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«Contro i figli» è il pamphlet di Lina Meruane pubblicato da La nuova frontiera e tradotto da Francesca Bianchi con cui l’autrice – originaria di Santiago del Cile, che vive e insegna a New York – racconta in sette densi capitoli, in modo diretto ed esplicito, i molti punti di vista sulla maternità, dalle battaglie femministe alle aspettative patriarcali, dal desiderio di essere madre alla scelta di non esserlo, dalle quotidiane ingerenze altrui alle persistenti difficoltà personali e sociali.

In copertina c’è una donna arrabbiata, con i pantaloni a righe, le braccia ferite e un biberon incendiario pronto a essere scagliato. Appunto, contro i figli. Non contro i piccoli esseri umani in quanto tali, a volte anche divertenti, tantomeno contro la vita in generale, ma contro la posizione dittatoriale che i figli arrivano ad assumere all’interno della famiglia e del mondo, ambiti ristretti ed enormi in cui si trovano eccessivamente liberi e viziati, privi di limiti e di imposizioni educative, vicini alla figura del piccolo tiranno. E, prima ancora, contro quello che l’avere figli spesso presuppone: la pressione violenta e invadente della biologia e della società nei confronti della donna che decide (o che non può scegliere) di non averne. La Meruane parte da un semplice assioma: per ogni persona che muore, vengono al mondo altri due nuovi corpi, per cui la spinta a procreare è evidentemente una risposta istintiva alla minaccia di estinzione. In realtà, la questione non si risolve in un rassicurante baratto numerico ma affonda le proprie radici nell’impostazione dei ruoli e nel trattamento degli ex figli, attuali genitori. L’idea della genitorialità viene inculcata fin dall’infanzia nelle bambine, quando si decide pigramente di regalar loro una bambola (anziché, ad esempio, una macchinina): in questo modo è come venisse regalato loro il futuro scontato della maternità. Il passaggio all’età adulta, in tale ottica, è rapido e decisivo. La bambina che ha ricevuto la bambola da piccola, dopo un incerto periodo di pausa in cui si illuderà di essere titolare del proprio potere decisionale, raggiungerà presto quell’età in cui il suo utero e le sue idee o le sue incertezze diventeranno inevitabilmente di dominio pubblico. Una volta raggiunti i 30-35 anni chiunque, dalla madre al conoscente al passante, si sentirà nella posizione di poter pretendere risposte, spiegazioni, giustificazioni dalla giovane donna che non ha figli, la quale, a prescindere dalla motivazione per cui si trova in tale posizione, apparirà a se stessa come una figura rimasta sola sui binari di una stazione, dopo aver perso quel treno che ancora si scorge in lontananza ma che sta correndo via.

La donna-senza-figli-per-qualsiasi-motivo non è tuttavia l’unico soggetto del pamphlet della Meruane che anzi si scaglia principalmente contro le donne che accettano supinamente e danno per scontato il ruolo di quell’angelo del focolare di cui parlava anche Virginia Woolf. In occasione di un discorso tenuto di fronte a un’assemblea di donne professioniste sul tema della situazione del lavoro femminile negli anni 30, la scrittrice confessa di quanto lei stessa fosse turbata dalla rappresentazione stereotipata di sposa e madre presente in ogni ambito della vita sociale, opprimente nella sua stessa casa e soprattutto nella propria testa. Contro tale spettro, contro le aspettative di compiacimento altrui, la Woolf racconta di aver usato gli strumenti della scrittura, di aver ucciso il fantasma a colpi di inchiostro per legittima difesa, lotta che le è costata la consapevolezza di quanto sia “molto più difficile uccidere un fantasma che una realtà”. E contro lo stesso spirito diffuso da secoli nell’immaginario maschile e femminile che impedisce alle donne la realizzazione in quanto essere umano e le distrae da tale autonomia confondendole con le decantate virtù della modestia e del sacrificio e rimettendole al posto deciso per loro da altri: contro di esso molte donne hanno sempre combattuto.

“Tutte le rivoluzioni libertarie, di qualunque segno fossero, hanno risvegliato nelle donne la coscienza della loro misera condizione. Le donne hanno sempre fatto proprio l’urlo libertario, si sono riversate nelle piazze e nei campi di battaglia per lottare in nome della signora Uguaglianza e per loro stesse. Eppure, il fatto che restassero a fianco degli uomini offrendo anima e corpo sulla linea del fuoco non è bastato a fargli ottenere nessun diritto. In tutto il mondo e in tutte le epoche, con impressionante simmetria, una volta finiti gli scontri le donne venivano rimandate a casa senza che avessero conquistato alcun tipo di libertà. Il sempiterno richiamo ai ruoli inoffensivi imposti dalle convenzioni si è sempre servito della retorica della maternità. La procreazione per compensare le perdite.”

Con toni sarcastici e ben scanditi, l’autrice se la prende poi con le super-madri o madri-totali che – in un mondo in cui lo Stato non riconosce importanza a tale ruolo né offre alcun supporto allo sviluppo della famiglia e in una realtà in cui capita che i padri siano assenti o astutamente incapaci, a loro volta viziati – credono in se stesse in modo eccessivo e dannoso, mirano alla perfezione in ogni campo, non si fidano di nessuno e rischiano di finire con il consumarsi da sole e con l’alienarsi. Lina Meruane cita tantissime donne, soprattutto nella parte che dedica alle triplici difficoltà delle madri professioniste o artiste per le quali la stanza tutta per sé si trasforma nello spazio aperto e forzatamente condiviso con quei figli che per definizione non hanno consapevolezza né spaziale né temporale del concetto di limite. Tra le artiste, scrittrici in particolare, “ci furono donne di tutti i tipi, tranne quelle che morivano dalla voglia di diventare madri”. Ci furono Emily Dickinson e Jane Austen e Emily Bronte che si dedicarono solo alla scrittura; Marguerite Yourcenar e Gertrude Stein che amarono altre donne; ci fu Anaïs Nin che scelse di non volere il figlio di Henry Miller; e le italiane Elsa Morante e Oriana Fallaci che per ostacoli taciuti o raccontati non diventarono mai madri. Così come ci furono e ci sono molte madri-artiste con altrettanti casi di conflitto interiore ed esterno che il binomio maternità e scrittura comporta.

La Fallaci raccontò la propria esperienza nella Lettera a un bambino mai nato in cui si rivolgeva proprio alla minuscola particella dentro di sé per svelarle i propri dubbi del suo ruolo di madre, sulla giustizia e sul diritto di mettere al mondo qualcun altro, sull’ostilità incontrata al di fuori del loro nucleo: la disponibilità dell’altro genitore a pagare le spese per l’aborto, le domande irrispettose e invadenti dei medici sulla sua condizione di donna (volutamente) non sposata, la mancata comprensione delle amiche sposate-con-figli.

L’autrice ricorda poi le parole della giornalista argentina Leila Guerriero, focalizzate non tanto e non solo sulla propria scelta di non aver voluto avere figli, ma sullo stupore che apprendere questa scelta comporta negli altri. Alcune la rassicurano, prima o poi ne avrà voglia; altri si insospettiscono che non dica la verità, che non possa averne; altri ancora sembravano infastiditi, perché non si può andare contro l’istinto materno. Lei semplicemente non li vuole, non li ha mai desiderati, non ci pensa, non ne ha l’obbligo.

Meruane ci ricorda che la donna non è una marmorea figura unitaria. Le donne sono plurali. Vogliono figli, non li vogliono, li vorrebbero, preferiscono non averne, dedicarsi alla propria arte, non possono permetterseli, vogliono essere libere di non dover rispondere, attendono la persona che hanno in mente. Questo pamphlet non è contro di loro, è per ricordare loro che possono e devono.

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