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Il posto dove muoiono gli uccelli si apre in maniera dirompente con un’epigrafe di Lydia Davis: un aneddoto misterioso, apparentemente nonsense, descrive come ci si possa ritrovare a provare empatia verso un sacchetto di carta appallottolato. La scelta dell’autore di iniziare in questo modo anomalo suona sulle prime misteriosa, ma a ripensarci a lettura conclusa si presenta quasi come un piccolo e criptico manifesto dei dieci racconti che seguono. Dietro questa insolita scelta di epigrafe c’è Tomás Downey (1984), uno sceneggiatore di Buenos Aires diplomato alla Escuela Nacional de Experimentación y Realización Cinematográfica. Si è già fatto conoscere in patria grazie al suo esordio uscito nel 2015, Acá el tiempo es otra cosa, al tempo salutato dalla stampa come voce promettente della narrativa argentina. Nell’autunno Downey è arrivato anche nelle librerie italiane con Il posto dove muoiono gli uccelli, edito da gran vía (con una traduzione di Olga Alessandra Barbato), mentre in Argentina era stato pubblicato da Fiordo editorial nel 2017.

La raccolta è aperta da Tre sorelle. Tre ragazzine sono alle prese con un rituale insolito che coinvolge il furto di un maialino. Una particolarità della scrittura di Downey è l’attenzione all’aspetto sensoriale del racconto: ogni sfumatura è descritta coinvolgendo l’intera sfera dei sensi; se ne trovano tracce in alcune scene iniziali di questa vicenda, quando le bambine si incamminano in un prato il focus del racconto si concentra sull’erba che pizzica le gambe e sull’odore penetrante e pungente che irrita il naso. Nel corso delle pagine è invece l’aspetto tattile a predominare, come ad esempio nell’attenzione riposta nel dettagliare il fango pestato che si insinua tra le dita dei piedi delle ragazzine. Durante il gioco delle bambine, lo stesso fango finisce per mischiarsi al sangue, e questo sentore di putrescenza che viene dalla storia accompagna il racconto verso un finale ambiguo, al presentimento che il rituale del maialino abbia a che vedere con un incendio che distrugge la casa della loro famiglia.

In alcuni racconti si affaccia il tema della guerra, come in Gli uomini vanno in guerra. Qui viene narrato l’episodio di una donna in lutto, che rimugina sulla perdita ed esprime il «dolore crudo, perpetuo» per la morte del marito, un uomo di cui non resta più nulla, se non un oggetto ritrovato sul campo di battaglia. A questa scena, a suo modo classica, viene aggiunto un elemento che ne moltiplica la tragicità, un loop che rende il racconto più intenso; tramite la ripetizione si evidenzia l’atto di girare incessantemente intorno allo stesso pensiero funereo. La rappresentazione del dolore tramite l’esperienza del lutto ritorna anche in La pelle sensibile, sebbene declinata in un contesto contemporaneo. Una donna convive con l’apparizione del marito defunto, e la particolarità del racconto sta nella misura con cui Downey riesce a rendere sottilmente qualcosa di molto difficile da descrivere, vale a dire la percezione tattile di afferrare qualcosa di sfuggente e impalpabile. E nuovamente, a corredo della trama, si ritrovano vivide suggestioni sensoriali: l’odore dei fiori appassiti, i bocconi, le cose viste con la coda dell’occhio.

Una simile impressione di straniamento si ritrova anche in Il primo sabato del mese. Il punto di vista passa in prima persona, e come in altri racconti, il protagonista è un ragazzino. Si tratta della storia di un nipote e di suo nonno: il comportamento imbarazzante e volgare del vecchio è particolarmente inviso al bambino, il quale rivela man mano i motivi che fanno dell’anziano un uomo orribile, egocentrico, rumoroso, con tratti mitomani. Qui si inizia ad assaggiare una delle sensazioni dominanti di tutta la raccolta, ossia il presagio, l’idea che possa accadere qualcosa di terribile da un momento all’altro.

Il terzo racconto, Zoo, presenta una dose di brutalità più massiccia rispetto ai precedenti. Per non rivelare troppo, basti sapere che i protagonisti non sono identificati tramite nomi di persona, ma con semplici numeri a due cifre: sono in un regime di detenzione costante ed esposti a un pubblico che li osserva di continuo, come se fossero effettivamente attrazioni di un parco divertimenti; in questa gabbia non solo soli, ma in compagnia di un gruppo a loro estraneo, che tuttavia presenta delle caratteristiche disumane e terrificanti. L’atmosfera si fa più torbida e inquietante rispetto ai precedenti racconti, perché dalla familiarità delle scene domestiche ci si ritrova a osservare l’angosciante convivenza forzata dei due gruppi nella foresta in cui sono rinchiusi.

Variabili e Un cimitero con le palme hanno entrambi come protagoniste due donne, entrambe dai tratti ossessivi e idiosincratici. Nel primo, una donna inizia ad attuare una serie di strategie per ottimizzare il tempo di lavoro conciliandolo con gli impegni per la cura di suo figlio. L’escalation di questa mania viene descritta magistralmente, fino a condurre a un finale tragicomico. Similmente, nel secondo il personaggio è una donna in preda a un delirio bovaristico; ossessionata dalle telenovelas, prova così tanto trasporto da non essere in grado di distinguere il reale da quanto vede in tv. Anche nel racconto I Täkis sono numerosi gli elementi stranianti: un uomo è colto da uno stato febbrile che lo porta a osservare tutto il giorno in televisione una strana famiglia apparsa sulla Terra assieme a una navicella. Gli abitanti della città iniziano a essere interessati soltanto alle vicende legate a questa sconvolgente apparizione sovrannaturale e anche l’uomo si lascia trasportare dall’attenzione morbosa che prova nei confronti di questa famiglia aliena. Il protagonista, così come la madre di Variabili e la signora di Un cimitero con le palme, per inseguire le proprie ossessioni finisce per allontanarsi dagli altri e dalla realtà.

Negli ultimi due racconti quel senso di isolamento apparso nelle parti iniziali del libro ritorna ad addensarsi, grazie al ricorso a ritratti paesaggistici di desolazioni rurali, come ad esempio in Un mazzo di cardi:

Con gli occhi chiusi sente il grasso che crepita sul ferro caldo, l’odore che galleggia nell’aria, i chilometri di campagna che lo circondano, la terra dove le piante crescono e si seccano e crescono di nuovo, gli animali che nascono, muoiono e si decompongono; e lui è una parte infima di tutto quello che gira intorno al sole; e perché, qualcuno glielo spieghi, perché resistere a quell’inerzia se a lui basta guardare il cielo per sapere che quel movimento a spirale, senza fretta, senza posa, un giorno collasserà sul proprio centro; e tutto sarà parte di una stessa nuvola di polvere e gas.

L’ultimo racconto, che dà il titolo alla raccolta, condensa tutti i tratti caratteristici della scrittura di Downey. Clima lugubre, segrete incursioni nei boschi umidi e piovosi, avvenimenti paranormali che si affacciano nel quotidiano. Come un cerchio che si chiude, l’episodio finale ha come protagoniste delle sorelle, alle prese con un gioco inquietante, segreto ai genitori, che affrontano con una ritualità disturbante. Mentre nel primo racconto la purezza dei bambini viene soltanto messa in dubbio, in questo caso il tabù dell’infanzia come luogo di innocenza viene infranto definitivamente. Qui emerge il perché dell’aspetto violento del gioco. È il momento in cui la tensione a cui ci ha abituato Downey nel corso delle pagine diventa più alta e si teme davvero che qualcosa di terribile stia per avvenire.
L’elemento che maggiormente risalta di questa raccolta è l’abilità nel creare la suspense e dominarla con maestria. Leggendo si entra in uno stato di perenne allerta, covando una sorta di ansia verso quello che potrebbe avvenire tra una parola e l’altra. I racconti scandiscono attimi di quotidianità, spesso familiare, tutti accompagnati da un risvolto inquietante e apparentemente incomprensibile, e riescono ad affascinare e a intrattenere, dando al libro un’aura misteriosa unica.