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Chi è stato il più forte calciatore italiano di tutti i tempi? A questa domanda, ovviamente retorica, si potrebbe rispondere approssimando per slabbrate decadi.

Negli anni ’90: Roberto Baggio (sfido a duello chiunque voglia dire il contrario!); negli ’80: probabilmente Bruno Conti; nei ’70 c’erano Mazzola, Rivera e Gigi Riva; nei ’60: Sivori; negli anni ’50 un altro Mazzola, Valentino. Negli anni ’30 calcavano i manti di campo – non proprio verde – Giuseppe Meazza e Silvio Piola. E negli anni ’20? Sicuramente Adolfo Baloncieri.

Adolfo Baloncieri nasce a Castelcerione, in provincia di Alessandria, nel 1897. I genitori lo portano in Argentina ancora in fasce. Scelgono quella nazione per emigrare e andare a lavorare. Si stabiliscono a Rosario, la città del calcio. «Ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa per la strada lì ricomincia la storia del calcio» diceva lo scrittore argentino Jorge Luis Borges. Baloncieri fa proprio questo per le strade di Rosario. Ancora giovanissimo viene riportato in Italia dai suoi genitori che hanno, forse, nostalgia di casa. Diventerà uno dei primi numeri dieci della storia, idolo dell’Alessandria e poi del Torino. Un calciatore capace di grandi giocate per liberare i compagni, ma anche di grande capacità realizzativa.

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In quegli sta iniziando la netta separazione tra il calcio degli inglesi e quello degli argentini e soprattutto degli urguayani.

L’Inghilterra è il luogo dove nasce il gioco, dove si sviluppano le sue regole, dal fondamentale fuorigioco alla (poco) gradita presenza dell’arbitro in campo. Figura che all’inizio non era neanche prevista, dato che gli inglesi sono anche gli inventori del Fair Play.

Ma il luogo dove il football diventa adulto e acquisisce anche qualche piccolo difetto, proprio come ognuno di noi, è il Sud America. In quel continente il nostro gioco preferito diventa fantasia, divertimento, in alcuni casi poesia, ma anche delirio, felicità e gioia. È lì che si scrolla di dosso gli schemi, i moduli e le rigidità imposte dal modo di giocare degli inglesi e diventa il gioco che ci fa prendere a calci anche una lattina di birra vuota per strada. In Uruguay, all’inizio dell’epopea della grande Celeste, il calcio diventa anche avanguardia di integrazione. In campo possono scendere bianchi, neri o mulatti. Nessun problema. Da questo punto di vista, sarebbe stato folle tenere fuori un genio come José Leandro Andrade!

Si farà strada anche un giocatore senza un braccio, Hector Castro che, se non si fosse trovato davanti Pedro Petrone e Hector Scarone, sarebbe stato titolare inamovibile della squadra vincitrice di due olimpiadi e del primo mondiale della storia.

Gli inglesi snobbano quei mondiali che si svolgono proprio in Uruguay, alcuni dicono per paura e probabilmente hanno ragione, visto che la Celeste domina due Olimpiadi nel 1924 a Parigi e nel 1928 ad Amsterdam. Siamo in un’epoca in cui non esistono i mezzi di comunicazione di oggi, e quando la squadra di Mazali, Nasazzi, Andrade e Petrone arriva in Europa, la gente quasi gli ride appresso. «Hanno addirittura un nero in squadra!»

Eppure, appena scendono in campo quelle stesse persone restano a bocca aperta. Sarà anche per questo che su questi giovani sudamericani, sbarcati a Parigi e poi ad Amsterdam, fioccano le leggende. Da quella che gli europei si contendessero i biglietti per vedere l’Uruguay, alle scorribande notturne di Andrade vestito come un damerino in giro per i locali de la Ville Lumiere.

Se la vittoria all’Olimpiade del 1924 è una sorpresa, quella del 1928 è una conferma. L’Uruguay vince trionfalmente la finale contro i superivali dell’Argentina, 2-1. Prima di questa storica vittoria, in semifinale incontra l’Italia, che è una delle rivelazioni del torneo. Agli ottavi gli Azzurri avevano battuto 4-3 la Francia, e il gol decisivo lo aveva segnato quello che potremmo definire il nostro primo oriundo: Adolfo Baloncieri. Anche lui non è molto conosciuto, ma con i quarti Italia-Spagna entra di diritto nella storia come il primo italiano a segnare un gol al leggendario portiere spagnolo Ricardo Zamora, protagonista di tante epiche sfide sui campi brulli d’Europa. Ma Italia-Spagna finisce 1-1 e, poiché rigori, golden gol o scorciatoie di questo genere ancora non esistono, si deve rigiocare. La seconda volta non c’è Zamora e il match finisce con un sonante 7-1 per gli Azzurri, con doppietta di Baloncieri.

In semifinale c’è l’Uruguay. Prontivia e segna di nuovo Adolfo Baloncieri, ma gli urguayani sono più forti e vincono 3-2. La nazionale italiana vince comunque il bronzo, battendo l’Egitto 11-3. E anche qui, il nostro giocatore più forte segna una doppietta.

Baloncieri muore vecchissimo nel 1986, e per ricordarlo non ci ha lasciato che pochissime immagini. Niente account instagram, pubblicità o canale ufficiale su youtube. Niente messaggi, ma l’ammirazione di chi lo aveva visto giocare, da Gianni Brera a Pozzo o Ghirelli. Solo i propri piedi sul campo, e quella «nevrile eleganza» di cui aveva parlato una volta Brera, fatta per mettere a frutto il suo «istinto goleadoristico di limpidissimo stile».

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