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*Questo racconto è stato originariamente pubblicato in inglese su Granta col titolo Black Milk, ringraziamo l’autrice e la rivista per la gentile concessione. La traduzione in italiano è opera del progetto Parole Migranti nelle persone di Cristina Galimberti, Martina Ricciardi e Ilaria Stoppa.

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La donna uccello venne al mondo mentre nessuno guardava. Furono i vecchi del suo popolo a mandarla, quelli che avevano scelto di non fare la transizione, quelli che erano rimasti nelle loro forme di pennuti, i becchi tanto affilati da costringere qualsiasi ragazza a fare quello che le dicevano gli anziani.

«È ora» dissero. «Sono pronti.»

Ma lei lo era?

C’erano cose che gli esseri umani dovevano sapere. Ma prima doveva farsi strada nel loro mondo. Li osservò a lungo dal suo trespolo cercando di capire com’erano. Le sembravano così goffi e sgraziati – così lenti nei loro corpi grevi, la carne liscia, scoperta – non c’era da stupirsi se prendevano il piumaggio dalla sua specie o facevano copie scadenti con le loro fibre. I loro movimenti la ferivano – avrebbe dovuto rallentare, placare lo sbattere delle ali, il guizzo negli occhi che l’avevano protetta e nutrita per tutta la sua vita selvaggia.

Vide la donna che sarebbe diventata. Avrebbe preservato un po’ di dignità se avesse tenuto la testa alta, indossato gonne pesanti che si aprivano a ventaglio e con lo strascico, se avesse chiuso nel corsetto la carne scoperta e l’avesse rivestita con abiti di sartoria. Un bel cappello alto, o uno chignon elaborato, arricchito con pietre che catturavano la luce. Aveva visto donne così, planava su di loro nel vento. Anche loro la vedevano, ma non la indicavano, né gridavano come i bambini. Vedevano e prendevano nota in silenzio, a volte la riconoscevano e le facevano un cenno con il mento. Vedeva segni a spirale sul mento di alcune donne dai capelli scuri, e pensava che avessero un significato. Nonostante li vedesse di rado e dovesse mimetizzarsi, decise di farsi anche lei quei segni, almeno in caso di bisogno l’avrebbero riconosciuta.

Così venne al mondo quando nessuno guardava, ormai grande abbastanza da essere una donna uccello e non più una ragazza uccello. Poi attraversò la foresta e andò dove vivevano gli esseri umani. Alle porte del villaggio furono gli uomini a vederla per primi. Si tolsero il cappello ed evitarono di guardarla negli occhi, perché nei suoi modi c’era qualcosa di pungente che li metteva a disagio. Li superò proseguendo su vialetti fiancheggiati da case, preoccupata perché senza ali la polvere le si sarebbe accumulata addosso senza andare più via. Ma come facevano a sopportarlo, con tutta quella gravità e quella sporcizia?

Le donne erano meno circospette. La squadravano dalla porta di casa e cercavano di indovinare da dove venisse e che donna fosse.

«Cerchi qualcuno, cara?» gridò Eloise, che era sopravvissuta al parto di quattro feti morti e aveva adottato tutti i trovatelli della città.

«Forse è nel posto sbagliato» disse Aroha a Eloise, abbastanza forte da farsi sentire dalla donna uccello.

«Ti sei persa, cara?» una volta conosciuta Aroha non era poi così male, ma non era una donna facile da conoscere.

La donna uccello pensò a come rispondere a queste domande, e la sola cosa che le venne in mente fu di farlo con educazione.

«Sto bene, grazie, sto cercando un posto dove stare. Sapreste consigliarmene uno?»

Le donne rimasero disarmate dalla sua schiettezza.

«Mrs Randall affitta camere» disse Eloise. «Aroha, ti va di accompagnarla da Mrs Randall? Ho delle faccende da sistemare con questo lotto. Chissà cosa succederebbe se li lasciassi alle loro macchinazioni.» Quando doveva spiegare qualcosa, Eloise esagerava sempre con le parole.

L’ombrosità di Aroha non riusciva a sovrastare il tenue bagliore che la donna uccello emanava. I suoi capelli erano luminosi e così meravigliosamente soffici che Aroha voleva allungare la mano, ma non poteva, perché quale protezione, visibile o invisibile, portava con sé una donna come questa? Non era mai stata così vicino a qualcuno altrettanto meticoloso e, a dirla tutta, lucente. Nel giro di pochi minuti si ritrovò a raccontare alla straniera tutte le novità del paese, compresi i pettegolezzi più allettanti.

C’era un motivo se nessuno aveva guardato, capì la donna uccello, sebbene ci fossero sentinelle su ogni collina. Erano troppo impegnati a guardarsi l’un l’altro e a guardare le loro armi, troppo impegnati a escogitare le tattiche di una guerra che, a prescindere da quante volte avessero già affrontato, non era possibile comprendere. Sapeva che si erano accorti della sua stranezza, ma nessuno aveva la forza di preoccuparsene.

Prima d’ora li aveva considerati solo esseri sgraziati che catturavano i piccoli corpi svolazzanti dei suoi simili per il cibo e le piume, i becchi e gli artigli. E anche se ne aveva sofferto molto, sapeva che in tutto questo c’era un equilibrio. Le persone salutavano e ringraziavano, ma andavano a caccia. Era un vecchio accordo fatto all’inizio: la sua stirpe si sarebbe sacrificata per la loro. Ma per sopperire al dolore, gli dei li avevano ricompensati con due doni – l’abbondanza e l’assenza di altri predatori.

Si abituò ai loro modi. Aiutava. C’erano persone da organizzare e bocche da sfamare. Manteneva la sua dignità nel vestirsi, ma rimboccarsi le maniche non era un problema. E il tempo passava. E le guerre finivano, ma a quel punto sempre più persone avevano fame, e lei non sapeva se gli anziani avessero avuto ragione, dopotutto – poteva davvero fare qualcosa per aiutarli? Le sue maniche erano ancora rimboccate, e vedeva cosa aveva spinto la sua famiglia a mandarla sulla terra – quanto dovevano lottare, questi terripedi, i suoi amici eretti, nudi, quanto male si facevano, come bambini che non avevano ancora imparato a tenere per bene un coltello o a correre senza inciampare.

*

Si era impegnata così tanto con le persone e le loro guerre che se ne accorse solo quando era tutto finito. Non la portavano mai a caccia, avevano visto la sua disapprovazione e non volevano farla arrabbiare. Ma un giorno riemersero dalla foresta a mani vuote, niente da offrire ai loro figli.

«Sono i ratti» disse un uomo.

«O magari i gatti» Eloise fece un cenno con la testa verso il micio selvatico ai suoi piedi.

«È l’uomo bianco» a parlare era un vecchio koro conosciuto per il suo modo di agitare il bastone e inveire contro i tempi che cambiano. «Li prendono per i loro musei. Li mettono dietro a un vetro per osservarli. L’ho visto quando sono andato laggiù, da ragazzo, sulle navi…»

«Āe, āe, koro» i giovani alzarono gli occhi al cielo. Avevano sentito parlare delle navi, le navi. Ma era tanto tempo fa. Prima delle guerre. Le guerre li avevano induriti, sfiancati.

«Li vendono. Ne prendono a centinaia.»

Nessuno voleva sentire questa parte. Nessuno voleva crederci. Ma lei sentì.

«Che importa ora cosa gli è successo. Non ce n’è rimasto neanche uno. L’ultima volta che ho visto un huia ero ancora un ragazzo.»

Possibile che se n’era andata da così tanto tempo? Possibile che non si era accorta di quanto si affievolissero le voci degli anziani? Sarebbe rimasta qui per sempre, con questi esseri folli, fatti di carne? No. Non erano pronti. Come potevano comprendere i doni della sua specie se non riuscivano nemmeno a controllare sé stessi, o gli altri? Tutti quei morti.

Così se ne andò, veloce come era venuta. Vagò per i villaggi, piena di rabbia, divorata dal dolore. Si dimenticò chi era.

Era un posto oscuro quello in cui entrò. Non aveva più la testa alta, non aveva più sogni per il futuro. La disperazione le si sedette sulle spalle, al posto delle ali. L’oscurità la consumava, il labbro tremolante di un abalone in fin di vita, il grasso nella canna di un fucile. A volte non vedeva né sentiva uccelli per settimane.

Poi un giorno lo vide, la sua grande figura ricurva lo faceva assomigliare a uno dei suoi, con i capelli che scintillavano alla maniera dei tui. Quando lui si mosse, le sembrò di sentire il fruscio sommesso di una piuma su un’altra piuma. Si avvicinò lento, con fare posato, aveva gli arti pesanti, ma quando si girò in quel modo – fu abbastanza.

«Signora» disse, e accennò un inchino.

Era una montagna di piume scure. Era la forma delle sue notti. Era inchiostro versato in una pozza di petrolio, roccia vulcanica, occhi di onice. Il nero li avvolse. C’erano stati così tanti giorni lunghi, aveva visto così tante cose che non voleva vedere. Signora, disse, e a lei piacque la maniera in cui la parola le girò intorno e le diede un posto dove riposare.

Ebbero molti figli.

Allora non aveva tempo per ricordarsi chi era.

«Madre» urlavano i bambini «abbiamo fame. Madre, abbiamo freddo, aiutaci.» Dalle loro bocche uscivano solo continui bisogni e richieste. La tenevano occupata tutto il giorno, da mattina a sera. Insieme lavoravano sodo per crescere i figli. Per lei era più facile dimenticare il senso di colpa e la vergogna per il luogo da cui era venuta, per aver lasciato che le cose andassero così male, per non aver aiutato il suo popolo. Meglio far crescere i figli nel mondo del marito, senza il peso della conoscenza che lei si portava dietro. Decise che era la strada giusta, anche se a volte il marito le lanciava un’occhiata furtiva, come se fosse intento a riflettere su un enigma che non riusciva a decifrare.

«Moglie, a volte sembri molto distante» disse un giorno.

«Sono qui, marito, guardami. Sono sempre qui.» Ma lui non era convinto.

«Sì, il tuo corpo è qui, ma lo vedo quando te ne vai. È come se tu fossi lassù, da qualche parte.»

Anche in un matrimonio molte cose si possono nascondere. O condividere.

«Puoi parlarmene, se vuoi» disse lui.

«A volte mi manca la mia famiglia, ma poi penso ai bambini.» Era stata questa la sua risposta. I bambini prima di tutto.

Poi fu difficile quando i figli, uno a uno, cominciarono a perdere la rotta.

Li guardò andarsene prima di quanto avesse desiderato, e partire alla volta del pericolo. Ma quando il figlio più piccolo diede segno di voler seguire la stessa strada, lo prese da parte.

«C’è una cosa che avrei dovuto dirvi tanto tempo fa.» Suo figlio si chinò, così che lei potesse sussurrarglielo all’orecchio. Gli raccontò da dove era venuta, della sua specie, del perché erano rimasti in così pochi. Dei loro doni. Del patto che avevano stretto con il popolo del padre. Gli raccontò che era stata mandata tanto tempo fa, e raccontare fu come svelare tutte le cose che aveva visto: le guerre e la disperazione, i musei e il dolore, le lunghe notti oscure e la gioia di avere figli.

«Eravate la speranza fatta realtà» gli disse. E sperò che non fosse troppo tardi, sperò che la conoscenza lo avrebbe aiutato, sperò che la storia lo avrebbe reso più forte di quanto lui credeva.

Il ragazzo scoprì un mondo diverso da quello che credeva. Scoprì molte cose che prima non aveva ritenuto possibili. Aveva solo una domanda.

«Perché non ce l’hai detto? Perché non l’hai detto a nessuno?»

Pensò che avrebbe dovuto aprire bocca invece di tenerla chiusa. Che il silenzio non è mai d’aiuto. Ma l’avrebbero sentita? Magari non aveva dato loro l’opportunità.

«Forse avrei dovuto parlare prima. Forse no. Quando è ora, è ora» disse, e posò la mano sulla spalla del figlio.

Svelare la sua storia fu la fine. Riaffiorò l’oscurità. Questa volta non fu tetra né dolorosa, fu il balenio di un becco ricurvo in una notte di velluto. Latte nero. Le profondità di Te Kore, il luogo prima della notte. Più invitante, più liquido di quanto ci si aspetti dal nero. L’oscurità che avvolge tutta la luce. Casa, pensò, e sentì il movimento delle piume nell’aria.

*®TinaMakereti, Titolo originale: Black Milk, 2016  Tutti i diritti riservati   ®Traduzione italiana di Cristina Galimberti, Martina Ricciardi e Ilaria Stoppa

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