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Nell’immaginario narrativo colombiano si accavallano due strade, quella che deriva dal realismo magico del colosso García Márquez e quella onnipresente della violenza, enfatizzata dalla cronaca delle imprese narcos ed esaltata di recente anche dal linguaggio delle serie tv, in grado di trasformare uomini in personaggi a cui affezionarsi, come succedeva con i membri della famiglia Buendía.

Con Heridas. Ventidue racconti dalla Colombia (2019) la casa editrice Gran Via sceglie una prospettiva nuova e differente sul mondo letterario colombiano, offrendo alla lettura le storie di autori diversi tra loro e soprattutto da quel che da loro ci si attenderebbe.

L’antologia contiene appunto ventidue racconti di altrettanti autori nati tra gli anni ‘70 e ‘80, figli della cultura letteraria tradizionale latinoamericana e fratelli della narrativa della violenza, che vivono e imparano in maniera però personale e differente. Come spiega César Mackenzie, uno degli autori della raccolta, «in un modo o nell’altro, nessuno è potuto sfuggire alla storia colombiana (come vittima o come testimone), ma ciò non ha impedito l’esplorazione di altri temi nella nostra scrittura» E probabilmente è «l’avversione per la grottesca caricatura che ha plasmato l’identità nazionale», come sostiene Orlando Echeverri Benedetti, che ha portato alla costruzione di narrazioni costellate di heridas, ferite di ogni tipo.

Nonostante la volontà di distacco dagli stereotipi colombiani e la necessità di creare storie ad esclusiva propria immagine, senza interferenze sociali e tradizionali, in ognuno dei racconti pubblicati da Gran Via emergono, in modo quasi implicito, gli elementi del surreale e della violenza in una chiave nuova, frutto della reinterpretazione di ciascun autore.

Credo che, sfortunatamente, noi autori colombiani non siamo stati in grado di sfuggirle, in gran parte perché il nostro stesso Paese non ha saputo farlo. La mia generazione si è però dedicata al compito di non giacere come vittima, di non limitarsi a rappresentare la violenza, ma di metterla in discussione, riscriverla. Piuttosto che codificarla, la vogliamo decifrare. (Humberto Ballestros)

Se si dovesse scegliere di unificare tutti gli autori sotto un’unica insegna sarebbe difficile, perché ognuno di loro fa scelte narrative diverse e adotta uno stile differente, più o meno inconsapevole rispetto a quello degli altri. Ma allo stesso tempo ognuno di loro sembra aver operato comunque una scelta, quella di proiettare all’esterno, tramite il racconto, qualcosa di personale, proprio o altrui ma che resta intimo, uno svelarsi di sentimenti o emozioni o veri e propri fatti, che suonano come successi sul serio e che spesso travalicano il contesto in cui avvengono per acquisire forza neutrale o universale.

Prova e conferma del movimento verso una direzione scelta e intimista sta nel titolo originale della raccolta, Punalada trapera, ad indicare la pugnalata alle spalle assestata da questi scrittori alla tradizione e ai suoi racconti. Il risultato è che in Heridas troviamo tracce del surreale che non è necessariamente eredità del real meravilloso di Marquez. Come in La bambina, in cui Daniel Villabon racconta di un uomo e di una bambina apparsa dal nulla. O in quello del già citato Mackenzie, Un’attività tutta mia, in cui una donna immigrata a Bogotà esce la mattina con il carrello per vendere uova e caffè e rientra la sera a casa con lo stesso carrello e un neonato al posto della merce.

Tracce indelebili di piccole forme di violenza si trovano invece in Cinghiali di Antonio Garcia Àngel, dove gli animali sono metafora delle emozioni o in Educazione sentimentale di Luis Noriega in cui la paura del tradimento altrui finisce col tradire se stessi; oppure in Fuoco nel ventre in cui Echeverri Benedetti segue il percorso di una donna attorniata dalla morte che cerca il senso della propria origine.

Perché in questa come in ogni generazione la violenza non è solo droga, narcotraffico, omicidio. Violenza è una possibile attività quotidiana, un gesto inconsapevole. È tradimento e abbandono, dimenticarsi dell’altro, seguire una stupida e ottusa ambizione, vomitare d’invidia, rinunciare all’amore.

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