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«Questo libro è un J’accuse. Ma anche un inno d’amore per un futuro che desideriamo diverso».

Così Igiaba Scego introduce le undici storie di Future. Il domani narrato dalle voci di oggi (Effequ 2019), antologia di racconti di cui è curatrice. E dice la verità. Perché le voci di questa raccolta sono voci che hanno molto da dire e lo fanno con toni che vanno dalla rabbia alla speranza, dalla caparbietà alla consapevolezza.

Le undici autrici hanno in comune l’essere donne e l’essere afroitaliane, perché nate in Italia da uno o entrambi genitori di origine africana. Le loro voci si impongono in una società in cui tutto ciò che è percepito come diverso o distante è guardato con sospetto, in cui spesso non ci si accorge che il futuro – temuto, agognato – è in realtà già presente, a volte già passato. Oltre dieci anni fa l’editoria – o forse la società stessa – sembrava intenzionata a dare spazio a quella che venne chiamata letteratura migrante, che offrì l’opportunità di leggere e conoscere autori come Pap Khouma, Amara Lakhous, Tahar Lamri, Cristina Ali Farah, la stessa Scego, che insieme ad altri iniziarono a raccontare il proprio punto di vista, l’essere in perenne bilico tra più identità e almeno due mondi, nei quali era difficile allo stesso modo riconoscersi e farsi riconoscere. Oggi Future è l’occasione per rendersi conto di come le generazioni siano cresciute e si siano rinnovate sullo sfondo di un paese statico e sempre uguale a se stesso. Come fa notare la curatrice, oltre al razzismo, ai porti chiusi, alle parole di odio, ciò che continua a impaurire è la barriera tra il noi e il voi, ancora ben salda, spaventosa e difficile da abbattere: «Migranti e figli di migranti sono ponti naturali tra paesi e continenti. Ecco perché sarebbe sensato avere una società dove gli sguardi si incrociano, dove le narrazioni non sono a senso unico».

Tra i racconti dell’antologia c’è Il mio nome di Djarah Kan in cui l’incontro con una zia sconosciuta che viene dal Ghana è l’occasione per una figlia di aprire gli occhi sulla vita in Italia, la propria o quella dei propri genitori. È l’occasione per rendersi conto che l’arredo triste di un appartamento e le bugie raccontate oltremare per convincere chi è rimasto a casa di avercela fatta, sono i sintomi della distanza tra un figlio e i propri genitori, di tre mentalità cresciute insieme ma lontanissime.

Altra storia di padri e figlie è quella di Marie Moïse, cognome che significa salvato dalle acque. Moïse racconta tutte le volte che la sua famiglia è stata, appunto, salvata dalle acque: la prima volta sopravvivendo alla deportazione per mare, quando i suoi antenati abbandonarono storia, lingua e memoria per raggiungere Haiti; la seconda per fuggire dalla dittatura di Duvalier alla volta dell’Europa. L’ultima salvezza è quella della stessa autrice che arriva a conoscere attraverso i propri occhi e quelli del padre l’isola che non ha mai visto – donne disperate che cedono i figli; uomini armati che ne fanno sparire altri; persone capaci di far ritrovare nostalgie di cose mai conosciute – per potersi chiedere che vita avrebbe fatto la sua famiglia se i loro antenati non avessero mai attraversato i mari e loro fossero nati lì.

Nella postfazione alla raccolta, Prisca Augustoni – docente di letteratura comparata all’Università di Juiz de Fora in Brasile – fa notare come la rappresentazione del mondo che viene fuori da questi racconti segua una doppia corsia «nel senso che la migrazione della popolazione africana verso altri paesi occidentali porta certo alla frammentazione e dispersione di una nozione di identità originaria ‘unica’ (…). D’altro canto esiste un evidente proces­so di stratificazione e arricchimento epistemico in queste voci femminili, un’apertura, per così dire, verso questioni che vanno oltre quelle razziali, provocate dallo spostamento che esse stesse hanno vissuto e dalla necessità di ricostruire un nuovo senso di appartenenza nelle società di arrivo».

La frammentarietà è l’elemento simbolico e portante di Zeta di Lucia Ghebreghiorges, doppiamente avvertita in un racconto costruito su schegge di memoria e di incognite. Legando passato, presente e futuro attraverso un’assistente virtuale – Zeta, appunto –, una donna anziana si trova di fronte a ricordi che costituiscono la sua carta d’identità, a dover fare i conti con brandelli di se stessa, aperti e riposti da qualche parte, con domande che ne mettono in dubbio l’identità stessa.

Non ho avuto figli da Marco, non riuscivamo ad averne e l’adozione era per me impensabile. Più che un atto d’amore sarebbe stato un virus, una trasmissione di incognite. Riusci­vo a immaginarmela mia figlia da grande guardarmi con aria interrogativa e chiedermi: “Mamma, di chi siamo figlie io e te?” (pp.90-91)

Altra vita vissuta in altra gabbia è quella di Miche, il protagonista di Lamiere di Esperance H. Ripanti, che cresce a metà tra spazi ristretti e inevitabili e bisogno di salvezza. Diventa grande, poi torna indietro, di nuovo bambino, in un alternarsi di tempi che scandiscono i ritmi di un figlio e insieme quelli di una collettività, fino al bivio al quale scegliere che strada prendere, la propria, quella degli altri.

I temi dell’antologia sono molti, spesso alcuni ritornano, quello del bisogno di riconoscersi, di autoformarsi, quello del rapporto con i genitori e le generazioni precedenti, con i paesi lasciati o mai abitati. Ogni racconto, tuttavia, affronta i temi più sentiti con un linguaggio differente e peculiare, che diventa caratterizzante di quella voce e di quella autrice, in grado di riportare una storia di radici in un futuro presente.

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