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Oggi pubblichiamo il secondo di tre capitoli di analisi storica dedicati al rapporto tra costruzione dello Stato-nazione italiano e controllo sociale del corpo, dalla nascita del Regno d’Italia fino alla Grande Guerra.
Qui la prima parte. Buona lettura. 

Nel primo capitolo abbiamo visto come la coniugazione tra successo sociale e vigore fisico aumentasse la presa del nuovo stereotipo della società italiana, stereotipo il cui tratto distintivo doveva essere la volizione morale al progresso, alla ricchezza e alla difesa della nazione. Appariva necessario, dunque, controllare che i cittadini si conservassero fisicamente sani e vigorosi, perché «perfezionando convenientemente le loro potenze materiali, tanto più le facoltà superiori acquisteranno condizione acconcia per essere esercitate con frutto, e perfezionate», «più pronte essendo le potenze fisiche ad obbedire ai comandi dell’animo»[1]. La salute, l’esuberanza fisica, la virilità erano considerati valori morali indispensabili per gli individui e per la patria[2]. Anche Francesco De Sanctis, all’indomani della vittoria prussiana a Sedan nel 1870 e ai notevoli risultati ottenuti dalla Germania in campo militare, si fece promotore di una educazione «più virile» tra i giovani italiani, con lo scopo di ottenere soldati migliori.

Per questo motivo, nel maggio 1878, nominato Ministro della Pubblica Istruzione, De Sanctis propose come progetto di legge l’obbligatorietà della ginnastica in tutte le scuole del Regno:

L’insegnamento della ginnastica sia considerato non come un vano passatempo, ma come una istituzione nazionale, fondamento dell’educazione fin dalla prima età, e reso obbligatorio non solo nelle scuole secondarie, ma anche nei corsi magistrali e nell’insegnamento primario, determinando l’obbligo secondo lo spirito della legge del luglio 1877[3].

Il pensiero di De Sanctis, così come quello di altri dirigenti, si fondava su un preciso confronto con le nazioni europee più produttive: Germania e Inghilterra. La Germania, soprattutto, dove il cittadino si sentiva un soldato sempre pronto a sacrificarsi in battaglia per la patria, veniva considerato l’esempio più alto dell’organizzazione educativa a scopi militaristici. Era a questa che l’Italia doveva guardare per l’educazione patriottica attraverso l’istruzione ginnastica militare.
L’ammonimento del ministro De Sanctis, d’altronde, era perentorio:

se dobbiamo ricuperare il posto dovuto alla nostra nazione, stata due volte capo e maestra del mondo, dobbiamo procurare che questi esercizi, messi in correlazione coi metodi educativi dell’intelletto e della volontà, penetrino nei costumi e diventino parte integrante delle nostre feste e delle nostre istituzioni nazionali[4].

La proposta di legge venne favorevolmente accolta in Parlamento; uno dei pochi ad opporsi, Federico Gabelli, ingegnere friulano e fratello del pedagogista Aristide Gabelli, manifestò la sua diffidenza verso la riuscita del progetto, ovvero di creare degli italiani più robusti attraverso l’insegnamento di una «povera ginnastica» e auspicava invece che la popolazione più povera si rinvigorisse cominciando a  mangiare meglio. Al contrario, l’onorevole Antonio Allievi, relatore della Commissione parlamentare, si prefiggeva uno scopo più prosaico di quello di educare lo spirito nazionale dei giovani: si augurava che l’insegnamento della ginnastica fosse una preparazione al servizio militare che era richiesto a tutti i cittadini, in modo che fosse resa più diffusa l’attitudine dei giovani alla leva militare. Questo pensiero si scontrava con ciò in cui credeva De Sanctis, persuaso che dietro al soldato ci fosse l’uomo, uomo che «non si forma né in tre, né in quattro, né in sette anni, l’uomo si forma fin dal principio con un’educazione virile»[5].

L’educazione virile non doveva dunque limitarsi ad aumentare la forza fisica, ma soprattutto rinforzare l’educazione morale di tutte le classi, in modo che la popolazione nel suo complesso potesse capire cosa fosse la patria, l’indipendenza, la disciplina. Pertanto, il Parlamento italiano nella sua totalità sosteneva la proposta di una ginnastica come fonte principale della moralità patriottica e sociale, al servizio di un’educazione etico-militare, il cui massimo scopo fosse di infondere negli italiani i più alti valori del patriottismo.

Con l’avvento del nazionalismo di fine Ottocento il modello di mascolinità si caricò sempre più di caratteristiche «guerriere», venendo a costituire il sostrato su cui sarebbe risorta la nazione[6].
Il «virilismo» come rappresentazione politica fu parte integrante della storia di tutto l’Occidente e se in alcuni paesi si manifestò con modalità più violente, in altri, come in Inghilterra, un vittoriano poteva esporre una mascolinità più sobria e cavalleresca, più «rispettabile»[7].

Il corpo degli uomini, incarnazione dell’adagio mens sana in corpore sano, necessitava tuttavia di norme che ne orientassero lo sviluppo. Secondo la definizione che ne dà George L. Mosse, la virilità fu uno «stereotipo divenuto normativo», attraverso il quale si rappresentava l’insieme armonico di corpo e spirito, apparenza esteriore e virtù interiore[8]. Ma soprattutto la mascolinità divenne lo scudo da anteporre ai pericoli causati dalla modernità; come risposta alle trasformazioni strutturali subite dalla società moderna, lo stereotipo maschile assunse il ruolo di baluardo contro la minaccia ai valori tradizionali delle classi medie[9].

L’industrializzazione e la modernità, le agitazioni operaie e il progresso tecnico, vennero percepiti come causa dello smarrimento di identità acquisite attraverso il processo di acculturazione. Inoltre, il modello normativo della virilità sarebbe stato un argine alla deriva della confusione dei generi, una risposta alle ansie maschili contro un possibile capovolgimento della realtà sociale, individuando nei nuovi movimenti per l’emancipazione femminile una tra le maggiori insidie alla stabilità. Le figure femminili infatti rappresentavano le qualità materne della nazione, come la tradizione e la storia. Esse simboleggiavano i valori antichi che la nazione non voleva perdere e che proclamava come i più cari, mentre all’uomo spettavano le allegorie legate al progresso e all’ordine, oltre alle virtù precipuamente borghesi di moderazione e controllo. Ma l’apparente avanzata femminile nella vita pubblica e nel lavoro, con il conseguente allontanamento dall’intimità della casa e della famiglia, accresceva il timore di un ribaltamento dell’ordine «naturale» che dominava i rapporti sociali e sessuali tra i due sessi. «Femminilizzazione della società» e modernizzazione si rievocavano a vicenda, in una spirale preoccupante, dove la prima rappresentava la prova inattaccabile del potenziale «degenerativo» della modernità[10]. Come soluzione alla pericolosa confusione dei ruoli di genere, si vennero esaltando i tratti più specifici dell’identità maschile.

George Mosse ha indicato nell’ideale greco diffuso da uno degli autori più citati del secondo Settecento, l’archeologo e storico dell’arte J.J. Winckelmann, il riferimento culturale principale del periodo in questione. Winckelmann prese come riferimento le statue greche de-erotizzandole, così da renderle socialmente accettabili e utilizzabili per veicolare nuove istanze politiche. Le sculture a cui faceva riferimento erano soprattutto figure di giovani atleti che erano paradigmi di potenza e virilità, di armonia, proporzione e autocontrollo. Sempre snelli e muscolosi, nulla nel corpo e nel volto lasciava trasparire alcun tipo di difetto che ne turbasse le nobili proporzioni[11].

Winckelmann espresse le sue teorie nelle sue due opere principali: Riflessioni sulla pittura e la scultura dei greci (1755) e la Storia dell’arte nell’antichità (1764). In questi scritti, la sua definizione di bellezza si delineava attorno a tre attributi che per lui corrispondevano a un’anima grande e serena: equilibrio, proporzione e moderazione. L’elemento più importante che evidenziava nelle statue greche come rappresentazione perfetta di una bellezza ideale era la totale assenza di tratti individuali o accidentali, così che la bellezza si potesse ridurre ai suoi principi generali.

Nell’Ottocento, il richiamo alla Grecia e il culto dei nudi scultorei di Winckelmann divennero patrimonio culturale della società borghese. I modelli greci, esempi di bellezza fisica priva di qualsiasi richiamo sessuale, furono l’ideale di quanti riscoprivano il proprio corpo nella fine del secolo XIX[12]. Nei decenni che precedettero la Grande Guerra, l’affermazione della soluzione virilista contribuì a creare un circuito perverso tra aggressività, rafforzamento della virilità, esaltazione della potenza nazionale e disciplinamento gerarchico dei popoli e dei soggetti sociali. Le prospettive imperialiste che emergevano dal consenso verso questi obiettivi erano condivise non solo da una cerchia di uomini alfieri della rigenerazione violenta della mascolinità, ma da tutti coloro, ed erano molti, che condividevano la paura della crisi della virilità. Questo generale clima di timore produsse un’aggressività reattiva che giudicava inevitabili le violenze e addirittura salutare la guerra totale, perché «la guerra era un invito alla virilità»[13].

Anche nell’Italia liberale di fine secolo, questi orientamenti conobbero una forte diffusione. Fin dal 1870, come ha esposto Silvio Lanaro nel suo libro Nazione e lavoro: saggio sulla cultura borghese in Italia, 1870-1925, il campo nazionalista ha avuto una grande capacità nell’orientare le decisioni politiche, poiché «in Italia il nazionalismo post-liberale (imperiale, positivista, popolare) non è un’ideologia di scorta ma l’asse direzionale e il timone di comando della cultura borghese»[14]. Nell’Italia di Giolitti, con le campagne imperialiste e belliciste alla volta della conquista della «quarta sponda», l’entusiasmo per le prospettive colonizzatrici si estendeva ben oltre gli esagitati propugnatori della rigenerazione violenta del maschile, per includere anche masse di uomini estranei all’atto violento o autoritario, ma ugualmente atterriti dalla presunta crisi della virilità[15]. Giolitti, che in patria dopo la stagione crispina e le repressioni del 1898 aveva dato avvio ad una generale «concordia», portò l’Italia alla conquista della Tripolitania e della Cirenaica, imprese la cui esaltazione dilagò oltre i confini del nazionalismo ideologico più stretto e che non si fermò neanche di fronte alle notizie di atrocità che venivano riferite in patria. Alberto Del Boca, in Italiani, brava gente?, riporta i dati di 4.000 morti nella guerra del 1911-12 e altrettanti deportati nelle isole italiane[16].

Lo scenario darwiniano di lotta per la sopravvivenza delle varie razze era delineato anche dagli stessi intellettuali nazionalisti, i quali erano convinti che il singolo dovesse sacrificarsi in nome dell’interesse più grande della nazione, perché quelle nazioni che sacrificavano sé stesse in nome dell’individuo avrebbero finito per perire.

L’imperialismo, il razzismo e il nazionalismo provocarono nell’Italia a cavallo tra Otto e Novecento un’esaltazione sessuata della forza, della gerarchia, della fierezza, i cui riferimenti linguistici tra potenza nazionale e potenza maschile erano solo in apparenza metaforici. Fioccavano, in questo periodo, testi sull’esaltazione della virilità e dell’aggressività maschile sugli esseri considerati «inferiori». Ad esempio, Paolo Mantegazza considerava connaturata alla fisiologia umana della riproduzione la «missione aggressiva dell’uomo»[17]. Alberto Mario Banti in L’onore della nazione. Identità sessuali e violenza nel nazionalismo europeo dal XVIII secolo alla Grande Guerra, descrive come fosse ricorrente tra i nazionalisti europei di fine Ottocento «una fortissima e talora soffocante estetizzazione della violenza (e della violenza sessuale) nutrita di un’aggressività virilista e misogina che sconfina facilmente nel morboso, nella pornografia, quasi»[18]. La violenza maschile veniva giustificata sia in ambito domestico che nel campo di battaglia, in quanto entrambi i luoghi erano immersi in un senso dell’onore che rendeva accettabile e quasi inevitabile l’utilizzo della forza. L’integrità virile era salvaguardata dalla sintesi che si faceva tra guerra, violenza, sessualità e armi[19]; la «militarizzazione della mascolinità»[20] portò a considerare la guerra, come lo sport, un’iniziazione alla virilità.

Così come in altri paesi europei, nell’Italia liberale la virilità simbolica trovò nel duello uno strumento per la risoluzione dei contrasti. Sebbene questa fosse ormai una pratica desueta nella seconda metà dell’Ottocento è possibile comunque rimarcarne un’alta incidenza nella giovane borghesia: i rampolli delle famiglie delle classi medie ritenevano il duello non più un modo di risolvere le contese (ossia nell’originale funzione pratica), ma un palco per dimostrare la propria virilità. Il duello, un combattimento cruento in difesa dell’onore, venne associato al coraggio e al sangue freddo: chi si sfidava metteva in mostra vigore fisico, abilità tecnica, coraggio e sprezzo del pericolo, le caratteristiche cardine della definizione della mascolinità. L’istituto del duello (talmente rilevante che il codice penale sardo, nel 1859, lo aveva depenalizzato[21]) si rifaceva agli ideali cavallereschi dell’aristocrazia, dove coraggio e ardimento si univano alla compassione, alla lealtà e alla nobilitazione per via dell’amore puro di una donna. Per esempio, in alcuni paesi europei come la Germania, dove il ceto signorile degli Junker mantenne ancora il controllo dello stato tedesco fin dopo la fine del secolo XIX, nel periodo di transizione tra l’ancien régime e uno stato burocratico, alcune forme della maschilità tipica della nobiltà terriera vennero trasmesse agli uomini delle borghesie[22]. Le caratteristiche dell’ideale aristocratico attenuarono gli aspetti più cruenti della mascolinità, caricando di imperativi morali il costituente modello di virilità secondo la sensibilità borghese. Il coraggio, il sangue freddo, l’orgoglio, il senso della giustizia andarono ad arricchire la mascolinità moderna, in quanto la borghesia, nonostante la persistenza degli ideali aristocratici tradizionali, pretese il rispetto della giustizia: per cui ci si aspettava sempre di più che il duello si concludesse con una stretta di mano tra i contendenti e non con la morte di uno dei due. Il duello diventava sempre di più un «esercizio formativo del carattere» e si univa così al campo della nascente educazione ginnastica improntata ad una militarizzazione nazionale capace di mobilitare i propri cittadini alla guerra[23].

Proprio in questi anni infatti affiorava l’idea di una politica a cui veniva concesso di invadere ogni sfera dell’individuo, per plasmarlo e rimodellarlo, divenuto ormai suddito di un potere superiore a cui doveva assoggettarsi per agevolare il conseguimento di un disegno ideologico più grande. Per questo motivo ogni aspetto della vita era considerata influenzabile, dalla coscienza al corpo, dalla sessualità alla rispettabilità. Questo divenne il compito della nazione: ridefinire le rappresentazioni della mascolinità per realizzare quell’opera di virilizzazione degli italiani che avrebbe permesso lo scontro con le altre potenze europee. Il risanamento sociale non fu solo obiettivo dello Stato, ma vi miravano anche molti movimenti che si richiamavano alla potenza della nazione, all’italianismo, all’attivismo e al giovanilismo[24].

Veniva dunque rifiutata dai movimenti di radicalismo nazionale la mentalità borghese, tacciata di passività e mancanza di eroismo: l’uomo virile era coraggioso, pieno di ardimento, pronto all’azione[25]. Ciò che veniva attaccato non era il borghese in quanto classe sociale, piuttosto lo stereotipo del borghese meschino, attento solo al proprio tornaconto individuale, promotore dell’umanitarismo e del pacifismo, inabile alla forza. Mollezza, ozio ed egoismo erano attributi che erano associati all’uomo della classe media e che venivano rifiutati dai giovani in quella che prese le forme di una rivolta generazionale: vennero ripudiati insomma i valori dei padri, poiché virilità significava vigore e giovinezza, così come venne ripudiato l’effeminato, o qualsiasi rappresentazione «delicata» della mascolinità.

[1] Alfani, A., Il carattere degli italiani, Firenze, Barbera, 1878, p. 259, cit. in Bonetta, op. cit., p. 91.

[2]Benadusi, L., Il nemico dell’uomo nuovo. L’omosessualità nell’esperimento totalitario fascista, Milano, Feltrinelli, 2005, p. 13.

[3]Bonetta, G., Corpo e nazione. L’educazione ginnastica, igienica e sessuale nell’Italia liberale, Milano, Franco Angeli, 1990, p. 82.

[4]Bonetta, G., op. cit., pp. 82-83.

[5]Bonetta, G., op. cit., p. 84.

[6]Benadusi, L., Il nemico dell’uomo nuovo. L’omosessualità nell’esperimento totalitario fascista, Milano, Feltrinelli, 2005, p. 14-16

[7]Bellassai,  S., L’invenzione  della  virilità. Politica  e  immaginario  maschile  nell’Italia  contemporanea, Roma, Carocci, 2011, p. 30.

[8]Mosse, G.L., L’immagine dell’uomo. Lo stereotipo maschile nell’epoca moderna, Torino, Einaudi, 1997, 4-5.

[9]Mosse, G.L., op. cit., p. 9

[10]Bellassai, S., L’invenzione  della  virilità. Politica  e  immaginario  maschile  nell’Italia  contemporanea, Roma, Carocci, 2011, pp. 41-43

[11]Mosse, G.L., L’immagine dell’uomo. Lo stereotipo maschile nell’epoca moderna, Torino, Einaudi, 1997, pp. 35-36.

[12]Mosse, G.L., Sessualità e nazionalismo. Mentalità borghese e rispettabilità, Roma-Bari, Laterza, 1984, p. 54

[13]Bellassai,  S.,  L’invenzione  della  virilità. Politica  e  immaginario  maschile  nell’Italia  contemporanea, Roma, Carocci, 2011, p. 31; Mosse, G.L., Sessualità e nazionalismo. Mentalità borghese e rispettabilità, Roma-Bari, Laterza, 1984, p. 129.

[14]Lanaro, S., Nazione e lavoro: saggio sulla cultura borghese in Italia, 1870-1925, Venezia, Marsilio Editori, 1979, pp. 85-87.

[15]Bellassai,  S., L’invenzione  della  virilità. Politica  e  immaginario  maschile  nell’Italia  contemporanea, Roma, Carocci, 2011, p. 31.

[16]Del Boca, A., Italiani, brava gente? Un mito duro a morire, Vicenza, Neri Pozza, 2005, pp. 105-123

[17]Bonetta, G., Corpo e nazione. L’educazione ginnastica, igienica e sessuale nell’Italia liberale, Milano, Franco Angeli, 1990, p. 344.

[18]Banti, A. M., L’onore della nazione. Identità sessuali e violenza nel nazionalismo europeo dal XVIII secolo alla Grande Guerra, Torino, Einaudi, 2005, p. XII

[19]Bellassai, S., L’invenzione della virilità. Politica e immaginario maschile nell’Italia contemporanea, Roma, Carocci, 2011, pp. 49-54.

[20]Mosse aggiunge che nella formazione del corpo maschile veniva introdotto un elemento messianico che non l’avrebbe più abbandonato, tanto da rimanere intrinseca nell’idea del vero uomo il sottostare ad un ideale superiore, come il servizio alla patria e la difesa della nazione. Mosse, G.L., L’immagine dell’uomo. Lo stereotipo maschile nell’epoca moderna, Torino, Einaudi, 1997, p. 58.

[21]A tale pratica veniva dedicata la Sezione VII del Libro II del Codice penale sardo: gli articoli dal 588 al 595 stabilivano una pena che arrivava a circa un anno qualora fosse succeduta la morte ad esso; diminuita a sei mesi di carcere se al duello erano derivate solo ferite; e solo un mese per entrambi gli sfidanti, nel caso in cui al duello non fosse derivata alcuna ferita. Addirittura, in tutti i casi contemplati, la pena del carcere poteva essere commutata in quella del confino. Codice penale per gli Stati di S.M. il Re di Sardegna, Torino, Stamperia Reale, 1859, pp. 177-179.

[22]Connell, R. W., Maschilità. Identità e trasformazioni del maschio occidentale, Milano, Feltrinelli, 1996, p. 141-142.

[23]Mosse, G.L., L’immagine dell’uomo. Lo stereotipo maschile nell’epoca moderna, Torino, Einaudi, 1997, pp. 26-27; Cfr. Bellassai, S., L’invenzione della virilità. Politica e immaginario maschile nell’Italia contemporanea, Roma, Carocci, 2011, pp. 55-56.

[24]Benadusi, L., Il nemico dell’uomo nuovo. L’omosessualità nell’esperimento totalitario fascista, Milano, Feltrinelli, 2005, pp. 16-17

[25]Benadusi, L., Il nemico dell’uomo nuovo. L’omosessualità nell’esperimento totalitario fascista, Milano, Feltrinelli, 2005, pp. 22-23

 

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↔ In alto: Francesco Hayez, Sansone (dettaglio), 1811-1881 ca.

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