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Walter Benjamin e Tullio Pericoli sul farsi del mondo

La forza dell’effetto di una parola suscitata dal suo semema consiste nella struttura a spirale attraverso cui la parola attira qualche cosa. La parola è un condensatore della volontà, un condensatore dell’attenzione, un condensatore dell’intera vita dell’anima.”
Pavel A. Florenskij, Il valore magico della parola

“L’artista autentico esige da sé solo l’oggettivamente bello, cioè la configurazione secondo arte della verità delle cose.”
Pavel A. Florenskij, Le porte regali

«Scritture magre»

«Scritture magre»

Sul farsi della verità

«Tullio Pericoli è uno di quei rarissimi artisti capaci di comprimere tutta l’esistenza, la ricerca, il percorso, il viaggio, il naufragio e il ritorno in terra natia (la morte?) in un gesto – come fosse un gesto di divina onnipotenza –, programmatico e definitivo, che dispieghi, con tutta la sua perfezione magica, il significato di una vita, della vita intera, “il suon di lei”». Così concludevo il mio «Tullio Pericoli, umile naufrago dell’infinito», in cui ho cercato di dipingere, con la parola, i tratti caratteristici di questo eccezionale artista attraverso la sua opera, componendone un ritratto quanto più profondo e “pericoliano” mi fosse possibile. Una delle qualità che ho tentato di far emergere è la sua capacità, straordinaria e unica, di sintesi dell’immagine con il linguaggio, del ritratto con il paesaggio; quasi un incantesimo, reso possibile, secondo me, grazie al suo florenskijano «vivere in modo autentico» come punto di partenza, condizione essenziale per compiere il gesto di cui sopra. Quel modo di essere al mondo che l’arciprete filosofo russo Pavel A. Florenskij pone come unico vero significato del «vivere», allo stesso identico modo di quella che chiama «vita artistica» piuttosto che pratica o ancora peggio: carriera.

Allora non conoscevo Tullio, personalmente. Eppure, avevo già intuito certe sue qualità personali e intime, giacché la sua opera parla di questo. Parla di un «artista autentico» poiché parla di un uomo autentico. Vi basterà leggere Le porte regali (Adelphi, 1977; Marsilio, 2018) di Florenskij, per sapere cosa può voler dire essere questa forma di artista, incarnare questa specie di uomo. Disceso direttamente dagli angeli. In seguito alla pubblicazione del testo, di cui sopra ho ripreso le ultime righe, conobbi Tullio e alcune cose che avevo scritto le potei toccare con mano. Oggi riprendo il discorso, arricchito. Lo proseguo poiché da qualche settimana è possibile trovare nelle nostre librerie un libriccino fresco di stampa, molto importante, prezioso. Un altro «infinito minimo» alla Pericoli. È stato intitolato Sul farsi del mondo ed è una delle meraviglie editoriali dell’editore Henry Beyle (di cui consiglio anche: Storie della mia matita, sempre di Tullio Pericoli – tutto il catalogo, comunque, è una wunderkammer senza fondo). Al suo interno troviamo due brevissimi frammenti di Walter Benjamin («La strana storia di quando gli uomini non c’erano ancora» e «Come fu inventata la barca e perché si chiama “barca”») in lingua originale, affiancati dalla traduzione in italiano di Elisabetta Dell’Anna Ciancia. «Oggettivamente bella», come direbbe Florenskij. A seguire possiamo leggere un breve saggio di Tullio Pericoli, «Sul farsi», da conservare assieme a quei testi che ogni artista autentico dovrebbe tenere sul comodino, vicino ai diari di Klee. Il tutto è fuso insieme – come forme e colori sulla tela – a nove recenti acquerelli dipinti appositamente da Pericoli.

Ricordo perfettamente quando, seduto davanti all’enorme tavolo di legno nel suo studio, sfogliavo con lentezza i fogli di carta (che ora so chiamarsi Amatruda, grazie al testo di Pericoli, in cui la definisce «generosa e accogliente»). Una superficie spessa e rugosa, per la mia mano inesperta, sulla quale potevo vedere l’ennesimo approdo di Tullio, un nuovo cambiamento, l’ulteriore metamorfosi. Dissi pochissime cose, tanto ero allibito e senza fiato, rallentato come di fronte a una visione estatica. Su quei fogli c’era un primitivismo calligrafico che descriveva la morte: il paesaggio interiore del niente che si fa tutto e poi torna niente. Una condizione di sospensione assoluta, dell’interminabile «farsi» di tutte le cose autentiche. L’interminabile farsi dell’Opera.

«A quel tempo la Terra non era ancora solida, era tutta una palude, somigliava a un impasto molto bagnato». Queste sono le parole iniziali del primo racconto di Walter Benjamin presentato in questo libro. Sono poste immediatamente dopo le immagini che riproducono i disegni terrosi di «Scritture magre» e «Terre vive». Forme e lettere sono materie che si parlano. Gli acquerelli ci mostrano la «palude», le chiazze di nero ci riportano alla condizione della Terra che precede la vita, a «un impasto molto bagnato» di materia oscura che inizia a prendere forma concreta, a esistere – a farsi, appunto. «Ma c’erano ancora dei grumi sulla Terra – una specie di impasto per formine molto molto appiccicoso» posato sulla carta sulla quale Pericoli esegue la sua creazione. «Un foglio di questa carta», ci dice nel testo che troveremo alla fine del libro, «bagnato a lungo e appoggiato sul piano di un tavolo da quel momento comincia a rivivere». Il processo del farsi del mondo, descritto in questo racconto, dalla penna agile e arguta di Benjamin, diventa così il processo del «rivivere» della carta attraverso il gesto di dipingere ad acquerello di Pericoli. E mi torna in mente la sua figura, a fianco a me prono sui fogli. Ci sono delle cose che senza pratica non si possono cogliere: solo un pittore può comprendere il gesto di un altro pittore. Bisogna aver bagnato un acquerello per capire la dinamica dell’esecuzione di queste immagini e apprezzare il gesto che le precede. Come bisogna aver stampato una foto per capire la fotografia e aver redatto un testo per potersi figurare il Manganelli nell’atto di mettersi a caccia di un termine tra le pagine del suo Premoli.

Tullio, quella volta, ha tentato di spiegarmi cosa vuol dire bagnare un foglio dipinto ad acquerello: a me è sembrato di ascoltare un alchimista. Ci ho capito ben poco, eppure mi è parso di riuscire a coglierne l’autenticità vitale, del gesto artistico come lo concepiva Florenskij. Quel «mitridatizzare l’infinito» di cui parlava Tabucchi. Una pratica magica simile all’incanto che ha preceduto il farsi del mondo. Se vogliamo. Ogni creazione è un ripetersi della Creazione, un suo seme che germoglia. Il riverbero infinito dell’universo.

«Quando ho cominciato a fare questa serie di acquerelli pensavo alle forme del mondo, alle terre e alle regioni che lo hanno disegnato. E alle parole, ai segni e agli alfabeti che lo hanno costruito». Da questo meditare nascono «Giunture», «Terre secche», «Terre separate», «Centri senza centro», «Vicoli misteriosi», le opere che seguono i testi creando un connubio di significati che divampa e si accende di senso. Ci sono «le terre» e «i segni»; «gli alfabeti» emergono nelle forme di un tratteggiare ossessivo, primevo, ripetitivo come la terra; disegnano mappe di simboli risalenti alla preistoria, percorse da sentieri e confini; larghe linee – che man mano si colorano – attraversano e dividono i segni, i simboli dell’esistente; i segni che riempiono le terre del mondo corrispondono agli uomini che cominciano a essere sulla terra. E si identificano, s’incarnano poi – per transustanziazione – negli uomini di Benjamin. Lo stesso Pericoli ne è sorpreso: «Non pensavo che le immagini che andavo tracciando, affiancate a un gruppo di parole che allora non conoscevo, ne avrebbero ricevuto una diversa definizione, più ricca e, secondo me, più vera; e non so se qualcosa e cosa sia accaduto alle parole»; le parole si sono lasciate colorare e ridefinire, e arricchire, dai magnifici acquerelli di Pericoli, come la carta stessa e come, viceversa, le immagini dalle parole. Immergendosi le une nelle altre possono finalmente rivivere.

Non c’è separazione tra le parti di questo libro, è un testo da guardare nella sua interezza come un’opera editoriale che diventa artistica e dimostra che si può fare dell’editoria un’arte, un’arte della composizione e della cura.

«In un disegno, quando è sul farsi, tutto può accadere» di questo tratta il libro in questione: Sul farsi del mondo è un testo multimediale e multidisciplinare sul processo di creazione artistica come cammino vitale dell’esistente, come il lavoro interiore di ognuno di noi che rispecchia il farsi dell’universo tutto e lo coglie e ne è la sua manifestazione, il suo riflesso.

Gli uomini, nel racconto perfetto e geniale di Benjamin, si formano guardando agli angeli e gli angeli divengono uomini guardando agli uomini. Come dire che l’uomo si fa uomo osservando l’universo. La cosa sconvolgente – e tuttavia logica – è che l’universo (nella metafora angelica) si fa umano guardando noi uomini. Così Pericoli si fa Pericoli guardando Benjamin e Benjamin si fa Pericoli guardando Pericoli. Perdonatemi la complicatezza, voglio dire che Pericoli lo ha fatto di nuovo: ha rubato, come aveva fatto con Paul Klee e con Defoe e Stevenson e Tabucchi e Manganelli e chissà quanti altri (vd. «Tullio, umile naufrago dell’infinito»). Col tempo il processo si è raffinato, sempre nella stessa direzione. Immagini e parole – e una serie di altri mondi e tempi – si uniscono qui in una mescolatura, una mistura alchemica che può trasformare tutto in oro. Ed è così che questi due frammenti deliziosi e profondi come la tana del pallido roditore, si fanno cosmogonia e diventano un’opera minuscola e interminabile, un infinito mitridatizzato.

L’opera viva

Un’altra volta, eravamo sempre seduti a quel tavolone, stavolta l’uno di fronte all’altro, illuminati da una luce fioca diretta sul tavolo, una lampada discesa dal soffitto riempiva il piano di legno e svelava i nostri volti solo nel momento in cui ci sporgevamo, l’uno verso l’altro. Una luce da cinema. Di quelle che generano l’ombra tutt’attorno, nella quale ci si può nascondere. Tullio, non ricordo perché, mi stava raccontando di quando prese il brevetto nautico. Si tratta di un esame, almeno per quanto riguarda il lato teorico, parecchio complesso, poiché bisogna innanzitutto apprendere un linguaggio tecnico altamente specifico, spesso poco familiare o addirittura apparentemente illogico. Mi ricordo che mi disse che di quello studio gli era rimasta impressa soltanto una cosa: la nomenclatura delle parti della barca, se la si divide in due, considerando la separazione generata dalla linea di galleggiamento. Tutto quanto sta fuori dall’acqua, emerso oltre la superficie, visibile, si chiama «opera morta»; mentre quanto rimane immerso, sotto il livello dell’acqua, invisibile o sfocato, è denominato «opera viva». Lo incuriosiva il controsenso: ci si aspetterebbe che l’opera viva corrisponda alla parte situata sopra il livello dell’acqua, piuttosto che il contrario. E lo appassionava l’eccezionale metafora che si può generare se si accosta questo concetto all’opera artistica – e alla vita, anche, come si è detto. Quello che mi stava dicendo è che ciò che vediamo dell’opera è la parte morta, la parte “fissata”. Quando invece la parte più viva è quella che non possiamo vedere. A molti ricorderà l’iceberg di Hemingway, immagino. Eppure, la metafora pericoliana nasconde dei lati ancor più complessi: il timone sta nella parte viva, così come la sottocoperta, i motori, la chiglia. Viceversa, la parte morta presenta le vele. Attenzione: l’opera morta funziona grazie al buon governo dell’opera viva. L’opera viva, invece, prescinde da quanto succede al di sopra della superficie, non ne è dipendente in alcun modo. Soltanto un timonista esperto può far volare le vele sull’acqua come le ali di un angelo. Tuttavia, le sole ali non bastano a planare sull’acqua.

«Fu allora che, per la prima volta, l’Angelo si abbassò a scendere sulla Terra; aveva ali di ferro, e si guardò intorno. E allora Dio spruzzò di nuovo sulla Terra qualcosa di molto bagnato, e tutto ridiventò palude e lago e mare», ricominciamo: i testi benjaminiani, a contatto con gli acquerelli, si trasformano nella descrizione dell’atto di dipingere. Pericoli diventa quel dio che spruzza colore e intinge il foglio-la terra nell’acqua per farlo rivivere. «C’è sempre uno strano coinvolgimento tra l’opera dipinta e la parola» conferma lui stesso, «la parola, quando si manifesta, si amplifica e espande il suo senso o il suo significato su tutto quello che le cade vicino, imponendo tutte le volte cambiamenti più o meno profondi».

Io l’ho potuto scoprire come un’illuminazione, ho sussultato quando ho letto la storia della nascita dell’essere umano scritta da Benjamin. «Da quei grumi» di cui abbiamo già parlato, dalla palude, dal mondo informe «si formarono gli uomini» e «il primo fu un signore che si chiamava Barca». Si chiamava Barca! Ho pensato subito: cosa avrà provato Tullio a leggere del primo essere umano benjaminiano che si chiamava Barca? Si sarà ricordato dei suoi studi nautici? Non si può immaginare la mia reazione quando poi ho letto il secondo racconto, ancor più breve: «Come fu inventata la barca e perché si chiama “barca”». Parla di lui, del primo uomo sulla terra, il signor Barca.

«Prima di tutti gli altri uomini ne visse uno che si chiamava Barca» e, come si può facilmente intuire leggendo il titolo, egli fu l’inventore della «barca», «l’uomo Barca voleva viaggiare sull’acqua – a quel tempo, devi sapere, c’era molta più acqua di oggi» scrive Benjamin. La trovata geniale, per la quale sono qui a raccontarvi del brevetto nautico di Tullio Pericoli, è che per navigare il mare «l’uomo di nome Barca, il primo uomo, aveva fatto di se stesso una barca» ovvero quanto è espresso nella metafora nautica che Tullio mi aveva fatto notare e che lui, per risonanza, aveva colto nel corso dei suoi studi sulla navigazione. Noi siamo barche e ciò che sembra nascosto, quasi invisibile, è il cuore pulsante della nostra esistenza, ciò che segna la direzione dei nostri sguardi e muove le nostre scelte come vele, tracciando i nostri percorsi, l’infinito dal quale emergono le forme. Un infinito magmatico, sempre «sul farsi».

Solo così possiamo cogliere il senso del percorso pericoliano, di nuovo, facendo un passetto in più, e attraverso la sua opera ripensare il significato dei frammenti di Walter Benjamin e forse dell’opera d’arte in generale e della vita stessa: «il farsi di un’opera non si esaurisce nel tempo materiale della sua esecuzione. Come sappiamo ogni opera è interminabile», allo stesso modo il mondo di Benjamin è in costruzione perenne, il suo racconto termina con moli e statue di angeli che s’innalzano e con l’invenzione dei lampioni. Opere morte, immagini fissate dell’Opera viva sempre in divenire, nel suo interminabile «farsi». Vedendola da questa prospettiva l’ultimo acquerello s’illumina di senso: s’intitola «Niente è inerte» ed è un immenso cielo dell’anima. Un cielo limpido in tumulto.

In questo senso il primo uomo benjaminiano nomina le cose – nella sineddoche della barca – a sua immagine. Così, nomina se stesso. «La parola è un condensatore dell’intera vita dell’anima» suggerisce Florenskij. Ed è grazie a questo modus operandi che Pericoli riesce a porgere le vele al vento, ovvero alla parola, e a mostrarci manovre nautiche da vero comandante di lungo corso. Dobbiamo saperlo, però, che tutto ciò che vediamo avviene sott’acqua, «è interminabile» e guarda alle profondità dell’abisso e per ciò, solo per tramite di quanto avviene nel subacqueo, la barca può «viaggiare sull’acqua» e arrivare ovunque, finanche all’unica, metamorfica e indicibile «verità delle cose». Noi possiamo vederne le ali e, come l’uomo benjaminiano, fermarci a guardarle e lasciarci ispirare, per provare a imparare l’esempio, e intuire cosa significhi il volo degli angeli.

«Niente è inerte»

«Niente è inerte»

 

↑ Si ringraziano Tullio Pericoli e l’editore Henry Beyle per la gentile concessione della riproduzione delle immagini: «Sul farsi» (2019, acquerello e inchiostro su carta, 45 x 45 cm), «Scritture magre» (2019, acquerello e inchiostro su carta, 45 x 45 cm) e «Niente è inerte» (2019, acquerello e inchiostro su carta, 45 x 45 cm).

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