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Le malerbe si piegano e non si spezzano, germinano e resistono sotto la neve anche agli inverni più rigidi: quest’immagine chiude il racconto scritto e disegnato da Gendry Kim, e ne sigilla il senso. Simbolo di caparbietà e di resistenza, il titolo è stato scelto in contrapposizione ai fiorellini e alle farfalle con cui erano identificate le “donne di conforto”, queste donne vendute, rapite o costrette con l’inganno a lavorare come prostitute in Corea e in altri territori occupati dalle armate giapponesi durante la Seconda guerra mondiale. Le vicissitudini di una di loro sono al centro di questo lungo fumetto, libro dell’anno appena trascorso per una redattrice del Guardian (e per la redazione di Bao, l’editore, a dimostrazione della sua fierezza e convinzione).

Fig. 1, 2, 3: La scelta estetica della copertina italiana si distacca dalla virulenza di quella inglese e segue invece la linea editoriale francese, più leggera. Una buona decisione: lo stile è così più coerente con quanto si trova all’interno, ammicca contemporaneamente a un pubblico abituato allo stile manga e a lettori che lo frequentano meno, mette in scena da subito lo scorrere del tempo e la memoria – temi centrali del racconto – attraverso il dialogo con la quarta di copertina.

Keum Suk Gendry Kim è un’autrice coreana di fumetti e albi per bambini. Sin da piccola sogna la Francia, si impegna a fondo per raggiungerla e riesce infine a studiare alla prestigiosa Scuola di Belle arti di Strasburgo. Diventa prima un’importante figura, come traduttrice, per le iniziative editoriali che hanno portato diversi fumetti coreani in Europa; comincia poi a pubblicare i propri progetti, e nel 2015 coordina un saggio che presenta quindici autori coreani al pubblico francese. In quest’ultimo lavoro Gendry Kim rimpiange il tempo di un dominante fumetto impegnato e cartaceo (mahnwa), oggi sempre più negletto e in difficoltà a causa del confuso e fagocitante successo dei webtoon: esprimeva così un gusto chiaro e delle intenzioni decise, tratteggiando il carattere che anima l’intero suo approccio al racconto.

Le malerbe è il suo terzo fumetto, il più ambizioso. Dopo gli avvenimenti raccontati con tenacia e dedizione nella sua penultima opera, Jiseul (dedicato al massacro di Jeju), lo sguardo dell’autrice non abbandona la ricostruzione storica ma ritorna, qui, più attento alle dinamiche sociali e al tono biografico.LE_MALERBE p. 395_page-0001Nel suo primo fumetto lungo, la prova autobiografica di Le chant de son père (inedito in Italia, come anche Jiseul), l’autrice raccontava la propria infanzia condizionata dalla migrazione dalla campagna alla città avvenuta in Corea tra gli anni Settanta e Ottanta, le discriminazioni subite e la sua voglia di partire: per Gendry Kim nessuna storia sembra poter prescindere dal racconto delle ingiustizie della società, anche quando il segno grafico e il tono si mantengono lievi. Se però fino a ora aveva adattato uno scritto altrui o raccontato la propria esperienza personale, con Le malerbe decide finalmente di presumere la vita di altri. Qui infatti racconta la storia di Yi Okseon, una donna ospite del centro House of Sharing, museo della memoria e rifugio per le “comfort women” ancora in vita. Nel sottotitolo (d’autrice o d’editore?) si precisa come si tratti di «una storia vera», della «testimonianza di una nonna sulle comfort women dell’esercito imperiale giapponese»: il fumetto si presenta così con tanto di ricca bibliografia come un’opera documentaria che, per sua natura, può cercare di raccontare la vita di un altro da sé provando a mettere immagini dove di immagini non ne restano più.

Cominciando con il rientro in Corea di Yi Okseon dalla Cina, paese dove la donna era stata deportata e si era poi stabilita, Le malerbe è prima di tutto proprio la storia dell’incontro di Yi Okseon, in bilico tra rassegnazione e resistenza, con l’autrice, animata da curiosità e voglia di giustizia. I loro dialoghi e il loro tempo insieme sono infatti mostrati nel racconto, in un’alternanza che dall’onnipresente Maus di Art Spiegelman ha fatto scuola; questa scelta rende tangibile il trascorso generazionale, gli anni passati, la volontà dell’autrice di ricreare una connessione calorosa tra epoche diverse e allontanate, di rendere giustizia a una storia comune, di fare quadrato per cercare di creare un futuro migliore (movenze che ricordano quelle di Heimat di Nora Krug).

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L’oscillazione tra passato e presente fa da eco all’alternarsi di grande e piccola storia. Per descrivere il dramma della guerra l’autrice decide di raccontare per intero la vita della donna; fare caso a questa scelta è essenziale per apprezzare la forza e l’originalità dell’opera: solo così, infatti, Gendry Kim può mettere davvero e fino in fondo il dito nella piaga, raccontando tanto il malessere sociale e il disagio culturale da cui è potuta scaturire una simile pratica (questa forma di prostituzione elevata a sistema), quanto come, una volta finita la guerra, ci sia stata e ci sia ancora una grave forma di rimozione e discriminazione. E così, continuando ad oscillare, si ritorna al fatto che Le malerbe si presenta come la storia di un incontro: mettere in scena la memoria – l’azione del ricordo, e del ricordare oggi – è parte piena di un raccontare che non si ferma al dato cronachistico.

La vita di Yi Okseon è un susseguirsi di delusioni e di ingiustizie, e si rimane sguarniti al pensiero che tutta questa sofferenza possa essere racchiusa in una sola vita. Gendry Kim si prende tempo e spazio per raccontare con cura questa storia (il volume conta circa 500 pagine, pur mantenendo un formato sorprendentemente poco ingombrante). Tuttavia, se il libro si legge con facilità non sempre riesce a mantenere un’alta tensione emotiva: è nelle pause del racconto che la storia si rivela più debole, nell’incapacità di assaporarne nel profondo alcuni momenti, forse perché l’autrice esita troppo tra la volontà di restare e quella di scomparire. Quel che però è certo è che si percepisce l’urgenza che Gendry Kim ha provato nel raccontare questa storia, un’urgenza che pervade le pagine e che non lascia indifferenti: il libro, oltre alle ottime intenzioni, ha senza dubbio il merito di coinvolgere il lettore senza affaticarlo, facendo luce su una storia che merita di essere raccontata.

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Al giorno d’oggi spesso sembra che basti una buona storia, preferibilmente engagée, per poter essere pubblicati; l’opera diventa così un luogo di rivendicazione, dove però i buoni propositi contano più della qualità. Gendry Kim fa invece prova anche di una certa ambizione estetica: disegnando in bianco e nero non rinuncia alla varietà, e utilizza carboncino, pennino, pennello a volte morbido a volte secco d’inchiostro. Si concede una grande leggerezza negli intermezzi naturalistici, dove il paesaggio rigoglioso e incombente – debitore della passione dell’autrice per la pittura tradizionale cinese – prende tutto lo spazio e spesso la doppia tavola, unici squarci in una sceneggiatura altrimenti molto regolare.

Nelle figure umane convergono tanto le figure stilizzate ed essenziali di Le chant de mon père quanto la durezza sporcata della drammaticità di Jiseul (si guardino le metamorfosi del volto della protagonista poco sotto); i suoi personaggi spesso rimangono come figure isolate su sfondo monocromo e senza dettagli: l’umano con le sue paure e i suoi sentimenti si prende la scena; sembra sentirsi in questo tanto il modello crudo di Yvan Alagbé quanto quello umanista di Emmanuel Guibert.

L’estetica espressionista che caratterizza molti passaggi del racconto è probabilmente debitrice della formazione europea dell’autrice, ma non porta mai alla rappresentazione della violenza fisica, che è suggerita ma non mostrata. La crudeltà e la cattiveria che caratterizzano le vicende del racconto non possono tuttavia essere indifferenti allo stile, e così spesso si distingue una durezza del tratto forse imperfetta ma che per sgomento può equivalere, nell’immaginario occidentale, a certe immagini dell’Olocausto. Il rapporto del disegno alla brutalità della storia raccontata raggiunge infine un punto di non ritorno quando Gendry Kim si trova di fronte a una sofferenza estrema e indicibile: il disegno in questi casi si fa interamente da parte, la storia dell’altro diventa inimmaginabile, e restano solo vignette colme di nero con testo bianco.

Fig. 4, 5: i volti di di Yi Okseonp.

La produzione di fumetti in Corea è vasta e varia, e rappresenta una tradizione ricca e relativamente antica. In Europa, a parte alcune serie d’avventura legate alla già nota cultura dei manga, si sta dando spazio ai generi più in voga e vicini alla sensibilità occidentale odierna, come il racconto introspettivo o l’indagine storica (si segnala in particolare Ragazze cattive di Ancco, e si spera in una prossima traduzione di Fleur di Park Kun-Woong, da cui peraltro Gendry Kim sembra ricavare il proprio incipit). Guai però a pensarli come un prodotto omologato: se da una parte le generazioni più giovani sono senza dubbio impregnate (anche) di cultura fumettistica occidentale, dall’altra la tradizione orientale ha spesso mostrato come esista una propria via indipendente e originale ai generi appena citati (si pensi per esempio a Gen d’Hiroshima di Keiji Nakazawa o a gran parte delle storie di Yoshiharu Tsuge). Gendry Kim non è la prima autrice a essersi occupata della memoria e della lotta delle donne di conforto, ma il suo impegno globale e la sua autorevolezza hanno fatto di questo fumetto un punto di riferimento immediato.

Lavoro importante di memoria e testimonianza, Le malerbe si fa notare sopra ogni cosa per l’attenzione ai fattori sociali e culturali che sono sempre alla base dei grandi avvenimenti. È attraverso questa sensibilità che si arriva, tra dolore e leggibilità, alla comprensione che la sofferenza umana non conosce nazioni. A un certo punto, per raccontare la fine della Seconda guerra mondiale sul fronte del Pacifico, Gendry Kim e Yi Okseong devono citare l’atrocità delle bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki: potrebbe essere una rapida notazione, e invece il racconto vi si ferma per diverse pagine. Come allo sfruttamento delle donne di conforto hanno partecipato tanto coreani senza scrupoli quanto crudeli aguzzini giapponesi, così la sofferenza della vita di Yi Okseong non è diversa da quella delle vittime di ogni violenza e ingiustizia:

La guerra che verrà non è la prima.
Prima ci sono state altre guerre.
Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti.
Fra i vinti la povera gente faceva la fame.
Fra i vincitori faceva la fame la povera gente egualmente.

(B. Brecht, La guerra che verrà)

 

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