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Pubblichiamo un estratto  dal romanzo di Francesco Permunian, Sillabario dell’amor crudele, uscito per Chiarelettere. Ringraziamo autore ed editore.

D

Dalmata, cane

Da quasi due ore il cane del portinaio, che è partito per il mare, non cessa di abbaiare. La misura è ormai colma! Scartata l’idea di tirargli un colpo di carabina o di avvelenarlo con l’acido muriatico – io non sopporto i cani, specialmente quelli di taglia grossa (e ho le mie buone ragioni) –, alla fine ho deciso di avvertire un circolo di animalisti perché si prendano cura di quella bestia ululante. E così il cane, uno splendido dalmata, è stato visitato da un veterinario comportamentista il quale, dopo una lunga e accurata anamnesi, ha formulato non una, bensì due ipotesi diagnostiche. La prima è la più sorprendente: sono anni che a quell’animale, a detta del medico, verrebbero somministrati il valium o altri ipnotici di natura sedativa affinché non abbai. Quando però il suo padrone se ne dimentica e va in vacanza, logicamente lui dà fuori di testa e non sta più zitto. La seconda ipotesi è di matrice genetica ed ereditaria. Il cane potrebbe essere sordo oppure sordastro, una problematica alquanto frequente nella razza dalmata. E pertanto abbaia onde manifestare il suo disagio auditivo, come fanno le persone dure d’orecchio che parlano sempre a voce alta. C’è poi una terza supposizione (la mia): abbaia semplicemente per sentire la propria voce. Come farebbe un qualunque cristiano, poniamo il caso, abbandonato dentro un bosco; un modo come un altro, in definitiva, per sentirsi meno solo in assenza del padrone. E tale sembra essere anche l’opinione personale del veterinario, il quale si complimenta con me per la felice intuizione canina e suggerisce di trovargli quanto prima una compagna, possibilmente una cagnolina dalmata sui cinque o sei anni. «Nell’attesa che venga rintracciata l’amichetta giusta – mi fa –, perché non se ne occupa lei? Basta lanciare un latrato ogni tanto, in segno di amicizia e di vicinanza.»
E per dimostrarmelo si accovaccia per terra e poi, posizionatosi a quattro zampe, inizia ad abbaiare (bau! bau! bau!) come farebbe una muta di cani da caccia.

Anziché farmi sorridere, a me tutta quella cagnara mette invece una grande inquietudine e angoscia. Angoscia al ricordo di quei cani lupo che, di notte, stavano di guardia davanti ai cancelli della Santa casa dei trovatelli; bestie fameliche che se ti azzardavi a fuggire scavalcando il muro di cinta, ti azzannavano e sbranavano in un sol boccone. Il che non era poi la sorte peggiore per chi tentava la fuga. In quanto, se si trattava di una ragazza, la malcapitata finiva a lavorare in lavanderia nei sotterranei dell’orfanotrofio, ridotta a schiava­ lavandaia secondo il collaudato sistema delle Case Magdalene irlandesi. Nel caso fosse un ragazzo, lo si relegava invece in soffitta a tenere compagnia a quelle creature da Cottolengo rinchiuse lassù. E lo si lasciava là, a pane e acqua, a impazzire in mezzo a idioti, epilettici e cerebrolesi di ogni specie fino al raggiungimento della maggiore età. Fino al raggiungimento della più completa e totale follia.

Dieta

«Ascolta, Bernarda, ascoltami bene che devo parlarti di una faccenda importante. Su, ascolta le mie parole e prendi nota, ti prego. Uno yogurt e una mela cotta a pranzo, nonché un altro yogurt e una seconda mela cotta a cena, ricordatelo, rappresentano il miglior viatico per favorire la digestione. E da che mondo è mondo, una buona digestione è la premessa per una buona intesa coniugale, è un dato scientificamente provato; ragion per cui tanto vale che io e te, cara Bernarda, pranziamo e ceniamo abitualmente a base di yogurt e mele cotte. Mi segui tesoro? Mele Melinda nei mesi caldi e temperati, mele Oporto negli altri periodi dell’anno, a eccezione del giorno di Natale quando sulla tavola comparirà la più antica e aristocratica delle mele, la Calvilla bianca d’inverno, l’unico frutto che “sospende la corsa inarrestabile della stagione in direzione del gelo”.»

Queste, o di tal genere, erano le preoccupazioni dietetiche da me coltivate quando vivevo assieme a mia moglie, con la quale inizialmente avevo stabilito una perfetta intesa sul piano digestivo e gastrointestinale, se non su quello sentimentale o sessuale. Peccato che poi lei si sia presto stancata del mio calvinismo alimentare (niente carni e niente formaggi, solo yogurt alla soia e mele cotte, da buon vegano d’antan); peccato che ora quella sfrontata vada dicendo in giro di essere stata segnata e distrutta dalla nostra breve convivenza, un incubo matrimoniale che le pesa ancora sul groppone più di un macigno. «Essere stata per dodici mesi al fianco di un tipo come te è stato come aver vissuto per dodici interminabili anni in compagnia di un vecchio carpofago rincoglionito!» mi ha rinfacciato l’altro giorno, quando ci siamo incontrati per caso nella farmacia sotto i portici. «Un coglione che mi sgridava se mangiavo di nascosto un gelato!» ha rincarato la dose, quell’ingrata, accusandomi di averla fatta deperire e sfiorire anzitempo per colpa delle mie folli castronerie alimentari. Con il risultato di un progressivo e fatale deperimento organico («una premeditata distruzione psicofisica in salsa vegana!») che io le avrei scientemente e biecamente causato. «Ma lo sapevi anche tu, Bernarda, che da bambino io sono stato rovinato dal clero!» le ho perciò ribattuto, spiegandole di essere stato io stesso vittima e martire di un’educazione cattolica mortalmente sbagliata e criminale. «Te l’ho pur detto, appena ci siamo conosciuti, di essere cresciuto in un istituto per l’infanzia abbandonata dove mangiavo solo pane, patate e mele cotte e mai e poi mai, neanche a Pasqua, un pezzo di carne… Possibile che tu l’abbia dimenticato? Ti ho pur confessato di aver vissuto fino ai vent’anni dalle Ancelle misericordiose della divina clemenza, lo ricordi o no? Le quali misericordiose non lo erano affatto, direi, in quanto non perdevano occasione di ammonirci che il sesso è un peccato mortale e il gelato un lusso talmente eccessivo per noi orfanelli che poteva condurci dritti dritti all’inferno.»

Mettiamo allora in chiaro una cosa, una volta per tutte: checché ne dicessero le suore, all’inferno io ci sono finito non per colpa di un gelato, bensì a causa dell’infanzia. Sì, dei miei primi anni in famiglia, e poi sui banchi di scuola, dove venivo sempre preso in giro da compagni e maestre. Anni d’inferno, anni a dir poco infernali! Popolati da inenarrabili offese e umiliazioni. E da un oscuro rancore che sentivo crescere in me come un fungo velenoso, giorno dopo giorno, nelle mie viscere di mostriciattolo. Tanto che quel fungo, com’era prevedibile, ha poi assunto le sembianze di un’orribile chimera. E questo semplicemente perché, a furia di guardarsi sempre indietro, come ho sempre fatto io, si finisce inevitabilmente per specchiarsi non tanto negli occhi dell’infanzia, bensì negli occhi di quella vecchia baldracca camuffata da bambina che è la morte.

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