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1

Quando emergeva dalle profondità lunari dei garage strizzava gli occhi e guardava in alto. Sopra di lui il profilo dei palazzi si protendeva distante, delineando i confini del cielo. Le occhiaie di Marc Facinorosi, in quei momenti erano solchi. 

Nello spazio vuoto dei garage Marc Facinorosi si spogliava. Ripiegava i pantaloncini e li distendeva sullo schienale di plastica bianca, poi appoggiava la maglietta sui calzoncini e si toglieva i sandali e restava con addosso le sole mutande. Quindi afferrava i barattoli con le vernici e le mescolava nei recipienti di metallo. Quando aveva bisogno di acqua andava con un secchio a prenderla dal rubinetto che era all’esterno, accanto alla saracinesca. Ma il fragore del metallo che si svolgeva e avvolgeva lo portava, però, a rinunciare, il più delle volte. Terribile il rumore della grandezza, diceva.

Nessuno era mai entrato nei garage. Questo il ragazzo lo sapeva bene. Nessuno gli aveva mai chiesto di poterlo accompagnare. Nemmeno sua madre. Ma a lei, Facinorosi scriveva delle lettere. Le raccontava dei suoi progetti. Delle meraviglie che si amalgamavano con il sudore e con le vernici. I dipinti dei garage. Aveva già pensato al titolo della sua prima personale. Lo faceva sempre. Era il primo pensiero del mattino. Al risveglio il suo giaciglio era una mistura acida di sudore e incubi. Negli incubi non c’erano suoni, ma soltanto vibrazioni. Erano quelle che aveva sentito la prima volta che era sceso nei garage. E venivano da sopra. Quanto fosse distante il punto in cui si erano generate non avrebbe saputo dirlo. Ma le sue mani si erano lasciate guidare. La mistura di colore gli era colata lungo le braccia, fino alle ultime falangi delle dita. Sui piedi incatenati al suolo. Incatenati come i palazzi. Le sue gambe, rivestite da una tela biancastra, sorreggevano un busto scheletrico, una testa ricoperta di capelli neri crespi. Sulla coscia destra qualcuno, tempo addietro, gli aveva tatuato il profilo disseccato di un angelo. Era una creatura delle dimensioni di un bambino di qualche anno, ma il volto era quello di un vecchio. Era solcato da rughe profonde, linee nere che davano a quel viso la profondità del tempo. Il cranio era glabro, le orecchie piccole, rinsecchite.

Adesso, sotto lo scroscio d’acqua nella doccia, il corpo di Marc Facinorosi è scosso dai sussulti. Il ragazzo sente la fitta dolorosa al basso ventre, il membro farsi dolore e vibrazione. La vernice gli scorre addosso in spire confuse che hanno il tono del nero e del grigio sporco. 

Quando i sussulti terminano esce dalla doccia. Il seme colorato è finito nello scarico. Lungo le condutture che scendono nelle profondità dei Palazzi. Pareti sottili come unghie. Tapparelle bucherellate. Facinorosi si strofina con un panno ruvido. Indossa i calzoncini, la maglietta bianca, i sandali. Esce sul balconcino e vede i viali con gli alberi rachitici, i marciapiedi infestati dalle erbacce. Più lontano, i caseggiati già in penombra, le intelaiature di metallo corrose. Poi Facinorosi si volta, cammina in direzione della porta, prende lo skateboard ed esce di casa. 

Per le scale risuona il motivo di Haydn. 

Facinorosi si mette ad osservare le porte chiuse. La musica potrebbe provenire da una qualsiasi di quelle arnie sigillate. I muri sottili che separano un appartamento dall’altro portano i rumori a incanalarsi nella struttura dei Palazzi secondo logiche imprevedibili. Gli è capitato, qualche volta, di accorgersi di come i suoni percorressero traiettorie diagonali che potevano condurre urla, litigi e amplessi verso il basso senza sfiorare nemmeno gli appartamenti confinanti. 

Ma quel motivo di Haydn, nei Palazzi, non l’ha mai sentito. 

E allora scende, si mette quasi a correre per le scale, e piomba nella luce serale e solleva lo sguardo verso l’alto e ciò che vede è una Madonna smagrita che se ne sta sul balcone a fissare il vuoto.

2

Sente lo stridio dei gabbiani. Il loro vociare rauco annuncia lo strabordìo dell’immondizia sui marciapiedi lungo le strade che tagliano il terreno dei Palazzi. Percorre la strada numero 1 in direzione dei Ripiani. La zona dei Ripiani è dove incontra sua madre. Bianca è il suo nome. 

Facinorosi ha sempre pensato che la sua arte fosse sgorgata da lei, dalla sua carne fecondata. Bianca, quel nome lieve, che lo riconduce all’origine, al taglio di una roccia vergine, alla scalfittura su una tazza di ceramica. Adesso Facinorosi attraversa lo slargo deserto su cui vigila il semaforo lampeggiante. 

La Madonna ascolta Haydn. Sinfonia numero 45. Lo dirà a sua madre. Si metterà seduto sulla panchina accanto a lei e prenderà la bottiglia dall’involto di carta. Le verserà nel bicchierino di plastica la dose di due dita di whisky e le dirà del riconoscimento. La Madonna anoressica che ascolta Haydn. La sinfonia degli addii. 

I gabbiani spiegano il loro richiamo alato nel blu cobalto. Traiettorie circolari, prospettive di percorsi atavici e reiterati. Facinorosi è l’uomo che mangia il panino nel chiosco della strada 2. L’uomo del chiosco lo riconosce da lontano, vede il volto del ragazzo leggermente inclinato verso l’alto, mentre cammina, la contemplazione silenziosa di quegli occhi puntati al cielo, alle facciate grigie, alle antenne arrugginite che soverchiano i tetti. L’uomo sa che Facinorosi dipinge. Lo ha capito dalle tracce di vernice che gli rinviene addosso, talvolta, mentre lo osserva mangiare seduto sulla panca di legno dello spiazzo, nel rumore incessante del generatore che copre ogni altro suono. I suoi pantaloncini corti, le gambe magre, la maglietta bianca, i colori. Un corpo di vernice, un odore di vernice, un camaleonte dagli occhi prominenti. 

Facinorosi chiede dell’acqua. Una goccia gli rimane in bilico sul mento. Facinorosi immagina che da qualche parte, oltre l’atmosfera e negli spazi tra le galassie, una stella disintegrata indugi al margine di un buco nero. Osserva insieme all’uomo i gabbiani che mangiano sul letto di angurie scavate, e ossa spolpate e pane raffermo. Il generatore si arresta e poi riprende a funzionare. L’uomo si chiama Martinez e ha gli occhi porcini. Facinorosi gli consegna una banconota macchiata di impronte colorate sul bancone e riparte. Martinez lo osserva stringendo il biglietto tra le dita, continuando a spiegarlo, a saggiarne la consistenza, rintracciando le linee in rilievo che ne garantiscono l’autenticità. È un’abitudine, quella, ma l’uomo non ha alcun dubbio che Facinorosi si guadagni da vivere con i quadri e con l’arte. Ma di quel ragazzo, Facinorosi, gli ha parlato Tavor. Si siede spesso con lui, a tarda sera, e insieme osservano le auto sfrecciare lungo i viali dei Palazzi. Tavor il Biondo si liscia i capelli con la mano destra. Anelli di acciaio gli ricoprono le falangi. Porta sempre un orologio da taschino, e tutte le sere si siede con Martinez e si mette a ricaricarlo. E parlano. Di quel ragazzo che adesso, in lontananza, con lo skateboard in spalla, svolta dietro l’angolo, che dipinge i fantasmi e le lucciole, nei garage.  

Il generatore rallenta, le luci si affievoliscono, l’uomo corre ad armeggiare con una valvola e il cinghiale a benzina gorgoglia e tutto ritorna in linea con la realtà. Palazzi dei pazzi, pensa Martinez prima di prendere una birra dal frigo. Quindi si avvicina alla piastra elettrica e la accende. Riempie un pentolino con dell’acqua e vi getta dentro quattro uova con il guscio. Appoggia il recipiente sul metallo incandescente e aspetta.

3

Facinorosi avverte quel rumore, dietro di sé. L’incertezza degli animali spauriti. Crede di aver visto, giorni addietro, un cervo percorrere un sentiero del parco della Memoria. Ha pensato a lui nella profondità del garage. Quando ha sentito le vibrazioni scuotere la struttura del Palazzo. Le colonne portanti scricchiolare.  L’intonaco gli è piovuto sui capelli. Ha dipinto le corna del cervo. Gli ha donato occhi di madreperla. Ha sentito scuotere delle casse da imballaggio, all’esterno del garage. 

Qualcuno ha caricato le casse nel ripiano di un furgone e ha chiuso i portelli, ripartendo sgommando.

Quindi Facinorosi ha spruzzato del sangue sul corpo del cervo, ma non ne è stato soddisfatto. Allora ha tolto la pistola dall’erogatore e ha bevuto inclinandolo. Ha sputato il sangue contro la sagoma incatenata alla tela. Ha visto gli occhi del cervo, nella penombra del garage, farsi incandescenti. Ha pensato a sua madre Bianca. 

Ora lei lo attenderà. Se ne starà seduta sulla panchina e fumerà una sigaretta. Avrà le calze nere, i capelli striati di grigio. Occhi infossati tra rughe sottili. Facinorosi ha sviluppato, osservando la luce digradare lungo i viali tra i Palazzi, la teoria secondo cui le immagini che vediamo sono sempre le stesse. Sappiamo di essere in un luogo perché sono le coordinate spaziali a definire in quel momento la nostra posizione sul tappeto del globo terracqueo. Ma quello che vediamo è sempre il riflesso di un’altra immagine. Che non è mai autentica, ma solo un’eco che viene dal passato o da un altrove imprecisato. La stessa immagine che possiamo credere di vedere è percepita a milioni di chilometri di distanza da altri sembianti umani come noi, o dalle scimmie. Antropomorfe o meno. 

Facinorosi sorriderà, poi si siederà e si metterà ad ascoltare la voce di sua madre. 

Tu sei nato di domenica. Tuo padre è morto di domenica. Cosa celebriamo ogni domenica. Nulla. Solo un rimescolio di ombra e speranza infranta. Infranta è una parola che già contiene in sé ogni genere di immagine. Ascoltane il suono, Marc. Assapora la sequenza delle lettere. La secchezza della morte nella sillaba finale. Apri la bocca e nel momento di massima apertura le labbra tornano a socchiudersi e la lingua si congiunge ai denti. Così impietosa. Così definitiva. La lingua batte dove il dente duole. Ma anche nelle giunture, oltre i confini del tempo e della speranza. La lingua perpetua ogni attimo. Anche il più distante. Sai che una volta andammo a vedere un castello, in un paese di montagna di cui non ricordo il nome. 

Facinorosi verserà il whisky in due bicchieri di plastica. Bianca parlerà. La luce che digraderà placida lungo i Ripiani e verso il mare. Dalla panchina non sarà possibile percepire alcun rumore di onde e risacca e schiuma. Solo il suono di un treno, di tanto in tanto, che sbucherà dalla galleria e lancerà il suo richiamo alle creature abbarbicate alle ringhiere dei Palazzi. 

Nel castello c’eravamo soltanto noi. Ma tuo padre, quel giorno, mi aveva chiesto di andare al mare. Io mi ero opposta. L’avevo fatto per lui, credo. Avrebbe visto il mare per l’ultima volta e questo – beve un sorso di whisky e inverte la posizione delle gambe accavallando la sinistra sulla destra – non volevo che accadesse. 

Facinorosi noterà che sulla scarpa nera, proprio in punta, c’è un grumo di una sostanza giallastra che non saprebbe riconoscere. Qualcosa di secco che tuttavia conserva una seppur flebile traccia di umidità. Farà per toccarlo, piegandosi in avanti, e Bianca cambierà di nuovo la disposizione delle gambe. Facinorosi le domanderà se non ha caldo, ma lo farà senza proferire parola, solo muovendo le mani e sventolando un fazzoletto macchiato di viola e di blu. 

Camminammo per le sale guardando le armature, i resti delle spade e delle lance. Utensili di ferro e rame che appartenevano a epoche diverse e che avevano ammucchiato nelle teche senza un ordine. Fissammo dei dipinti sconosciuti di pittori polverizzati, ritratti di dame e cavalieri che per tutto il tempo non fanno che starsene di tre quarti a fissare la tappezzeria sbiadita di divani intarsiati. 

Marc, la domenica – dice e prende un altro sorso dal bicchiere lasciandone ondeggiare ancora un po’ sul fondo – è quando i ricordi vengono a galla come i cadaveri. Sono ricordi colmi di gas fino a scoppiare. Che naufragano su sponde sconosciute dove nessuno se ne farà niente. Ce ne tornammo a casa senza dire niente. Io guidai e tuo padre se ne stette, rigido, sul sedile di fianco a osservare tutta la strada che avevamo percorso all’andata, in senso inverso, fino a casa. 

Facinorosi compie a ritroso il tragitto che ha percorso per andare da sua madre. Si incontrano tutte le domeniche. Lei prende il treno. Facinorosi ha visto che si siede sempre nel posto singolo all’inizio del corridoio, nel piano inferiore del vagone. Dal sedile alla porta saranno quattro o cinque passi. Ha dipinto il volto di sua madre dietro al vetro. È rimasto a fissarla per un tempo interminabile durante il quale lei non si è mai voltata verso la banchina. Si è mantenuto al riparo di un pilone. Ha visto le isole annerite sul soffitto della stazione, lungo i binari. Ha pensato al momento in cui quelle chiazze potranno scomparire, disgregandosi sui viaggiatori. Ha evocato quelle ombre intorno agli occhi crepati di Bianca. 

L’ha salutata, prima, con un gesto della mano, da lontano. Intorno a lui i gabbiani volteggiavano con uno stridio incessante. Lo osservano, ora, dall’alto dei cornicioni. Dai cumuli di immondizia. I topi sgattaiolano dietro i cassonetti, zampe frenetiche davanti alle sue scarpe da ginnastica. 

Si ferma per un momento al centro del marciapiede. Svita il tappo della bottiglia e inghiotte l’ultimo sorso guardando il cielo nascosto dai lampioni. Quindi getta la bottiglia lontano e i gabbiani spiccano il volo e lo pedinano dall’alto, fino a casa. 

4

Il chiosco è illuminato. L’aria vibra scossa dai suoni gutturali del generatore. Facinorosi devia lo skateboard verso la strada e salta giù dal marciapiede. Luci arancioni e buio si susseguono a intervalli regolari. Fiamme e aberrazione, sussurra Facinorosi evitando i fogli di giornale sospinti dal vento. Una baracca di lamiera è sprofondata tra le sterpaglie. Poco lontano, da due tubi di cemento cola un rivolo d’acqua che crea nell’erba, allargandosi, un ricovero per sciami di zanzare e di tafani. Facinorosi compie l’ultimo tratto di strada e raccoglie lo skate con un movimento armonico. Ha una mano artigliata alla tavola mentre con l’altra si ravviva i capelli sottolineando la scriminatura al centro. Ha gli occhi spalancati, il capo inclinato. Senza parlare si siede sulla panca. Martinez porta le uova al tavolo, già sgusciate. Si siede dirimpetto al ragazzo, ma leggermente discosto. Facinorosi fissa in diagonale la facciata del Palazzo 1. 

Il ragazzo dipinge anche con le mani, a volte. Martinez nota le tracce di colore sotto le unghie, per la prima volta. La pelle macchiata. Pensa ai funghi che crescono nel Parco. 

Sei mai stato in un castello, gli chiede Facinorosi. 

Martinez non ne ha mai visto uno. Pensa che la cosa più rassomigliante a un castello che lui conosca sia il carcere. Le torri di guardia, gli uomini sul tetto, i cancelli sbarrati, le grate. 

Scuote la testa, ma il ragazzo non può vederlo perché fissa il Palazzo. 

Ricordi e decomposizione, ecco tutto quello che puoi vedere in un castello. 

Martinez addenta l’uovo. 

Il ragazzo ha già finito uno dei suoi e sta raccogliendo i frammenti di tuorlo che sono caduti sul tavolo. Li schiaccia con il polpastrello e poi li osserva. 

Martinez pensa che Facinorosi mescolerà il tuorlo ai colori e sventaglierà il colore nell’aria intrisa del puzzo d’immondizia marcia.

Era stato Tavor, soffiandosi il naso con due dita e sprizzando un muco denso e appiccicoso nell’erba al limitare dello spiazzo, a dirgli che il ragazzo comprava il sangue nella macelleria di sua moglie. Sangue vero di animali veri, perdio, aveva detto. Che cazzo ci fai qui, ai Palazzi.

Facinorosi distoglie gli occhi dall’orizzonte chiuso degli edifici.  

Mastica l’uovo e sostiene lo sguardo di Martinez. L’uomo ha il pacchetto di sigarette nel taschino della camicia e la stoffa gli pende in avanti scoprendo parte del collo e del torace. Facinorosi punta il dito verso Martinez, poi si alza e con un colpo secco spiaccica una zanzara sul collo dell’uomo. 

La luce qui è talmente aberrante, dice, e si allontana a bordo dello skateboard in direzione del numero 1.

Quando Martinez si alza per smontare la panca e il tavolo, il ragazzo è già scomparso inghiottito dal buio del Palazzo.

5

Per scendere nel garage Facinorosi deve superare il portone d’ingresso e proseguire per qualche metro fino al limitare del Palazzo 1. Svoltare dopo l’angolo e scendere giù per la rampa, quindi svoltare di nuovo e calpestare le mollette precipitate dall’alto, i vasi spaccati, le grate di scolo con i grumi di foglie. Arrivato alla terza porta Facinorosi tira fuori la chiave e apre la serratura inginocchiandosi. Da qualche tempo il ginocchio destro gli fa male, ogni volta che si china per sbloccare la saracinesca e sollevarla. Il suo garage è cupo di visioni e incubi dettagliati. Nella zona più in ombra ha sistemato una tela lunga tre metri. Ha rivisto la Madonna anoressica. È convinto che lei lo abbia salutato. La tela che sta dipingendo è lunga tre metri. La dipinge nel buio. Ci sono secchi sparsi dappertutto, c’è odore di solventi, e di vernici, e taniche di sangue rappreso. Sangue di conigli e maiali e agnelli. Facinorosi indossa i guanti. Si toglie i calzoncini e la maglietta. La Madonna anoressica era seduta sul balconcino e lui crede di averla vista distendere il braccio scheletrico nel vuoto. Il vuoto abissale deve averla  spaventata come un cane rabbioso perché subito dopo ha ritratto il braccio riportandolo sulla ringhiera. Facinorosi è in mutande, adesso. Chiede il nome alle cose che ha intorno. Prende l’azzurro, e il grigio e le cose gli si materializzano davanti. La tela è sporca, grinzosa. Fiocchi di immagini gli scorrono davanti. Gli colpiscono i capelli, le costole digrignate, i denti. Gli occhi pulsano come polmoni, nel buio. 

Sente sulle mani il corpo fatuo della Madonna. Lo plasma inalando la chimica. Visioni. Ombre di oggetti senza nome. Lo schiocco della pittura sulla superficie tesa. Sente le vibrazioni percuotere le fondamenta. Geme. Ha paura. Gli occhi si socchiudono. Colori gli colano addosso. Miscela il sudore con le braccia e il rosso. Svita il tappo di una tanica. Rigetta tra i piedi, accanto al pilastro di cui intravede l’armatura rugginosa. Carica la pistola. Chiede il nome alle cose che ha intorno. Calpesta il vomito bilioso e scivola. La pistola emette un getto di un rosso rubino, nel buio. Nella composizione di Haydn c’erano colori tenui, sottili petali color lilla, rane gracchianti, bimbe dagli occhi baluginanti. 

Quindi traccia sulla tela intuita una stria di argento, la raccoglie in un guscio ricoperto di spirali, e intorno pone l’orma delle sue mani.

C’è, nell’odore di cui è foderato, adesso, tutto l’umore che scola dalla ragazza anoressica. C’è la torba di cui è fatta sua madre, persa nella casa in collina, il miscuglio di suo padre. Di cosa sono fatti gli odori, dice ai pilastri crepati. Le intelaiature scoperte ghignano, adesso. Chiede il nome alle cose che ha intorno. Visioni. Tre ragazzi che prendono il sole, sui tetti incatramati. Tempo ingoiato dal gorgo. La luce aberrante dei Palazzi rischiarata dall’ombra di uno scheletro. La Madonna anoressica pregherà per lui. Il suo corpo è scosso dai sussulti, mentre se ne sta in piedi, nudo, accanto alla tela. Cerca dell’acqua. Beve. L’acqua è infiammata e ha il sapore di metallo. Getta la bottiglia nel buio, al di sotto della tela anoressica. Sa che quando tornerà potrebbe non trovarla. Facinorosi pensa che potrebbe far saltare il Palazzo in aria. Potrebbe minarlo e farlo detonare mentre entra ed esce dal cerchio d’ossa della Madonna anoressica. Si avvicina alle luci che contornano la saracinesca. Getta uno sguardo fugace all’angolo dipinto. Potrebbe dare fuoco a tutti loro, se soltanto lo volesse.  

6

Quando emerge dalle profondità lunari del garage strizza gli occhi e guarda in alto. L’alba si disintegra sulle finestre. L’alba perpetua che lo riporta nell’appartamento. I Palazzi sono incatenati al suolo, per sempre. Sui garage in cui le ombre prendono vita. Le ombre che prendono le sembianze delle donne. Di sua madre che se ne sta asserragliata dietro il muro di pietra, oltre il cancello in ferro battuto, e che viene a perpetuare un ricordo prima che sbiadisca per sempre. Impasta ogni parola miscelandola con lo sguardo di lei.  Lui, Facinorosi, ha la stessa consistenza di un fantasma, lì ai Palazzi. 

L’acqua che gli cola addosso esce in un getto frammentato. Ogni frammento acquista peso e sostanza traendoli dal suo corpo. L’acqua è un rosario di gocce d’argento scolpite nella luce che piomba sulle finestre laterali del bagno. Ha letto un’eco all’Oceano, Facinorosi.

L’ha letta da qualche parte ma adesso non ricorda. Qualcosa che aveva a che fare con il freddo e l’implacabilità delle acque vaste. Guarda i suoi piedi, distesi sul piatto doccia. I suoi occhi si staccano e precipitano nello scarico. Si infilano a precipizio nelle tubature oscure. Nei condotti di ferro in cui annegano i capelli e le unghie di tutti. Sibilano nello scarico della Madonna anoressica, la sfiorano a velocità terribile, ma colgono il suo profilo affusolato. Il ventre infossato, la pelle raggrinzita, i noccioli delle ossa. Gli occhi si mescolano ai grani di cristallo e ambra. Prega.

Esce dalla doccia inzuppando l’asciugamano che ha steso sul pavimento. 

Vede l’angelo disegnato sulla coscia. Ha una pergamena di pelle che gli ricopre il volto. 

A Facinorosi vengono in mente i tramonti sul mare adesso che la luce dilaga sui Palazzi. 

Gli attimi inarrestabili in cui il sole si inabissa oltre l’orizzonte. La sfumatura che avvolge ogni cosa, le case le strade i volti delle persone sedute sui sassi, un attimo dopo che il sole è sparito. Il momento in cui le cose acquistano il loro nome, finalmente, mentre scivolano nell’indistinto della notte. 

Osserva la luce, adesso, scomposta dai vetri smerigliati. Frammenti che brillano se solo cambia l’angolazione del suo sguardo. Quando si piega sulle ginocchia, facendole scricchiolare, Facinorosi assomiglia a suo padre. 

Facinorosi scrive lettere a sua madre. Lettere in cui le racconta dei sogni. 

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↔ In alto: Foto di Amaury Salas su Unsplash.

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