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Sono sul palco con un occhio di bue puntato addosso. Fermo, non faccio niente. Sto lì. Esisto. Dovrebbe spostare qualcosa, tutto questo. Sento il coro intonare «ipertricotico focomelico» sulle note di Largo al Factotum, dal Barbiere di Siviglia. Le vibrazioni mi attraversano.

Ipertricotico-focomelico, ipertricotico-focomelico, ipertricotico-focomelico, ipertricotico-focomelico

I-PER-TRICO-TICOO, FOCO-MELICO, I-PER-TRICO-TICOO, FOCO-MELICO

IPERTRICOTICO, FOOOO-COOMELICÓ

Chiudo gli occhi, la luce la sento lo stesso. Provo a concentrarmi su qualcuno in prima fila che non posso vedere. Piange di commozione. Non mi fa nessun effetto, non più. C’è stato un momento preciso in cui tutto è iniziato. L’incontro con Lui è stata una cosa buona?

«Parlami».
«…».
«Mi devi parlare».
«Non so cosa dire».
«Allora lascia parlare me. Con il termine “ipertricosi” si identifica un aumento della pelosità, senza zone di predilezione. Solitamente si tratta di iperattività ormonale, in modo particolare di ormoni quali il diidrotestosterone e i glucocorticoidi. Nelle donne l’ipertricosi è correlata con il diabete mellito di tipo due, negli uomini invece a problemi alla prostata».
«Non ho nessun problema alla prostata».
«Meglio così».
«Quante volte ancora mi ripeterai le stesse cose?».
«La focomelia invece è una grave malformazione che comporta la mancanza di uno sviluppo completo di arti superiori o inferiori. La malformazione può essere mono o bilaterale e interessare porzioni più o meno estese degli arti interessati».
«Smettila».
«Nei casi più gravi sono presenti solo abbozzi rudimentali di dita all’altezza della spalla. È associata a difetti cardiaci, mancanza dell’orecchio esterno o malformazioni intestinali».
«Non ho difetti cardiaci, il mio orecchio esterno è a posto e il mio intestino funziona benissimo».
«Ne sono felice».
«So chi sono».
«La consapevolezza passa attraverso la ripetizione. La consapevolezza passa attraverso la ripetizione. Tu non immagini neanche la fortuna che hai avuto».
«Fortuna, sicuro».
«Hai tutto. Sei davvero qualcosa. Non hai bisogno di costruzione, non hai bisogno di niente. Sei perfetto, davvero perfetto».
«Perfetto per cosa, per essere usato? Io non sono te, non decido quando andare in scena. Ogni volta che esco di casa è una cazzo di esibizione. Non hai idea di come mi guardano, di cosa mi dicono quando cammino per strada».
«Parlami ancora di quel sogno che fai».
«È soltanto un sogno».
«Raccontamelo un’altra volta».
«Sono a una festa, è notte; una festa all’aperto, d’estate. C’è tanta gente e io sono lì con un bicchiere in mano. C’è qualcosa di rosso dentro, ma non sembra vino. Forse un cocktail, con poco ghiaccio. Io ho vent’anni o poco più. Sono ubriaco, decisamente rotto. Parlo con un amico».
«Che aspetto hai?».
«Sono un ragazzo come tanti. Anonimo. Un po’ più basso degli altri, con gli occhiali. Ho una maglietta nera a maniche corte e un paio di jeans. Fa caldo. Sono sudato».
«Ipertricosi? Focomelia?».
«No. Le mie braccia sono normali. Forse un po’ più corte della media, ma normali. Non ho peli in eccesso».
«Sei felice?».
«No. Sono molto triste. Sono in mezzo alla gente e mi sento tremendamente solo. In quel momento ho la sensazione di camminare verso la disperazione».
«Cos’è che ti rende triste?».
«Dico al mio amico che a volte vorrei solo essere davvero un freak. Che a volte penso che vorrei essere John Merrick».
«Perché?».
«Perché è insopportabile sentirmi sempre fuori posto, è insopportabile vedere le vite degli altri scorrermi addosso e non averne una mia. È insopportabile non sapere perché mi succede».
«Se fossi John Merrick le cose andrebbero meglio?».
«Se fossi John Merrick sarebbe tutto diverso, avrei un nome da dare alla mia emarginazione».
«È importante dare un nome alle cose».
«Forse».
«Sembra che il tuo desiderio onirico si sia avverato».

Abbiamo iniziato con le fotografie. Luimi ha scattato centinaia, forse migliaia di foto. Farsi fotografare è un atto di coraggio, mi ha detto, un coraggio che prima di conoscere Luinon avevo mai avuto. È stato un crescendo: foto in un bar, foto per strada, foto normali, di vita quotidiana. Poi Lui mi ha preso le misure e ha iniziato a vestirmi con abiti realizzati apposta per me. Completi eleganti, abiti da lavoro, da matrimonio, d’epoca, costumi da pompiere, e altri  ancora più bizzarri. Trovavo la cosa divertente, era la prima volta che le maniche avevano la lunghezza giusta senza doverle tagliare.

Avevo sentito parlare di Lui, ne avevo letto su riviste e su internet. Si definiva il più importante artista del secolo. Forse lo era, ma non me ne preoccupavo. Come mi avesse trovato restava un mistero. Sei tu che hai trovato me, mi diceva.

«Adesso spogliati».
«No».
«Spogliati, ne abbiamo bisogno».
«No, non voglio farmi vedere nudo. Non ho intenzione di permetterti di fotografarmi».
«Non vuoi farti vedere nudo o non vuoi farti fotografare?».
«Entrambe le cose».
«Perché?».
«Perché non voglio.»
«La tua volontà non c’entra niente, non è della tua volontà che stiamo parlando».
«È il mio corpo, la mia volontà è l’unica cosa di cui stiamo parlando».
«In questo momento stiamo parlando della mia volontà. E del mio desiderio».
«Il tuo desiderio un cazzo».
«Ti sei mai spogliato davanti a qualcuno? O hai solo sognato di farlo?».
«Certo che ci ho pensato; lo faccio ogni giorno. Ma quando ci penso immagino di spogliarmi davanti a una donna, e non nel tuo luna park. Immagino di farlo come se fosse una cosa normale».
«Succederà. Prima però devi farlo davanti a me».
«È un pensiero che mi fa stare male, ed è un pensiero che non mi lascia mai in pace».
«Puoi spogliarti davanti a una delle mie assistenti, se può farti sentire meglio».
«Ti ho appena detto che vorrei farlo come se fosse normale».
«Hai detto anche che hai sempre immaginato di poterlo fare. Adesso puoi».

Luimi ha detto che sarei stato la sua prossima mostra personale, dal titolo Ipertricoticofocomelico™. Mi ha creato una pagina Facebook, un account Instagram e ha pubblicizzato l’evento su siti e riviste del settore. «Flash Art» gli ha dedicato due pagine prima ancora dell’apertura.

Due settimane prima dell’evento, @ipertricoticofocomelico aveva superato i quattromila follower. A me non sembravano molti, di solito si parla di Instagram citando account da centinaia di migliaia o da milioni di follower. Luiperò mi ripeteva che nell’arte contemporanea quattromila follower in un paio di mesi sono un numero degno di attenzione. L’account @luiart in quel momento ne aveva centoventimila, oggi sono più di duecentomila. Anche grazie a me, secondo Lui.

La personale di Luisarebbe stata a Venezia, durante la Biennale di Arte Contemporanea. Non nel padiglione Italia e neanche nel percorso del curatore. Un evento collaterale, comunque una cosa importante. Luiaveva partecipato a un’edizione precedente della Biennale; in quell’occasione era stato invitato a esporre nel padiglione Italia insieme ad altri artisti, e aveva deciso di intervenire con un video in cui un mastro birraio parlava di tecniche di propagazione dei lieviti. Me lo aveva mostrato e ne ero rimasto affascinato. Era bello sentire parlare di ambienti fortemente cross-contaminati, scambio microbiologico delle botti inevitabile e accettato, contaminazione certa, biomassa propagata in beute di borosilicato, e filosofia brada. Era bello anche senza capirci molto, o forse era bello perché non riuscivo a capirci molto.

Prima dell’opening conoscevo solo le opere che mi avevano visto direttamente coinvolto. Le foto, anche quelle di nudo, ormai non mi davano più fastidio. Mi ero abituato a vedere il mio piccolo corpo ipertricotico e focomelico esposto, indifeso. Luiin me vedeva tanta bellezza; quando me lo diceva facevo finta di ascoltare ma cercavo di allontanarmi il più possibile da quel pensiero. Anche solo l’idea che qualcuno potesse trovarmi bello mi terrorizzava, per motivi che non riuscivo del tutto a mettere a fuoco.

Il giorno del vernissage di Ipertricoticofocomelico™ mi sono trovato a guardarmi divertito come non ero mai stato abituato a fare. In quel luna park pieno di ipertricosi e focomelia, non mi sarei comunque mai aspettato di poter entrare in una stanza dei peluche. Era un ambiente pieno di riproduzioni di me in forma di pupazzetto. C’erano questi piccoli me di peluche, ancora più fumettistici dell’originale, sparsi dappertutto. Peluche ipertricotici e focomelici. Con le loro faccette ricoperte di peli e le braccine che neanche arrivavano all’ombelico.

Ero un focomelico fortunato. Non solo ero stato un adolescente focomelico negli anni ‘90, quando Peter Milligan, Brendan McCarthy e Carol Swain avevano scritto, ideato, disegnato e colorato il fumetto Skin, che raccontava la storia di Martin Atchitson, giovane skinhead focomelico – un «figlio della talidomide» – nella Londra degli anni ‘70, ma adesso avrei potuto addirittura tenere vicino al letto un peluche di me stesso con un’etichetta dai colori cangianti sulla quale campeggiava iridescente la scritta Ipertricoticofocomelico™. Essere diventato un brand mi eccitava. Mi sentivo così a mio agio che ho iniziato a fantasticare di un impero marchiato Ipertricoticofocomelico™, fatto di party, viaggi-vacanze, merchandising e gadget di ogni sorta. In fondo però era un’idea di Lui, che forse si sarebbe esaurita con Venezia e la mostra personale. Collezionisti e curatori hanno cercato di mettermi in guardia, durante l’opening. Mi dicevano che presto Lui sarebbe passato ad altro, che in fondo io ero qualcosa di temporaneo come tutto il resto. Il presente è velocissimo, e l’arte contemporanea deve esserlo ancora di più, continuavano a ripetermi tutti quanti.

Quando sono stato invitato nel programma di Philippe Daverio, sono andato da Luia chiedergli se fosse il caso di accettare. Per LuiPhilippe Daverio era un presentatore televisivo, non un critico d’arte. Avrei dovuto preservarmi, anche a costo di scomparire. Altrimenti, una volta passato il momento, sarei finito a girare per trasmissioni televisive e reality show, dove la gente non mi avrebbe più considerato Ipertricoticofocomelico™, ma mi avrebbe chiamato con nome e cognome e forse addirittura sarei stato interpretato come una persona, un essere umano con debolezze e talenti, sentimenti. Secondo Luiquesta era una fine orribile, ma in fondo ero io a dover decidere cosa fosse meglio per me.

Dopo la Biennale di Venezia il mio account Instagram era cresciuto fino a sedicimila follower.

Ero sempre più convinto che, dopo Ipertricoticofocomelico™, Lui avesse finito con me. E nonostante questo, avevo rifiutato l’invito di Daverio. Invece Lui pensava che il discorso si potesse sviluppare ancora, con un grande spettacolo; come una celebrazione del viaggio, della strada che avevamo percorso insieme.

Eccomi allora sul palco con un occhio di bue puntato addosso. Fermo, non faccio niente. Sto lì. Esisto. Dovrebbe spostare qualcosa, tutto questo. Sento il coro intonare «ipertricotico focomelico» sulle note di Largo al Factotum, dal Barbiere di Siviglia. Le vibrazioni mi attraversano.

Ipertricotico-focomelico, ipertricotico-focomelico, ipertricotico-focomelico, ipertricotico-focomelico

 I-PER-TRICO-TICOO, FOCOMELICO, I-PER-TRICO-TICOO, FOCOMELICO

 IPER-TRICOTICO, FOOOO-COOMELICÓ

Chiudo gli occhi, la luce la sento lo stesso. Provo a concentrarmi su qualcuno in prima fila che non posso vedere. Piange di commozione. Mi chiedo perché non mi faccia più effetto. Non trovo una risposta, tutto quello a cui riesco a pensare è che a Lui certamente non manca il senso dell’ironia: il Barbiere di Siviglia per celebrare un ipertricotico.

Cosa succederebbe se incontrassi davvero un barbiere di qualità, se riuscissi a rimuovere tutti quei peli in eccesso che impediscono alla mia pelle di respirare? Cosa succederebbe se indossassi delle protesi davvero credibili? Cosa succederebbe se non fossi più un Ipertricoticofocomelico™, almeno per un po’? I peli ricrescerebbero, certo. Le braccia invece no; ma come mi sentirei?

Mentre il coro continua a cantare, mi chiedo se qualcuno in prima fila stia piangendo davvero.

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↔ In alto: rielaborazione del ritratto di Fedor Jeftichew, foto © Fred Park Swasey, 1888-96.

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