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Francesco Iannone è nato nel 1985 a Salerno, dove vive. È autore delle raccolte Poesie della fame e della sete (Ladolfi, 2011) e Pietra lavica (Aragno, 2016). Altri suoi contributi sono apparsi in riviste (La Clessidra, Semicerchio, Clandestino) e inclusi nelle antologie Al di là del labirinto (L’arca felice, 2010), Raccolta di poesie 2011 (Subway-Letteratura, 2011), La generazione entrante (Ladolfi, 2011). Quest’anno approda alla narrativa con Arruina (Il Saggiatore), una favola dalle tinte fosche in cui una trama senza tempo incontra un linguaggio nuovo, in grado di riformulare i canoni del racconto favolistico tradizionale. Arruina è la storia di una ragazzina dagli straordinari poteri catartici e del suo rapimento ad opera di creature che vivono nell’oscurità dei boschi e forse, prima ancora, nelle menti di chi vive ai suoi margini, ovvero di chi in quelle storie ci ha sempre creduto. È il racconto in bianco e nero di una perdita e di un ritrovamento, di un mondo che non esiste più, ammantato di suggestioni e richiami remoti, in cui prodigio e realtà collidono, dove nascita e morte si intrecciano senza fine; una narrazione ricca di affondi lirici capace di restituire luce alle cose, e di guardare con grande pietà a gesti e culture altrimenti destinati all’oblio.

Arruina è il romanzo d’esordio di un poeta. Il libro ha per questo un ritmo compositivo tutto suo: se da un lato appare carnale e “violento” nelle immagini che evoca, fitto di una terminologia anatomica che rimanda a un’idea di tangibilità e decadenza dei corpi (tendini, saliva, ossa, denti, ecc), dall’altro è intessuto di slanci lirici e da un linguaggio poetico che lo rendono unico nel panorama narrativo attuale. Quanto c’è della tua poesia in Arruina? Quanto la scrittura poetica ha influenzato quella in prosa, e che differenza c’è tra le due?

La poesia è uno spazio di verità, un occhio che prova a guardare dentro se stesso (parafrasando Alfonso Gatto) con la lente della parola. E la parola per il poeta è una cavità capace di contenere il senso dell’uomo e delle cose, o almeno di trattenerne il fiato, un’impressione. Nella poesia tutto è compresso in una manciata di versi, tutto è stritolato in un gorgo di suoni. La prosa può permettersi invece ben altre concessioni. Arruina è stato una spoliazione, un esporre il corpo nudo attraverso personaggi che altro non sono che simboli, contenitori di significati possibili. Ecco che la parola ha evaso il recinto del verso, ha abbattuto la staccionata della sintesi e della misura imposte dalla poesia. Sentivo di non potermi opporre e così ho deciso di abbandonarmi alla potenza di quel flusso. Arruina assomiglia un po’ alla corsa di un tronco trascinato dalla corrente, c’è quell’affanno, quell’affaticamento.

Quali sono le letture che hanno plasmato il tuo immaginario di lettore e di scrittore? E quali, se ci sono, hanno ispirato la stesura di Arruina?

È difficile ricomporre la geografia delle opere che mi hanno consegnato le suggestioni e le atmosfere che ho poi riversato in Arruina. Ci sono autori dai quali però sento di non poter prescindere. Voci a cui ho appoggiato la mia sperando di trarne agilità e vigore, o forse neppure c’era questa progettualità. Autori che ho portato con me perché percepiti come fraterni e dei quali ho voluto seguire la direzione del sangue, quella splendente traccia rossa. E procedendo a caso penso a Gottfried Benn e Ágota Kristóf, Virginia Woolf e Violette Leduc, Gesualdo Bufalino e Robert Walser, Amelia Rosselli e Dino Campana.

Il sottotitolo definisce Arruina una “favola oscura”: il testo, infatti, porta con sé l’alone mitico delle antiche credenze, gli echi favolistici della sapienza popolare. Quanto hai attinto dal folklore delle tue zone? E cosa, in particolare, ti ha spinto alla scrittura di un simile romanzo, tanto lontano dai gusti e dalle logiche del mercato editoriale odierno?

Arruina è impregnato di folklore e cultura popolare. Nasce dalle congestioni della terra, dall’humus, e potrebbe essere considerato un testo umile per quel suo approssimarsi ai semplici, ai dediti ai campi e agli animali, ai sapienti del fare, ai maestri del pratico vivere. Arruina è stato per me un ritorno, un tornare indietro, alle origini, per reinterpretare tutto il senso dell’oggi. Per perfezionare la visione del domani. Non avrei potuto saltare questo passaggio.

Il mondo di cui parli nel libro è il prodotto di una società pastorale e contadina che sta inesorabilmente scomparendo. Il romanzo, in questo senso, mi sembra aprire la strada ad un nuovo tipo di narrazione, quindi ad una rinnovata coscienza intellettuale: il tuo può essere visto come l’estremo tentativo di recuperare un patrimonio in via d’estinzione e con esso il materiale archetipico, universale di cui ognuno necessita come individuo e come membro della collettività?

Ho dovuto recuperare parte della mia infanzia per poter sopravvivere a me stesso, per poter agire oltre l’età della giovinezza e provare a fare il mio ingresso nell’età adulta. E non ho potuto non includere i racconti delle vecchie, le leggende, le proiezioni di tutte le paure e i desideri della gente che diventano al sud Ianare e Marialonghe. Credo anche che quella dimensione puoi raccontarla in modo credibile se l’hai vissuta, se ha attraversato il tempo dei tuoi giorni altrimenti diventa una forzata rievocazione di una storia che non ti appartiene e che perciò restituisci massimamente depotenziata. In un’epoca così evoluta come la nostra sembrerebbero impronunciabili certe superstizioni e credenze, ma mi sembra che c’era fino a pochi decenni fa una preoccupazione più consapevole della vita e della morte, del bene e del male, che sarebbe opportuno recuperare magari indagandola con gli strumenti intellettuali di cui disponiamo oggi.

Che cosa significa per te scrivere? Che cosa cerchi di ottenere o di esorcizzare, scrivendo?

Scrivere significa per me dispormi alla felicità, o meglio alla fertilità, nell’accezione latina del termine. È un divaricarmi al mondo, un concedermi alla fecondazione per la nascita. E ciò che nasce abbisogna di tempo e cure, implica sacrifici e sofferenze. Tutta la strada camminata verso il proprio bene è fatta della stessa sostanza del bene stesso, ed è quindi amabile esattamente quanto lo è l’oggetto del desiderio conquistato o solamente sperato.

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