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Adeguandosi agli stilemi del fantasy, Leopardo nero, lupo rosso sviluppa la sua trama a partire da una missione o, per usare un termine che si porta dietro una lunga serie di rimandi non-solo-letterari, una quest. A differenza di quanto ci si aspetterebbe, però, l’incipit del romanzo ci avverte che l’impresa è fallita: il bambino – che in questo caso è l’oggetto della ricerca ma anche un predestinato e soprattutto un simbolo di ciò che dovrebbe essere puro e innocente e incorruttibile – è morto, e non resta altro da sapere; il contenuto è spiazzante, la forma è lapidaria e il portatore del messaggio sembra volerci dissuadere dall’ascoltare la sua storia. Basta la prima frase di Leopardo nero, lupo rosso per capire di avere a che fare con qualcosa di diverso da un fantasy, o meglio con una nuova declinazione di un genere che sembrava aver esaurito le proprie possibilità da sessant’anni, e che invece può ancora dire tanto e, come dimostra questo romanzo, può ancora essere letteratura.

L’autore è nato in Giamaica, a Kingston, nel 1970, vive negli Stati Uniti e si chiama Marlon James. Dopo una prima opera che accordava religione e sovrannaturale (Il diavolo di John Crow, 2005; pubblicato in Italia da Baldini & Castoldi nel 2008) e un romanzo storico più realistico ma altrettanto spietato (Le donne della notte, 2009; ed. italiana Frassinelli, 2016), James si è imposto come una delle voci più interessanti nella letteratura contemporanea quando ha vinto il Man Booker Prize con Breve storia di sette omicidi (2015; ed. italiana Frassinelli 2015), in cui vent’anni di storia giamaicana, a partire dal tentato assassinio di Bob Marley, sono stillati nel racconto di cinque giornate tra il 1976 e il 1991; il risultato è un’opera prismatica, che aggrega elementi del giallo e del noir in una confezione che prima di ogni altra cosa è un romanzo postmoderno. Ottenuta l’autorevolezza di chi ha ricevuto uno dei premi più prestigiosi al mondo, James ha annunciato di voler tornare al genere dei suoi primi esperimenti di scrittura e costruire un fantasy basato – per una volta – sulla mitologia africana e non su quella europea. Quattro anni dopo, a febbraio del 2019 (e adesso anche in Italia), esce Leopardo nero, lupo rosso.

Il protagonista è un simbolo di rottura con la tradizione e il passato, un uomo che ha rinnegato tribù, famiglia e nome per diventare un viandante conosciuto solo come «l’Inseguitore»; dotato di un occhio di lupo e di un fiuto eccezionale, l’Inseguitore sfrutta i suoi talenti per guadagnarsi da vivere come una sorta di detective privato: raramente alla ricerca di persone scomparse, più spesso rintraccia mariti che hanno abbandonato mogli e figli. La terra in cui si muove è una versione fantastica dell’Africa precoloniale – ispirata all’Impero di Etiopia – dove streghe e animali magici abitano un contesto ferocemente realistico. Ed è una di queste creature, un individuo che può assumere la forma di uomo o di leopardo, a proporre al protagonista di unirsi a lui nella ricerca di un bambino scomparso; con loro viaggia una compagnia di personaggi bizzarri, ognuno con i propri segreti e le proprie motivazioni, radunata da un misterioso mercante di schiavi. Ma la squadra è male assortita e, quando l’impresa prenderà una piega inaspettata, l’Inseguitore dovrà capire di chi fidarsi.

Ti racconterò una storia. Comincia con un Leopardo. E una strega.

La voce narrante è quella del protagonista, che è chiuso in una cella e si rivolge direttamente a chi lo sta interrogando. Questo aspetto del romanzo svolge la triplice funzione di cornice narrativa, flashforward e sapiente sperimentazione linguistica: raccontando una storia-dentro-la-storia, James trova lo spazio per simulare l’esperienza della narrazione orale. Allo stesso modo in cui Il Signore degli Anelli si proponeva come un poema epico appartenente al mondo inventato da Tolkien, con tanto di commento critico che lo inquadrava in una tradizione letteraria fittizia, Leopardo nero, lupo rosso si presenta come parte di un corpus mitologico tramandato a voce; e così, mentre i viaggi di Bilbo e Frodo sono trascritti da loro stessi nel Libro Rosso dei Confini Occidentali, le gesta dell’Inseguitore sono imparate a memoria e recitate dai griot, i cantori e poeti che rendono possibile la conservazione e la trasmissione del patrimonio culturale in Africa Occidentale come nella terra immaginata dall’autore. I griot svolgono un ruolo centrale nel romanzo e uno dei propositi più crudeli di alcuni tra i molti esseri malvagi che strisciano fra le pagine di questo libro sarà ucciderli tutti per annientare, con loro, la memoria di un popolo; un uomo senza griot, dirà l’Inseguitore, è un uomo insignificante, che verrà dimenticato. In Leopardo nero, lupo rosso il racconto orale è messo sullo stesso piano del testo scritto e James, quindi, non si limita a valorizzare un contenuto, basando un fantasy su un impianto mitologico trascurato dalle principali correnti del genere, ma restituisce dignità a un veicolo che troppo spesso è stato erroneamente considerato primitivo: la tradizione orale.

Lo stile del romanzo è indirizzato a sua volta alla ricostruzione del linguaggio parlato e nella maggior parte dei casi l’obiettivo è raggiunto, anche a costo di eccedere con le espressioni stravaganti. Il fiuto ipersviluppato del protagonista permette all’autore di esibirsi in ricchissime ma funzionali descrizioni olfattive; l’esposizione delle azioni, invece, è volta alla suspance: nelle scene più tese le informazioni cruciali – come il soggetto di una frase, spesso sostituito da un pronome – sono trattenute per essere rivelate solo alla fine del periodo. Uno scrittore meno attento di James abuserebbe di questa strategia, ma qui l’equilibrio tra letterarietà e tecniche della narrativa pop è impeccabile.

Superate le cento pagine iniziali, in cui il gioco metaletterario è evidente – in primo luogo per i frequenti incisi che l’Inseguitore rivolge a chi lo sta interrogando –, la narrazione si semplifica, mantenendo la prima persona e i toni del racconto orale ma riducendo gli elementi che potrebbero ostacolare l’immersione del lettore nella storia. Il passaggio è graduale e ben gestito, oltre che perfettamente coordinato con il momento in cui ha inizio la quest principale del romanzo, ovvero la ricerca del bambino scomparso.

Le atmosfere cupe, la voce narrante cinica e la presenza capillare del male contribuiscono inoltre alla creazione di un mondo dalle tinte noir, in cui il protagonista deve scendere a patti con la spietatezza da cui è circondato.

La notte a Kongor. Questa città che esibiva il più sfacciato amore per la guerra e il sangue, dove la gente si radunava per vedere uomini e animali straziarsi le carni, tuttavia rabbrividiva nel vederle denudate. Qualcuno dice che fosse l’influenza dell’Oriente, ma Kongor è parecchio a ovest e questo popolo non credeva in niente.

Quando l’Inseguitore attraversa il mercato nero in cui streghe e demoni possono vendere o comprare prodotti come ossa di neonato, organi di neonato o, se la sorte è particolarmente avversa al bambino, un neonato ancora vivo, è subito chiaro che non è in nome di una causa più alta che il protagonista decide di non fermarsi a uccidere ogni creatura che frequenta quel posto: a renderlo indifferente a (quasi) tutto quello che vede è la determinazione di chi sa che le battaglie personali sono le uniche per cui vale la pena combattere. Come un detective antieroico, l’Inseguitore ha rinunciato a estirpare il male dal mondo perché il mondo e il male sono la stessa cosa. La sola, minuscola porzione di realtà che dipende da lui è quella che riguarda il suo caso, e non è detto che sarà in grado di risolverlo.

I giochi di potere e l’icasticità della violenza nel romanzo hanno reso Leopardo nero, lupo rosso un testo accostabile alle Cronache del ghiaccio e del fuoco. Tutto ciò che nell’opera inconclusa di Martin è poco più di un effetto speciale abusato (sesso, violenza, magia), però, acquisisce profondità nelle parole di James. La mancanza di autocompiacimento nel dipingere uno scenario crudo e la maggiore consapevolezza linguistica dell’autore giamaicano rendono il paragone imbarazzante per l’autore del Trono di Spade, la cui vera cifra stilistica è forse il complesso d’inferiorità e il fallito patricidio nei confronti di Tolkien. Vale la pena di approfondire il discorso per quanto riguarda i rapporti omoerotici: se Martin – nelle cui opere il guerriero più forte, più grosso e più maschio sconfigge (massacra) sempre il cavaliere elegante ed effemminato – propina una rappresentazione stereotipata e appiattita dell’omosessualità, James suggerisce un modo diverso di essere virile e racconta una sessualità più fluida. «Sai cosa si prova», domanda il protagonista al suo interrogatore «quando si fa scoppiare il fulmine in un uomo?».

L’altro prodotto di massa a cui viene paragonato Leopardo nero, lupo rosso è Black Panther, e stavolta il confronto regge. Il film del 2018 è stato il primo blockbuster – non nella storia dei film di supereroi ma in quella del cinema – a conciliare un regista nero, un cast quasi esclusivamente nero e un budget da 200 milioni di dollari. Tecnicamente siamo appena sopra la media qualitativa dei film del Marvel Cinematic Universe (e non serve scomodare Iñárritu o Scorsese per avere un’idea di quanto siano ridotte le dimensioni di tale traguardo), ma non importa, perché il merito dell’opera è quello di aver dimostrato che un nero in un cinecomic può essere qualcosa di diverso dalla spalla di Iron Man o di Capitan America, regalando a milioni di bambini in tutto il mondo la possibilità di immedesimarsi per la prima volta in un supereroe. Le ambientazioni, i costumi e ogni dettaglio sono ispirati a un’estetica afrofuturista: il film non si limita a fornire un esempio diverso di eroe, ma lo inserisce in un contesto nuovo, offrendo un’alternativa all’immaginario mainstream. James ha compiuto la stessa operazione, inserendosi in una lunga tradizione giamaicana di riscoperta delle origini – si vedano Marcus Garvey, l’etiopismo e la religione rastafari – e scrivendo una storia completamente diversa da qualsiasi fantasy mai pubblicato. Non è un caso, allora, che Michael B. Jordan, che pur interpretandone l’antagonista è la vera star di Black Panther, abbia comprato i diritti cinematografici di Leopardo nero, lupo rosso (se per farne un film o una serie televisiva, ancora non si sa).

Ridotto ai suoi aspetti essenziali, il nuovo romanzo di Marlon James è un omaggio al racconto orale, una scatola cinese di storie declamate e sussurrate dai tanti personaggi a loro volta descritti dalla voce del protagonista, l’unica con cui il lettore entra in contatto, per ora. Leopardo nero, lupo rosso, infatti, è solo il primo volume di una trilogia che ha già il nome di Dark Star, e i prossimi libri non riprenderanno la narrazione da dove l’ha lasciata l’Inseguitore ma racconteranno la stessa storia dal punto di vista di un personaggio diverso – e qui l’ispirazione più che esplicita è Rashômon, il celebre film di Kurosawa ispirato ai racconti di Ryûnosuke Akutagawa. La saga dunque continuerà a indagare il rapporto tra verità e narrazione, e l’autore ha dichiarato che non indicherà una «versione attendibile» al pubblico. Anche senza dimenticarne la natura ingannevole, le storie mantengono una loro sacralità nel romanzo e il senso della lettura è immergersi – senza necessariamente perdersi – in un coro di voci che ci parlano di e da un altro mondo.

Verso la metà del romanzo, in un raro momento di pace, l’Inseguitore trova rifugio nella dimora di un griot. Quando il padrone di casa inizia a cantare di un amore perduto, il protagonista, rendendosi conto di cosa gli sta per succedere, scappa fuori dalla porta e inizia a correre, perché non vuole che qualcuno lo veda commuoversi. È la reazione infantile, inadeguata, di chi pensa che un grande guerriero non possa esternare le proprie emozioni; ma dopo tutti gli omicidi, le mutilazioni, gli infanticidi e gli altri atti terribili che riempiono le pagine del romanzo, scoprire che il protagonista di questa storia, e noi con lui, è ancora capace di avere una risposta umana a qualcosa di così banale come il canto di un poeta innamorato è un regalo di cui essere grati. Perché in quei momenti ci rendiamo conto che Marlon James è uno scrittore che non ha bisogno di tracciare una separazione netta tra bene e male per creare qualcosa di profondamente epico, e che l’Inseguitore, nonostante tutto e con sorpresa sua quanto nostra, è ancora un eroe.

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