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Negli ultimi anni un numero nutrito di fotografi è tornato a concentrarsi sugli sviluppi dei grandi centri abitati, profondamente modificati, spesso stravolti, dai massicci inurbamenti causati dalla globalizzazione. Se ne parla con Ryan Koopmans, fotografo olandese-canadese e autore del photo-book “Vantage”, di recente pubblicazione.

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In sé, fotografare la città non è un fatto nuovo. La prima fotografia in assoluto, del 1826, ritrae un centro abitato (Saint-Loup-de-Varennes, in Francia); ampiamente fotografati e documentati sono stati gli sviluppi delle città nordamericane ed europee prima e dopo la guerra, poi durante tutta la ripresa economica, fino ad arrivare ai giorni nostri.
Particolarmente rilevante è stata la scuola di Düsseldorf, che negli anni ’70 ha rinnovato un interesse per le cittá con interpreti come Thomas Struth e Andreas Gursky – che Koopmans cita tra i colleghi che sono stati per lui fonte d’ispirazione, insieme all’italiano Luigi Ghirri – fotografi che hanno reso meglio di altri le singolaritá e i pattern specifici della nuova metropoli.
Come i fotografi di reportage costruiscono immagini ricche di vitalitá tra le pieghe insanguinate delle catastrofi, nel caso di questi fotografi, e di Koopmans, la fascinazione estetica è spesso ricercata nella mano invisibile del planning urbano, nei drammatici e rapidissimi processi di trasformazione degli spazi civili. Uno scenario apparentemente liberato dalla diretta presenza umana, dove lo sviluppo e il progresso assomigliano a macro-organismi dotati di vita propria.
La brutalità è il miglior alleato della fotografia? Koopmans risponde  spiegando la natura contraddittoria del viaggio come fotografo: “ci sono luoghi che sono piacevoli secondo il senso tradizionale del termine e altri che rappresentano un enorme potenziale fotografico, ma sono sgradevoli, sono tutto tranne che piacevoli”.
L’opera fotografica di Koopmans si è arricchita soprattutto con quest’ultimo genere di frequentazioni.

Non sono solamente le cittá ad essere ritratte in questo libro dal corpus fotografico eterogeneo che non si presta a un’immediata lettura. Ci sono però elementi ricorrenti: la presenza dell’umano ridotta al suo esoscheletro; l’assenza quasi totale dei soggetti vivi, dei corpi; la tendenza a una prospettiva ampia, remota, siderale. È un paesaggio il cui senso inizia a descernersi solamente da lontano, dall’alto.
Così un giornalista del New Yorker, analizzando l’opera fotografica di Andreas Gurksy, ma fornendo una lettura che potrebbe essere applicata anche alle fotografie di Koopmans: “Ho avuto la sensazione che qualcosa stesse succedendo – che stesse succedendo a me.” E più avanti: “L’oggetto d’indagine è il mondo contemporaneo, visto in modo distaccato, da una certa distanza”. [1] In “Vantage”, ci sono alcune immagini che si assomigliano e sembrano essere nate dallo stesso spirito geometrico, la medesima propensione a rappresentare un principio di equilibrio, di osmosi. Foto che per essere scattate hanno richiesto un punto di osservazione staccato da terra, il tetto di un edificio o il finestrino di un aereo, da cui poter guardare il mondo mentre “la scena si svolge naturalmente”.

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Monroa Harbour – Chicago

Una fotografia mostra il Monroa Harbour, a Chicago. C’è il lago, tagliato da una barriera frangiflutti, di qui molte piccole imbarcazioni affollano lo spazio, di là un veliero solitario. Un’altra foto ritrae la Princess Amalia Wind Farm, i mulini a vento piantati a file, nel mare a largo dell’Olanda. E poi una terza, dove le ruspe si spingono a divorare la riva incontaminata di un corso d’acqua. Mondi separati da membrane, visibili o invisibili, ma soprattutto la presenza di uno territorio vergine in procinto di essere colonizzato, e dove il tempo e lo spazio sembrano fatti della stessa materia.

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Eolic Farm – Nederlands

Sembra esistere una prospettiva oltre la Storia, un punto di vista attraverso il quale gli artefatti umani, dal dettaglio architettonico più minuto a un’intera città, possano riconfluire nella materia indistinta della natura.
È la sensazione che si ha osservando le foto delle città – città nuove di zecca che sembrano già abbandonate o approdate in un’era in cui l’umano non esisterà più. Le avvolge un alone di catastrofe. Per Koopmans: “quando ci si trova nel mondo da fotografare, ci si batte contro un senso schiacciante di sbalordimento e meraviglia. Guardando un soggetto davanti ai tuoi occhi, o sotto di te, lo si fotografa pensando a quanto sia pazzesco e surreale. E più si sale verso l’altro, dove si ha una panoramica del paesaggio e si vedono le costruzioni da lontano, più quella sensazione si amplifica a dismisura. Quando ci si innalza sopra il livello della strada iniziano a farsi largo dei concetti – il passare del tempo, il suo posto nella storia.”
Scorrono in parallelo le parole di Vladimir Nabokov, che in un saggio scrive: “Un oggetto, un oggetto fatto da qualcuno, non esiste in se stesso. Un gabbiano che vola sopra un pacchetto di sigarette abbandonato su una spiaggia non può distinguerlo da una pietra, dalla sabbia, da un pezzetto di alga, poiché in assenza dell’uomo un oggetto torna immediatamente nel grembo della natura.” [2] Così appunto sembrano le città di Koopmans, dai compound dell’English Village a Erbil, in Iraq, alle zone a ultra-densità di Hong Kong, ma anche le abitazioni di Stoccolma, addormentate sotto un velo di ghiaccio: appartenenti all’umano solo per un tempo breve, in attesa di essere spazzate via, di sgretolarsi: “una casa è solo un blocco di pietra quando un uomo la abbandona.” [3]

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English Village, Erbil – Iraq

Riflettere sullo spazio abitato è quindi impossibile senza una riflessione più generale sulla natura o, per meglio dire, su cosa è rimasto di essa. La città contemporanea ha bisogno urgentemente, insieme a nuova edilizia, di aree verdi capaci di renderla vivibile.

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Singapore

In Koopmans emerge spesso un quadro in cui la natura è distrutta e rimpiazzata da un analogo artificiale: i giardini Botanica nell’isola di Sentosa e i monumentali alberi artificiali, entrambi a Singapore, sono un esempio che ricorre con regolarità negli scatti di “Vantage” di una forma particolare di paradosso. Il mondo artificiale che rilegittima quello naturale, il movimento “barocco” che nel XVII secolo era alla base dello stupore e oggi comporta un senso di perdita e di nostalgia. Dice Koopmans: “mi interessano le sfumature e i fenomeni coinvolti nel surrogare il mondo naturale con una formazione, una struttura artificiale. Nel caso di Singapore, penso che le ambizioni [delle istituzioni] siano state soddisfatte, per esempio nel risanare le riserve cittadine di acqua e nel preservare specie di piante indigene, mentre la città si espande diventando una grande e moderna metropoli. […] In molti altri casi il “greening” di spazi ha dei tratti molto più kitsch e che sfruttano l’effetto novità”.

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Astana – Kazakistan

C’è molta Asia, la Cina, il Kazakistan, paesi dove Koopmans ha passato un bel po’ di tempo. Mondi lontani tra loro, ma dove – con tratti e presupposti diversi – il socialismo e il post-socialismo hanno avuto un simile influsso nel dare un’impronta allo sviluppo urbano.

A collection of private villas, factories, apartment blocks, working farmland and construction sites in Huaxi Village, Jiangsu, China’s most densely populated province. Since 2006, Jiangsu has been China’s largest recipient of direct foreign investment.

Una collezione di ville private, fabbriche, condomini, terreni agricoli e cantieri edili nel villaggio di Huaxi, Jiangsu, la provincia più densamente popolata della Cina. Dal 2006, Jiangsu è stato il principale destinatario cinese di investimenti esteri.

Hanno qualcosa in comune il parco dei divertimenti Happy Valley a Shenzen, e i nuovi edifici di Astana? In entrambi si ha l’impressione di avere a che fare con una versione zuckerbäckerstil di Disneyland. È il boom del benessere, la ricerca di una mitologia moderna basata sul progresso, o c’è dell’altro?
Koopmans ci aiuta a fare un distinguo, partendo dalla capitale kazaka. “Astana è particolarmente concentrata nel ripensare e ricostruire l’identità nazionale kazaka e la sua storia culturale nell’era post-sovietica. Lo fa infarcendo di riferimenti culturali la sua architettura e il suo design urbano. Questo serve tra l’altro a sostenere la narrativa che vede il leader Nursultan Nazarbayev come padre della nazione, poiché la sua presenza simbolica è legata a molti aspetti del nuovo paesaggio urbano.
In Cina, diversamente, sono soprattutto i parchi di divertimento a sembrare molto più influenzati dalle nozioni occidentali di progresso ed entertainment. Molti parchi prendono spunto dalla cultura pop americana e dai videogame, e in molti casi intere città sono costruite in modo da ricordare città europee.”

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Hauxi – Cina

Fino a che punto ha senso stupirsi e pensare che questo processo di trasformazione non ci appartenga? E perché queste foto riescono a essere così evocative, in alcuni casi addirittura inquietanti?
Probabilmente ciò dipende dal fatto che il vecchio confine tra naturale e artificiale, nella definizione stessa dell’uomo tecnico, dell’uomo moderno, non è più praticabile, è poroso, confuso, inutilizzabile.
Come ricorda Vilém Flusser: “Gli ambientalisti e gli ecologisti di oggi, che in maniera ostinata continuano a chiamarsi “verdi”, potranno obiettare che un paesaggio trasformato in una Disneyland, un’opera d’arte, non sarà più “naturale”. Ma a pensarci bene, quando l’artificialità fu lanciata quando iniziarono a dissodare i primi campi. La Disneyland del futuro è una sua semplice continuazione. E soprattutto, perché l’arte non può ispirare la natura? Quando ci domandiamo perché i cani non possono essere blu e macchiati di rosso, in realtà ci stiamo interrogando sul ruolo dell’arte nell’immediato futuro.” [4]

Ma sono davvero luoghi in cui si è smarrito il senso del legame tra l’uomo e il suo paesaggio? In “Vantage” Koopmans ha trascritto i racconti e le testimonianze di locali – persone che vivono in quei luoghi – che potessero arricchire la narrazione ed esprimere ciò che non può si dire con le immagini. E si è chiesto a Koopmans se, mentre fotografava, si fosse accorto di infondere a quegli scatti parte del suo immaginario, e se anche le sue storie e la sua formazione possano apparire davanti e dietro alle immagini. Koopmans risponde di sì. “Quell’influenza è qualcosa alla quale do sempre più attenzione con il passare del tempo. Ciò che ho realizzato è che ciò ricerco, visualmente, è una combinazione della mia educazione in Canada, con i suoi spazi naturali vastissimi, e l’iper-organizzato paesaggio industriale olandese. Ci sono addirittura echi dei cartografi dell’epoca d’oro mercantile. Fare ricerche sul lavoro di questi cartografi è stato un motivo d’ispirazione, ci vedo delle analogie tra il loro modo di vedere e come io faccio fotografie.”
Vivere uno spazio vuol dire trasformarlo, quando possibile, in un rifugio, fecondandolo con un ricordo, con la propria voce, con un po’ d’intimità. Questo dicono le facciate dei mostri di cemento di Hong Kong, in cui ogni balcone ha un colore diverso, una tenda, una fila di panni ad asciugare. Dice qualcosa dell’umano che temporaneamente lo occupa.

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Ryan Koopmans (1986) è un fotografo olandese-canadese, interessato in urbanistica e societá. Nato ad Amsterdam nel 1986 e cresciuto in Canada, ha avuto riconoscimenti a livello internazionale (tra gli altri, il Tokyo International Photo Award nel 2016, il World Press Photo di Amsterdam nel 2015 e il NY Photo Award nel 2012) e ha esposto in diversi musei e gallerie.

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Fonti:

1. Tomkins, Calvin. The New Yorker. “The Big Picture.” 22 January 2001.
2. Nabokov, Vladimir. Men and Things. 1928.
3. Ivi.
4. Flusser, Vilém. Artforum 26, n. 8. Aprile 1988.

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