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Questo pezzo di Wanda Campbell è stato originariamente pubblicato su Thresholds che ringraziamo e tradotto da Sara Valente per Altri Animali.

Anche se Fantasie di stupro è stato scritto nel 1975, rimane uno dei racconti più conosciuti di Margaret Atwood vista la sua comparsa in diverse edizioni di The Norton Anthology of Literature by Women e in altre antologie piuttosto diffuse. Il racconto è così controverso da venire escluso dalla prima edizione americana di Dancing Girls & Other Stories, forse perché agli occhi di un lettore occasionale poteva sembrare che Atwood stesse trattando un argomento serio con un fare altezzoso, comico o naïf. Tuttavia uno sguardo più attento mostra che la narratrice è talmente consapevole della gravità di questo tema al punto da dover sviluppare strategie per non esserne sopraffatta. Fantasie di stupro è ambientato a Toronto, ma quando Atwood stava scrivendo Dancing Girls in realtà studiava a Harvard. È lì, a Cambridge, in Massachusetts, che ha imparato a conoscere per la prima volta la paura urbana. («Prima di arrivare lì, ho sempre camminato da sola di notte, non mi preoccupavo delle porte chiuse ecc. Se ti comportavi in quel modo, a Cambridge eri morto»).((Conversations 77 in (a cura di) E. Ingersoll, Margaret Atwood Conversations, Virago, Londra 1992.)) Questa non è una esagerazione da parte di Atwood. In Crime Victim Stories: New York City’s Urban Folklore, Eleanor Wachs racconta alcune statistiche scioccanti sulle vittime dei crimini riferite all’anno in cui la storia di Atwood è stata pubblicata: «L’Uniform Crime Report del 1977 riporta che negli Stati Uniti c’è un omicidio ogni ventisette minuti. Una violenza sessuale aggravata si verifica ogni otto secondi».

Atwood_Conversations

Il racconto di Atwood coinvolge un gruppo di quattro impiegate che chiacchierano durante una partita di bridge in mensa. Una di loro, reagendo a un articolo su una rivista, invita le altre a condividere le loro «fantasie di stupro». Anche se alleggerite da un certo sarcasmo e satira, le storie raccontate dalle donne di Atwood condividono diverse caratteristiche significative coi racconti delle vittime di crimini che, secondo Wachs, rendono una situazione travolgente più gestibile permettendo ai narratori e agli ascoltatori di «umanizzare il problema, limitare una paura nebulosa […] e cercare di riprendere un qualche controllo sulle loro vite e azioni. Questi racconti non sono tanto sulla violenza quanto sulla sopravvivenza e la perseveranza», temi centrali di tutto il lavoro di Atwood.

La prima storia raccontata da Greta è di un uomo vestito tutto di nero che entra nel suo appartamento al diciottesimo piano dalla porta scorrevole del balcone, facendosi strada di balcone in balcone con una corda fissata a un gancio. Estelle, la narratrice e demistificatrice della storia di Atwood, realizza immediatamente di aver visto la stessa scena in tv.

Chrissy poi prosegue a raccontarle la storia di un bellissimo sconosciuto che la trova nuda mentre si sta facendo un bagno immersa nella schiuma, e si unisce a lei. Estelle è veloce a puntualizzare che queste storie non sono sullo stupro ma sul desiderio, perché non c’è ansia, coercizione, o violenza. «Lo stupro» dice, «è quando qualcuno ha un coltello o qualcosa del genere, e tu non vuoi».

Estelle, la narratrice di Atwood, rivolge uno sguardo critico alle storie raccontate dalle colleghe, si sforza di suggerire perché la natura erotica della fantasia e la brutale realtà dello stupro siano ai poli opposti. Ribatte che chi che fonde le due cose lo fa a suo rischio e pericolo. Dopo aver distinto lo stupro reale dalle «fantasie di stupro», Estelle offre alcuni dei suoi scenari. In ognuno di questi riesce a difendersi dallo stupratore in diversi modi, incluso spruzzargli in faccia un limone di plastica, con il kung-fu, solidarizzando per la sua acne, con contorte argomentazioni religiose o condividendo una malattia terminale. I suoi racconti, tinti sia di humour sia di orrore, e filtrati dall’inimitabile immaginazione di Atwood, sembrano sempre troppo belli per essere veri. Eppure, il filo comune è il privare lo stupratore del suo potere mostrandone in qualche modo la sua debolezza. Tutti gli scenari di Estelle riescono a rendere in buon sostanza patetico e inefficace lo stupratore, o perché gli si inceppa la lampo dei pantaloni, o perché è raffreddato, o a causa dell’acne, o per una terribile malattia. «Nelle mie fantasie di stupro» dice Estelle, «finisce sempre che mi dispiace per lui, insomma, dev’esserci qualcosa che non va in loro». In ogni caso, Estelle riesce a sdrammatizzare la situazione offrendo qualche rimedio per lo stupratore, dandogli un NeoCitran o suggerendogli un dermatologo, o confortandolo per la sua morte imminente. È importante notare che qui, come in molti altri racconti di sopravvissute allo stupro, «l’abilità della vittima sta nella sua capacità di imitare il comportamento femminile socialmente accettato: le donne imparano presto come non contrariare gli uomini violenti»((Wendy S. Hesford, Haunting Violations, University of Illinois Press, Urbana e Chicago.)) ma la resistenza, per quanto limitata o culturalmente da copione, può e fa salvare delle vite.

Estelle alla fine descrive un racconto più spaventoso su un aggressore che si è nascosto nella sua cantina con un’ascia, a cui gli angeli hanno ordinato di ucciderla, ma di nuovo Estelle riesce a uscire da quella situazione servendosi di alcuni dettagli della sua educazione cattolica per convincere l’assalitore che lei sta per dare alla luce la reincarnazione di Sant’Anna, e mostrando come prova il segno del vaccino. Il potenziale stupratore è così confuso da quella bufera di parole che lei riesce a liberarsi dal pericolo e lo convince a non farle del male. Tuttavia, non appena lui scompare dallo scivolo per il carbone lei nota che le sue scarpe sono «quel vecchio modello che si allaccia alle caviglie». Questo dettaglio deprimente suggerisce come questo richiamo alla violenza contro chi è più debole ci sia sempre stato e sia qui per rimanere. A partire dall’incipit della storia, Atwood ci rivela che siccome lo stupro sta ricevendo più attenzione dai media, non significa che sia un problema nuovo.

Estelle cerca di non pensarci troppo. «Mia madre dice sempre che non bisogna soffermarsi sulle cose spiacevoli e in genere concordo con lei, cioè, soffermarsi sulle cose spiacevoli non le fa scomparire. Tuttavia, a pensarci bene, anche non soffermarsi su mica le fa scomparire.» Nell’ultimo e più «toccante» scenario di Estelle, la giovane donna dice al suo stupratore: «Stupreresti un cadavere», perché lei ha leucemia e, come verrà fuori, anche lui; infatti è proprio l’amarezza per l’approssimarsi della fine ciò che lo fa andare in giro a stuprare donne. Alla fine i due malati terminali vanno a convivere e passano i loro ultimi mesi a confortarsi l’un l’altra.
Il racconto finisce con Estelle che si concentra su come queste storie inquietanti abbiano il potere di mettere a nudo la vulnerabilità umana e il nostro bisogno di aiutare anziché fare del male. «Al lavoro mi chiamano Miss Ansia, ma non è tanto l’ansia, quanto il fatto di immaginare cosa potresti fare nelle emergenze». Forse questo metodo di immaginare come reagiremmo in una data situazione serve a prepararci alla realtà. Sparsi tra le narrazioni sono numerosi i «fatti» sullo stupro, il più delle volte a stuprarti è qualcuno che conosci e non il bellissimo sconosciuto che Greta e Chrissy si immaginano entrare dalle loro finestre, lo stupro, poi, è coercizione, confusione, ansia e violenza, e più che con la sessualità ha a che fare con il potere.

Quando un giornalista ha chiesto a Atwood perché nella sua narrativa fossero così presenti paura e ansia, lei ha risposto:

«Mi piacerebbe lasciarmi trasportare dalla corrente e mettermi a osservare le ninfee. Sfortunatamente, non posso permettermelo. Non sarebbe bello se avessimo un mondo in cui tutto ciò che dobbiamo fare fosse contemplare la natura? Invece questo è il mondo in cui viviamo. Ed è tutto molto bello per qualche tizio che va per conto suo a spasso nei boschi. Una donna ci pensa due volte prima di farlo. O ci pensa due volte o è fuori di testa».(((a cura di) E. Ingersoll, Margaret Atwood Conversations, Virago, Londra 1992.))

In un altro passaggio di Conversations, Atwood fa notare come nella nostra società molte strutture di supporto siano crollate, portando le persone a sentirsi vulnerabili: «Perché non capisci realmente da che parte arriva il pericolo, la paura prende spesso la forma di un’ansia generalizzata o della paranoia. Non sai chi è il nemico. Non sai da quale direzione verrai colpita. Quindi tutti finiscono per guardarsi intorno, cercando la prossima minaccia. Le persone hanno paura di qualsiasi cosa sia lì fuori. E a ragione».

E ancora, Atwood crede nel potere della parola per unire le persone, come un modo per combattere l’isolamento e la paura e l’aggressività conseguenti. Nel penultimo paragrafo della storia, scopriamo che Estelle ha raccontato tutto questo a uno sconosciuto senza nome in un ristorante dove dice di sentirsi al sicuro perché tutti i camerieri la conoscono e fanno attenzione a lei: «Non so perché ti sto raccontando queste cose, credo solo che possa aiutarti a conoscere una persona, specialmente al primo impatto, ascoltare come la pensano su certi argomenti. […] Penso che sarebbe meglio se si riuscisse a intavolare una conversazione. Cioè, come potrebbe un uomo fare una cosa del genere a una persona con cui ha appena chiacchierato a lungo, una volta che capisce che anche lei è un essere umano, che anche lei ha una vita, non riesco a immaginare come possano andare fino in fondo, sai?».

Atwood ha sostenuto che se la scrittura e la lettura di romanzi ha «un qualche salvifico valore sociale, forse è quello di obbligarci immaginare cosa vuol dire essere qualcun altro. Una cosa di cui abbiamo un sempre più pressante bisogno».

Ovviamente, la parte fantasiosa del racconto di Atwood sta nel fatto qualcuno si protegga usando le sole parole. In ogni caso, si possono raccontare storie vere anche quando raccontiamo storie inventate. Raccontare è parlare, e per Atwood, la conversazione è una speranza per sanare le molte fratture che dividono la comunità umana. Come puntualizza Wendy S. Hesford, la fantasia, soprattutto una fantasia di vendetta, può giocare un ruolo lenitivo nel caso dello stupro, esercitando una sorta di «cura del dialogo». Possiamo interpretare il racconto di Atwood come un’esplorazione delle relazioni tra uomini e donne, tra esseri umani e un’ambiente ostile, tra il silenzio e la parola, o anche tra nazioni, ma in qualsiasi caso il presupposto è la speranza per la sopravvivenza e la connessione. «La speranza» dice Atwood, «viene dal fatto che le persone creano quello che ritengono degno di creare. Non solo dalla natura di ciò che è creato».

Nel racconto di Atwood vediamo il contesto culturale di una nuova pericolosa realtà urbana, ipotesi potenzialmente dannose sull’origine e la natura della minaccia, un’analisi dei modelli che viviamo, intuizioni sul potere e i pericoli del raccontarsi, e la possibilità di dialogo e cambiamento. Questa storia, come tutte le buone storie, rivela ciò che vuol dire essere umani, capaci a un tempo di grande creatività e crudeltà, e allo stesso modo deboli e valorosi.

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