un uomo in piedi. Pantaloni eleganti, scarpe lucide, la parte inferiore di un camice. La mano dell’uomo, di tanto in tanto, stringeva il polso della prigioniera con due dita, come se volesse misurare il battito cardiaco».

Si tratta di un mondo di allucinazioni provocate dalle infinite solitudini degli uomini, in cui il porno somiglia ad un rituale religioso, ad una seduta di ipnosi o di tortura. In cui tutto sembra svolgersi in un inquietante silenzio, e solo le rovine sopravvivranno: ma prima della fine accoppiamenti e solitudini popoleranno l’ultima notte degli uomini.

Tirando le somme l’immagine della pornografia che viene fuori dalla sua rappresentazione letteraria è lungi dall’essere positiva. E non dovrebbe apparire strano, se prendessimo per buona l’analisi della filosofa Michela Marzano (Malaise dans la sexualité, JCLattes, 2006), che considera il porno una sorta di specchio delle contraddizioni delle società occidentali, «di un mondo che esalta la libertà rinchiudendo allo stesso tempo l’individuo all’interno di un sistema fortemente normativo». Susan Sontag invece relativizzava l’immagine negativa dell’immaginario pornografico, che a suo parere era poco attraente, e tra i prodotti considerati socialmente più pericolosi era «sicuramente uno dei meno temibili, poco suscettibile di causare sofferenze collettive» (The Pornographic Imagination, 1967).

È probabile che Susan Sontag avesse ragione. Eppure viene da pensare alle indicibili sofferenze di Paul, sdraiato sul lettino del suo psicanalista, il Dottor Petrov (Daniel Foucard, Sexes, Inculte, 2014). Paul è un consumatore bulimico di immagini pornografiche, che lo attirano più dell’atto sessuale stesso: un disturbo che inizia a diventare invadente. Petrov s’incarica di trovare una cura per il suo paziente: «Il vostro caso è molto corrente. È completamente inoffensivo secondo la legge, ma fa soffrire, umilia. Esistono differenti metodi. Le propongo di optare per un dialogo costruttivo: è più gradevole e il prezzo non cambia». Chissà cosa ne penserebbero Martino Bux, Nadine, segaioli e fantasmi vari, tutti coinvolti, malgrado loro, nell’annosa e incresciosa questione delle guerre sessuali. Certo, iniziare a parlarne rappresenta già un primo passo avanti, anche per recuperare un colpevole ritardo: non è vero Dottor Petrov?

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