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Noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili, perché le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili invece sono eterne.

Seconda lettera ai Corinzi

… la mappa dell’Europa è rimasta aperta nel luogo

in cui sei scomparso.

Al Berto, Orto di incendio

Questa storia comincia quando mi accorsi che tutti stavamo marcendo, che gli uomini della mia stessa età, che erano stati giovani e che pensavo lo sarebbero stati per sempre, erano invecchiati all’improvviso. Non c’era più nulla da fare e ognuno doveva aver capito che da quel momento sarebbe esistito solo per ricordarlo agli altri.

Mi convinsi che fosse un delitto mantenersi vivo a quel modo e accettare quello che prima era sembrato intollerabile. Decisi di allontanarmi, di partire per un posto dove nessuno mi potesse parlare o riconoscere, per i lontani e temibili deserti africani che non avevo mai voluto vedere o attraversare e che scelsi solo perché, con gli occhi chiusi, puntai il dito sulla mappa dell’Europa spiegata sul tavolo e il dito finì fuori, a indicare il nulla. Credetti che quel nulla al sud fosse l’Africa, ero sicuro che se avessi avuto una mappa più grande ci sarebbe stata l’Africa. Così andai verso il punto fuori dalla mappa.

Non so dire quando, se la prima settimana o la seconda, perché nel deserto il tempo non significa nulla, ma una notte mi derubarono. Per fortuna poco lontano da un villaggio un gruppo di ragazzi in viaggio come me avevano formato un accampamento e mi unii a loro. Spagnoli e tedeschi e palestinesi e turchi. Nei loro occhi c’era quella stessa pretesa di eternità che avevo visto o creduto di vedere negli occhi dei miei amici e nei miei e mi dissi che dovevo resistere, che dovevo rimanere con loro perché non avevo più nulla, anche se volevo scappare, allontanarmi da quei ragazzi che prima o poi si sarebbero ritrovati vecchi e avrebbero potuto soltanto spiegare una mappa non abbastanza grande e chiudere gli occhi e puntare il dito. Ma che per adesso vedevano nei loro amici quello che sapevano il mondo vedeva in loro.

Passarono diverse settimane. I ragazzi partivano e arrivavano, da soli, a coppie o in gruppi, ma nessuno rimaneva. Sapevo che presto anche io me ne sarei dovuto andare, perché non vale mai la pena rimanere fino all’ultimo.

Un pomeriggio arrivò all’accampamento un altro italiano. Giovane come gli altri. Se ne stava da solo, avvolto nell’umidità, seduto davanti alle braci della sera prima che A., un ragazzo palestinese, preparava per il nuovo fuoco.

Quando diventò buio sullo sconfinato deserto africano presi due birre e mi sedetti vicino a lui. Gli dissi che venivo dall’Italia e gli chiesi che cosa ci faceva in Africa. Fissava il fuoco che gli luccicava negli occhi dove un altro deserto, vasto come il nostro, si rifletteva e distorceva ed era una solitudine polverosa e immensa che forse da ragazzo avrei potuto scambiare per eternità, per la sua forma più primitiva e pura, ma che adesso mi fece solo paura. Allora lui mi guardò, per la prima volta incrociò il mio sguardo e mi disse che erano state delle voci a dirgli di venire in Africa. E una volta in Africa gli avevano spiegato come raggiungere il villaggio e l’accampamento. Gli chiesi che tipo di voci fossero e perché volevano che venisse qui. «È come un coro che non sa andare a tempo e ognuna canta addosso all’altra.» Fissò a lungo tutti i ragazzi e le ragazze intorno al fuoco, distanti da noi, che mangiavano e bevevano e fumavano. Dopodiché si alzò e se ne andò. Quella notte, quando il vento si alzò e cominciò a scuotere le tende e a far vibrare le bottiglie di birra lasciate intorno al falò, mi svegliai e sentii l’italiano lamentarsi nel sonno. Non aveva una tenda e dormiva in un sacco a pelo vicino alle cisterne d’acqua. Gli portai una delle mie coperte e lo osservai mentre piangeva dal profondo dei suoi sogni, lo osservai anche se la notte copriva tutto e annientava le figure.

L’italiano si tenne a distanza da tutti e tutti si tennero a distanza da lui, perché quei ragazzi dal deserto avevano imparato quanto è grande e incolmabile uno spazio e che tutte le cose sono più lontane di quanto sembrino. Ma quando qualche giorno dopo due ragazze tedesche partirono per tornare a casa l’italiano mi si avvicinò. «Ho capito perché le voci volevano che venissi qui. Quelle due ragazze non sono partite, sono morte. Nell’accampamento c’è un assassino.» Allora A. mi chiese di aiutarlo con il fuoco e lui si allontanò. Quella sera si sedette di nuovo vicino a me e mi srotolò ai piedi un fagotto fatto con la sua maglia. C’era un coccio di bottiglia e la bandana di una delle tedesche. «Sono prove che ho raccolto oggi» disse. «Erano vicino alla tenda delle tedesche, credo che questa sia l’arma.»

«È solo spazzatura» gli dissi mentre finivo di mangiare. «La bandana l’avrà persa o dimenticata.»

Mi indicò un angolo più tagliente della bottiglia perché notassi una traccia rossa.

«Non è sangue. O qualcuno si è tagliato con il vetro.»

Ripiegò la sua maglia. «Mi avevano detto di non parlarne con nessuno.»

Lo vidi camminare oltre l’accampamento e sedersi nel buio tra le dune fredde. Ricordo che pensai Sono più vecchio di quanto non fossi prima di partire. E ricordo che pensai a tutte le cose che avevo visto e sentito da quando ero partito e che non mi avevano insegnato niente. Così camminai tra le dune scivolose sotto quel tremendo cielo stellato e lo raggiunsi. Gli chiesi quanti anni avesse e dove fosse la sua famiglia. Mi disse di avere diciotto anni. Gli chiesi di mostrarmi di nuovo il coccio e la bandana e gli domandai da quanto tempo sentiva le voci. Parlammo per tutta la notte, fino a quando l’alba non sollevò le ombre, delle dune e le nostre, tutte si alzarono dai corpi. E io mi sentivo esausto anche per loro. Allora accadde qualcosa, mentre la mia ombra si allungava e si allontanava da me irrimediabilmente e quel ragazzino parlava delle profondità tremende e sacre di cui non sapeva nulla ma che doveva contenere tutte nella sua mente. Accadde che pensai C’è ancora qualcosa da salvare. C’è ancora un’ultima giovinezza per cui è possibile fare qualcosa.

Iniziammo a raccogliere cocci di vetro e pezzi di stoffa e carte e tappi di bottiglia e altri rifiuti che trovavamo intorno all’accampamento e ogni volta che qualcuno partiva il ragazzo ripeteva che era morto, ucciso dall’assassino. Un giorno anche A. lasciò l’accampamento. Era stata la prima persona con cui avevo parlato e stretto amicizia e sapevo che non l’avrei più rivisto e in qualche modo era vero, era morto.

Per un po’ mi sembrò che avremmo messo insieme quei rifiuti persi o abbandonati o dimenticati per sempre, quei rifiuti che erano solo cose tra le infinite cose senza posto e valore nella vita di nessuno tranne che nella sua. E mi sembrò o volli credere che si trattasse solo di questo, di salvare così tutti quei ragazzi perduti per sempre. Ma ogni giorno si convinceva di essere un po’ più vicino a scoprire chi fosse l’assassino e aveva cominciato a seguire un ragazzo spagnolo e un ragazzo turco. Di notte lo sentivo piangere nella tenda che gli avevo prestato o restare sveglio e camminare nell’accampamento e sapevo che cercava delle prove, che ascoltava nella notte africana quelle voci incessanti dentro di lui.

Una mattina decisi che gli avrebbe fatto bene allontanarsi e lo convinsi ad accompagnarmi al villaggio. Lì, con gli ultimi soldi che mi erano rimasti, noleggiammo un’auto e guidai fino alla costa, fino all’Oceano Atlantico. Era preoccupato, pensava che sarebbe dovuto rimanere a vigilare sull’accampamento e raccogliere prove, ma gli assicurai che saremmo tornati quella sera. Sulla spiaggia stendemmo le coperte e mangiammo le provviste che avevo portato. Il sole era opaco e illeggibile oltre le nuvole, ma ci spogliammo ed entrammo nell’acqua fredda e nuotammo fino a toglierci ogni granello di sabbia che ci si era attaccato addosso nelle settimane e nei mesi in quell’asfissiante deserto. Il ragazzo rideva e a braccia distese entrava dentro l’acqua, entrava nella sua vita lontano dalla riva e io pensavo Vai, mettiti in salvo, e sembrava che potessimo nuotare per sempre senza mai sentire la stanchezza e dopo uscimmo dall’acqua e il giorno e la sabbia erano ancora lì ad aspettarci e ci stendemmo sulle coperte per asciugarci. Prima di ritornare a casa il ragazzo volle salire su una duna che copriva l’orizzonte per vedere il tramonto. Io rimasi sulla spiaggia e caricai le cose in macchina. E lo aspettai. E per la prima volta da quando ero partito piansi. Oltre le dune avanzava il buio e io ebbi paura che il ragazzo si fosse spinto troppo in là e non potesse più tornare indietro. Non alla macchina, non alla spiaggia. A qualcos’altro. Sentivo che c’era qualcos’altro da cui ci si poteva allontanare e non fare più ritorno. Lo vidi discendere la duna correndo e alzando la sabbia e sorridendo e io credo che in quel momento le sue voci fossero tollerabili, e forse perfino perdonabili.

Non appena ritornammo all’accampamento il ragazzo ricominciò a raccogliere prove e a seguire il turco e lo spagnolo e a rimanere sveglio o piangere di notte. Arrivarono dei nuovi ragazzi e lui cercò di cacciarli perché non erano al sicuro. Gridò e spense il fuoco e rovesciò una delle cisterne d’acqua e dovetti portarlo via. Una mattina venne a svegliarmi e mi disse di aver scoperto l’identità dell’assassino. L’aveva capito nel momento in cui aveva rovesciato la cisterna. Era convinto che fosse il ragazzo turco. Era l’unico che ogni giorno lasciava l’accampamento per andare a prendere l’acqua al villaggio e riempire le cisterne. Disse di aver trovato dei mozziconi di sigaretta vicino alla sua tenda e che uno aveva un’impronta dello stesso rossetto portato da una ragazza palestinese che lui credeva morta ma che in realtà era partita per l’Egitto. Provai a farlo calmare e a spiegargli che queste cose potevano non voler dire niente, non nascondere nessun significato e che avremmo dovuto aspettare ancora prima di fare qualsiasi cosa. Ma vidi, lo vidi distintamente, che lui si era già consumato e speso tutto per quella redenzione, per quella fede nella redenzione, così antica e profonda che perfino lui non sapeva più a cosa avrebbe portato. In quel momento seppi, come se fosse l’alba e tutte le ombre prendessero forma e si rivelassero, che pensava che rispondere all’appello, assolvere il suo compito, quello per cui forse credeva di essere nato, fosse l’unico modo per far in modo che le voci smettessero di vigilare sulla sua anima.

Lasciò la tenda e per tutto il giorno non lo vidi. Seguii il turco, lo seguii dovunque e rimasi sveglio accanto alla sua tenda per tutta la notte. E mentre il vento si alzava e cambiava il corso misero e orgoglioso del deserto successe quello che sapevo sarebbe successo e che forse avrei potuto sfogliare nei suoi occhi quella prima sera davanti al fuoco o leggere sul tavolo, nello spazio vuoto sotto la mappa dell’Europa. Il ragazzo aspettò che tutti fossero andati a dormire e si incamminò verso la tenda del turco. Lo vidi camminare nel suo corpo magro e prepararsi al destino di silenzio e quiete che lo aveva atteso tutta la vita, e lo vidi sorridere e salutare le sue voci, con il coltello che gli tremava nella mano. Camminava nella notte stellata africana e io gli andai incontro. Lo fermai, lo aggredii, lo spinsi a terra. Cadde nella sabbia e mi guardò come se non mi riconoscesse. Allora feci l’unica cosa che potevo fare: gli confessai tutto. Gli dissi che l’assassino ero io, che avevo ucciso io tutti quegli uomini e quelle donne e disseminato gli oggetti perché lui li trovasse. Per un attimo mi sembrò di vedere nei suoi occhi qualcosa di simile alla completezza. In quel modo seppi che il mio sacrificio era stato giusto e pensai a quel ragazzo solo e impaurito e pensai a quella strana pace, quella promessa di pace, che sembrava accogliere in quel momento, mentre si rialzava e raccoglieva il coltello e veniva verso di me, e pensai alle voci e al deserto sconfinato intorno a noi, e alla giovinezza, che non è mai beata.

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