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«Animali non addomesticabili», edito da Exòrma e scritto a sei mani da Giacomo Sartori, Paolo Morelli e Marino Magliani, con appunti in coda di Paolo Albani ha le sembianze di uno strano bestiario. È infatti abitudine consolidata guardare gli animali attraverso un’ottica estremamente umana. Ogni giorno milioni di video con protagoniste adorabili bestiole spopolano sui social network e persino sulle principali testate giornalistiche online. In una moderna versione circense, l’animale è ancora una volta puro spettacolo. Diventa mascotte, cartone animato, è acquistato negli allevamenti o, se si desidera una particolare specie esotica, tramite mercati illegali. Privato della sua individualità, della sua bestialità, sottomesso al desiderio egoistico dell’Uomo, è tramutato in un oggetto, qualcosa di bello da possedere e ostentare. Gli vengono inoltre affibbiati emozioni e desideri umani, una vera e propria umanizzazione della bestia che culmina in gesti grotteschi come comprare la torta per il compleanno del proprio siamese, o dare la laurea ad honorem a un labrador. In una realtà così costruita l’animale non ha una voce né una volontà. Leggendo invece questa raccolta è impossibile non udire forte e chiaro una miriade di voci, mormorii, sussurri, anche urla, tutti provenienti dall’io animale. Ed è l’io animale il centro di questo libro, un io che rivela la sua psicologia bestiale unita a considerazioni di carattere esistenziale.

Le prime due parti scritte rispettivamente da Sartori e Morelli sono costituite da tanti piccoli racconti di vita in prima persona, trentasei diverse vignette in cui i toni oscillano dal brillante al comico, arrivando talvolta a sfiorare il macchiettistico, anche se non mancano sottili vibrazioni drammatiche nascoste. La terza e ultima parte è composta dalle due lunghe narrazioni di Magliani, caratterizzate da una lingua asciutta ed elegante e da un registro alto, quasi lirico.

Gli animali fuori campo di Sartori, seppure profondamente connessi alla loro natura e al loro habitat, pensano e si esprimono in maniera spiccatamente umana. Si possono trovare un comunissimo bruco ma anche un’ameba che fa i conti con il suo «nucleo pesante come un pallone» che le duole dall’interno e la porta a uno stato di disperata angoscia, alla consapevolezza della caducità dell’esistenza che si traduce in una autentica paura di oblio, di morte. Sembra poi di guardare attraverso la lente di ingrandimento grazie a una eposilla che narra la storia della sua vita dai tempi della giovinezza spensierata e romantica tra i fiori, immersa nella natura, una giovinezza durata «tre interminabili e strazianti tramonti» e interrotta dal brusco intervento umano che capovolge in maniera apocalittica la realtà di un intero ecosistema. L’umano è così che viene rappresentato, un ridicolo invasore o uno sbadato carceriere. Come nel caso del dromedario che subisce la violenza di turisti chiassosi e sente la mancanza dei giorni in cui attraversava con le carovane il deserto silenzioso, o del polipo che continua a raccontare ai nipoti la storia della sua rocambolesca e miracolosa fuga da una pentola già messa a bollire per cuocerlo, fino allo stoicismo di un canarino chiuso dentro una gabbia che dichiara di sentirsi felice e persino rassicurato dalla cattività, nonostante sia abbandonato da umani insofferenti che non si occupano di lui, lasciandolo nella sporcizia e affamato.

L’esperimento di Morelli con i suoi animali parlanti è tutto linguistico. Gli animali esprimono i loro pensieri e bisogni istintivi tramite l’idioma più istintivo di tutti, il dialetto, funzionale a rilevare l’importanza del legame con il territorio e le caratteristiche intrinseche della specie di appartenenza. Per esempio il coro di felidi plebei rende chiaro come i gatti se la godano così come sono ora, addomesticati e inutili alla caccia, per niente scontenti di non vivere in natura e pazienza se non sono maestosi come una tigre né temuti come gli altri felini selvatici poiché «rre e rreggine, padroni e schiavi so’ ttutti attori, ma noi sortanto se li stamo a smiccià». Al contrario il vecchio lupo sannita elogia i tempi in cui la sua razza incuteva spavento, i tempi del lupo cattivo, del lupo di Gubbio ormai estinto, elogia la guerra che è «un fenommeno preumano, un gennio sornionne che zompa fora da le buca de la Storria pe’ fenì a salfà a chi cià feramente de bisonio», mentre ora i giovani lupi sono rammolliti e di questo passo si arriverà al punto che «ce meterano li cappotini pe l’inferno come a li cagnolini da saloto». Di spirito più pacifico è la vongola napoletana in quella che somiglia a una danza immaginata tra lei e delle figure sconosciute e misteriose che spesso sente associate al suo nome, gli spaghetti, e indignata vorrebbe «che se me li presentassero chist’ signure spaghetti non farei certo complimenti, certo non mi farei pregare per un’amicizia, e anche qualcosa di più se la fortuna vuole, e invece non saccio manco chi so’». Più cauta e consapevole è Maria, la sogliola trapanese: sa benissimo che finirà cucinata e chiede alla massaia di provare delle ricette alternative, proponendone alcune lei stessa senza successo. Riunire diversi codici vernacolari d’Italia mettendoli in bocca a degli animali è un’impresa ardua e interessante in cui però viene trascurata l’autenticità dei dialetti in sé ed è invece privilegiato ciò che l’animale vuol dire, anche se questo significa inserire elementi linguistici estranei a un determinato idioma.

Altro tono e altri episodi quelli di Magliani, racchiusi nel capitolo Il cane e il figlio del cane, suddiviso in due parti, Il cane e il mare e Il figlio del cane e le colline. Due generazioni di cani, padre e figlio, affrontano la vita per strada, il peso dei ricordi e la tensione continua dei loro istinti. Per la prima volta nel libro il narratore è esterno, come a volere collocare la storia del cane Cobre entro i limiti fumosi e lontani del mito, trasformando l’esperienza canina in narrazione rapsodica. Torna poi a parlare in prima persona il figlio di Cobre che infatti si riferisce al padre (mai conosciuto) in termini quasi epici: «Di mio padre so giusto cos’hanno scritto, che era un bastardo e si chiamava Cobre e il giorno stesso in cui il padrone l’ha portato a perdere nell’entroterra, ha iniziato a cercarlo, poi ha visto il mare e s’è messo in testa di attraversarlo. Tutto lì, io sono nato da quel tentativo romantico lì».

Cobre viene abbandonato dal padrone. Nel disperato e istintivo tentativo di tornare da lui, viaggia camminando fino a sfinirsi, soffre la fame e la sete, fa incontri per lo più violenti e viene in contatto con un poeta. Ma è l’incontro con il mare che cambia la sorte del cane, un incontro decisivo e fulminante. «Aspettò a occhi chiusi che la brezza si togliesse la maschera e com’era successo altre volte portasse le novità (…) e quando sentì che aveva portato il mare, aprì gli occhi sulle cime degli alberi. Lentamente la brezza sparse il mare sulle pietre dei muri e sulle cortecce degli alberi. Non erano le figure marine, quell’estensione orizzontale e scintillante, prateria di diamanti, ma il mare sconosciuto, l’onda dimenticata da troppo tempo».

Cobre sostituisce il pensiero del padrone con un altro, in lui si manifesta un bisogno reso invincibile dai sensi: attraversare la massa marina, quella che ai suoi occhi assume le sembianze di una «collina tagliata» e che trasforma il vagare del cane in una corsa epica verso la bellezza e la libertà che termina con un finale drammatico e inevitabile, un finale comune a tanti altri suoi simili. Il figlio che Cobre non conosce, nato da un accoppiamento con una cagna indifferente tra gli scogli, cresce randagio e senza nome. L’istinto a cacciare che scopre di avere risale a chissà quale antenato, «pare che il talento provenga da un vecchio Breton, un antenato vissuto nella nebbia occitana», è un carattere rimasto sopito da generazioni e infine emerso in quel cane bastardo di strada. Ma quell’istinto lo condanna a una esistenza di schiavitù quando un uomo decide di prenderlo con sé soltanto per sfruttare la sua capacità nella caccia. «Il cacciatore mi ha tenuto. Sarei scappato via se non mi avesse premuto lo scarpone sul collo». Con mezzi violenti viene addestratato e piegato. È ancora la collina tagliata che aveva ossessionato il padre che torna alla fine nella mente del figlio costretto in cattività. La storia comincia con Cobre abbandonato da un padrone e termina con il figlio di Cobre preso da un altro padrone e rinchiuso in un recinto. In entrambi i casi emerge da una parte la tendenza innata nell’uomo a sottomettere e prevaricare, dall’altra la continua tensione animale alla libertà, ad annusare gli odori del mondo, a farsi guidare dai sensi che governano la volontà.

Nelle storie di Magliani l’unico in grado di instaurare un dialogo con i due cani è il poeta. È la sola figura capace di attraversare la distanza tra le due specie senza atti violenti e con il mero utilizzo della parola.

La parola è quindi ancora protagonista, dialettale, non dialettale o anche solo tradotta nel pensiero animalesco, restituisce la dignità svilita. Tramite la parola ogni singolo animale di questa raccolta espone la propria prospettiva, dal più piccolo organismo fino al più grande, ognuno di loro riesce a esprimere la varietà di emozioni che li attraversa nelle esperienze della quotidianità, emozioni che si uniscono a necessità e bisogni precisi. In questo modo il lettore è stimolato all’empatia, non sono più oggetti da possedere o domare, ma esseri viventi autonomi e con una precisa individualità. Gli «Animali non addomesticabili» non sono come quelli delle favole, non esaltano vizi e virtù umane e non raccontano una morale, non spingono a migliorarsi. Ma offrono la possibilità di riconsiderare il punto di vista con cui vediamo il mondo, e osservando la realtà attraverso il loro sguardo potremmo cercare di assimilare il loro stoicismo e la loro primordiale prospettiva.

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