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«Mi ami?»

«Come?»

«Ti ho chiesto se mi ami.»

«Siamo amici, no?»

«Questo che c’entra?»

«Io dico che c’entra abbastanza.»

«Non credo. Proprio no.»

«Come vuoi.»

«Quindi?»

«Dai, smettila.»

«Ti ho solo fatto una domanda.»

«Una cazzo di domanda.»

«Forse. Ma non significa che tu non debba rispondere.»

«Ok. Razionalmente ti amo.»

«Razionalmente mi ami. È orribile, cristo santo.»

«Orribile? Per niente, è la verità.»

«Non significa nulla, non è neanche una risposta.»

«Ma non è vero, è la mia risposta. Dovresti rispettarla.»

«Puoi aspettarmi cinque minuti? Solo cinque minuti, poi torno.»

«Certo, ma perché?»

«Razionalmente mi scappa da pisciare. Cinque minuti, ok?»

«Quello che dici non ha senso.»

Sono già in piedi. Mi volto.

«Cinque minuti, faccio in fretta. Solo cinque minuti.»

Alzo la voce in modo che mi possa sentire.

Di solito non durano molto, le pisciate razionali.

Quando la guardo penso sempre agli alieni. Ha un viso strano. Molto lungo, in modo innaturale. Occhi distanti, troppo grandi per sembrare veri. C’è una galassia là in mezzo. È come se avesse fatto qualche operazione. Anche le mani sono lunghe. Ho sempre l’impressione che mi possa toccare quando siamo molto lontani, solo allungando le dita. La verità è che mi piace, mi piace la luce che ha intorno. È come un personaggio di un film fico, o di un bel romanzo. È la prima volta che mi piace una persona, quindi dico che la amo. Lo dico a tutti. L’ho detto a mia madre. Ai miei amici. Alla cassiera del bar. Mio padre è sempre l’ultimo a sapere le cose, con lui non parlo. Ma ho detto a mia mamma che, se dovesse per caso sentirlo, potrebbe dirlo anche a lui. Una volta ho scritto su Facebook che ero in una relazione complicata con lei. Non si è arrabbiata, mi ha solo chiesto di toglierlo. Era un segnale chiaro. Non si è arrabbiata, voglio dire. Non ha neanche alzato la voce per un momento. È questo che mi piace di lei, oltre a tutto il resto. Non si arrabbia quasi mai.

Poi si veste bene. Mi piace molto come si veste. Ha sempre qualcosa di giallo. Non quel giallo smorto tipo un vestito giallo che è stato lavato troppe volte. Giallo giallo. Il giallo è un colore sottovalutato. Come il marrone. Il marrone di più, ma anche il giallo. Non se ne vedono mica in giro, scarpe gialle. Impermeabili sì, ma scarpe poche. Cose marroni invece se ne vedono ovunque, ma il marrone viene considerato un colore anonimo. Comunque lei non lo indossa quasi mai. Il giallo sì, sempre.

Da quando la conosco uso dentifricio al limone, mangio frollini al limone, leggo Aimee Bender e profumo di Issey Miyake allo yuzu. Prima o dopo si accorgerà di tutto il giallo che c’è in me.

Una volta ho letto una storia di un tizio che si nutriva solo di passato di zucca e, a poco a poco, diventava giallino, giallognolo, tendente al giallo, e bum! Arancione dalla testa ai piedi, luminoso come The Weather Project di Olafur Eliasson. Eliasson mi fa pensare sempre a Blade Runner. Anche se credo che per piacere a lei dovrei diventare più di un giallo James Turrell che di un giallo Eliasson. È un’impressione, solo un’impressione. Magari mi sbaglio, forse non basterebbe.

«Moriresti per me?»

«Che idea.»

«Ti sembra un’idea strana? Ridicola forse, ti fa ridere? La trovi una domanda stupida?»

«Alcune di queste cose insieme.»

«Ottimo. Perfetto.»

«No, non credo che lo farei.»

«Era chiaro, non c’era bisogno di specificarlo ancora.»

«Bene.»

«Quindi se fossi in pericolo non mi aiuteresti.»

«Non ho detto questo.»

«Non se aiutarmi mettesse a rischio la tua incolumità.»

«Dovrei trovarmi nella situazione, la tua domanda era un po’ diversa. Messa così è un’altra cosa.»

«E dici che siamo amici.»

«Che c’entra?»

«E che razionalmente mi ami. Razionalmente.»

«Continuerai così tutto il giorno?»

«Razionalmente.»

«Smettila.»

«Razionalmente.»

«Forse prendo un cane.»

«Per amarlo razionalmente?»

«No. Credo che potrei amarlo davvero. Irrazionalmente, intendo.»

«Mi ridi in faccia adesso?»

«Sei buffo.»

«Adesso sono anche buffo.»

«Scusa, non ce la faccio.»

«Figurati, non mi offendo. Continua pure.»

«Scusa, davvero.»

«Sei una persona così razionale. Ma è bello vederti ridere.»

«Che hai con la razionalità? Guarda che ti ho detto una cosa importante.»

«Non era quello che volevo sentire.»

«Lo so. Ma dovresti abituartici.»

«A cosa?»

«A non sentire quello che vorresti.»

Questo è il mio posto preferito a Cluj. Anche quando fa freddo mi piace stare seduto qui. In Piaa Mărăști un lato della strada è completamente grigio. Un enorme blocco grigio, condominio alveare. Classico esempio di bloc ceauşist. Starei a fissarlo per giorni. Anche qui, come quando guardo lei, ho l’impressione di fissare qualcosa di alieno.

Nevica. Il cielo è grigio chiaro. Palazzi grigi su sfondo grigio, sono belli come il mare. Azzurro su cielo azzurro. Nelle cuffie suona No Feelings dei Sex Pistols, è così rumorosa che il mondo fuori dagli auricolari sembra ancora più silenzioso. È come trovare un po’ di pace in mezzo al caos. La prossima volta mi metterò dei tappi nelle orecchie e mi distenderò in autostrada. O forse potrei usare i Sigur Rós.

Il semaforo di Piața Mărăști è per me quello che l’incrocio di Shibuya è per il resto del mondo. La gente che attraversa compone un sistema a incastro perfetto in cui non c’è margine di errore.
La neve si muove lenta come lei. E come lei senza far rumore. Anche la neve probabilmente ama in modo razionale. Anche la neve, senza alcun dubbio, ha l’aspetto di qualcosa di alieno. Qui nevica spesso, non come in Italia. Qui anche gli alieni si fanno vedere di più. In Italia non ne avevo mai visto uno. Mi sfilo gli auricolari.

«Non mi guardi mai negli occhi.»

«Falso.»

«Neanche adesso, non ci riesci.»

«Non ti guardo negli occhi solo perché tu vuoi che lo faccia.»

«Non lo fai mai.»

«Ti ho guardato negli occhi un milione di volte.»

«Io ti guardo sempre.»

«Lo so. All’inizio era inquietante.»

«E adesso?»

«Adesso niente, ci ho fatto l’abitudine.»

«Tutto qui? Ci hai fatto l’abitudine.»

«Sai che penso?»

«Cosa?»

«Che dovresti smettere di avere aspettative su quello che le persone stanno per dire.»

«Non ho aspettative.»

«Sì che le hai. Sei sempre insoddisfatto delle risposte che ti do.»

«Non sempre.»

«Spesso.»

«È così che mi vedi? Come uno pieno di aspettative?»

«Non ho mai pensato a come ti vedo. Non mi pongo il problema.»

«Fantastico. Forse non ti rendi conto di quanto sia cattivo quello che dici.»

«Sei tu che lo percepisci così. Dico cose insignificanti.»

«Non per me. Quello che dici per me è molto importante.»

«Grazie.»

«Grazie?»

«Mi fai scintillare, a volte.»

«Scintillare? Ti faccio scintillare?»

«Sì. Non vedi come brillo?»

«Merito mio?»

«Un po’. Comunque ho anche una mia luce naturale, non è solo merito tuo.»

In Piața Mărăști adesso è quasi buio. Succede così, a Cluj, un attimo prima è giorno e all’improvviso tutto diventa scuro.

La piazza lampeggia tra le luci al neon di fast food e farmacie.

«Che facciamo?»

«Io vado.»

«Capito. Ci vediamo domani?»

«Non lo so.»

«Hai da fare?»

«No, niente di particolare.»

«E allora perché non ci possiamo vedere?»

«Non ho detto che non ci possiamo vedere, ho detto che non lo so.»

«Da cosa dipende?»

«Da me.»

«Certo. Se fosse per me ci vedremmo sempre.»

«Ti annoieresti.»

«Non credo.»

«Come fai a dirlo?»

«Non mi sono mai annoiato.»

«Potresti iniziare domani.»

«Smettila.»

«Scintillo.»

Si alza. Insieme alla piazza adesso lampeggia anche lei. La neve ha attaccato, saranno cinque centimetri.

Cammina verso i taxi. Mentre si allontana intuisco qualcosa che all’inizio non riesco a mettere a fuoco. Mi concentro su ogni suo passo. La neve è compatta, una superficie liscia.

Non lascia tracce quando cammina, i piedi si appoggiano senza sprofondare. Scivola via. Sembra che galleggi su un cuscinetto di neve e aria fredda. Come uno scintillante, piccolo hovercraft.

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