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Quanto segue è ispirato a recensioni vere. Le recensioni vere non sono molto ispirate.

Grande nostalgia per il film che tutto il mondo ci invidia, formula televisiva mollicosa tesa a rimarcare la validità di un film che non ti devi perdere, parla proprio di noi, di quello che siamo diventati. Una volta qui era tutto un alto contro basso, la polarizzazione dei gusti culturali garantiva identità e perché no, possibilità lavorative. Oggi il prodotto viene divorato, caricato di parole e suggestioni prima di ridurlo al sempre attuale, e ritagliarsi serenità di giudizio diventa via via più complicato, vista la quantità di offerta in giro. Il contagio è rapidissimo, per esempio ci si prende una bella cotta per un film, si snocciolano deboli fenomenologie in un movimento d’opinione che non ammette critiche, almeno nelle prime settimane: il film del decennio, l’opera che più di tutte, finalmente un film che.

Con un po’ di malizia si è portati a pensare a un’onda mossa in primis dal corporativismo romano, tra addetti ai lavori e squali da monolocale vicino Termini; con più probabilità le bolle si agitano da sole, dipende dal momento, dalla frase giusta, dagli accostamenti vincenti. E allora, senza dilungarsi ulteriormente, eccoci infine a Favolacce, presto definito metafora di, dagherrotipo – la nuova parola della critica media, via d’uscita sorniona dal sempliciotto film che scava coraggioso, ovviamente nuovo e sul podio, stoica, multiuso: disturbante. Ti accorgi di essere a fine corsa quando arriva The Vision con tal prodotto culturale è, ecco perché: tutto quello che hai letto fino a quel momento è così staccato dall’oggetto di cui si parla che alla fine rimani con in mano espressioni poco chiare, un’impanata sociologia pasoliniana, parole-contenitori, entusiasmi a secco che rischiano non solo di farti perdere il filo di un possibile discorso attorno al film, ma che in definitiva ti annoiano a morte.

Struggenti le recensioni di Favolacce, irresistibili quelle dall’incipit alla Lucarelli: «Siamo tra le villette di Spinaceto», «Siamo a Casal Palocco», no: «tra Spinaceto e Casal Palocco», meno specifico ma più democratico; procediamo con l’ingenua «a Spinaceto, vicino Casal Palocco», l’interdimensionale e spassosissimo «Spinaceto stargate di un universo peggiorativo», povera nostra Roma Sud intrappolata nel «vortice di Spinaceto» – una delle più belle –, arrivando alla disonestà intellettuale dell’ormai fuori controllo non luogo, luogo dell’anima e turbo decadenza annessa.

Insomma, siamo dalle parti della Spinaceto dentro di noi, siamo tutti Spinaceto in qualche modo, non prima del «Sì Spinaceto, ma potrebbe essere qualsiasi altra periferia», sostanzialmente il parla di tutti noi digi-evolve geolocalizzandosi. E poi via con le maledettissime villette a schiera, queste sì luoghi immaginifici, sospesi, ma non in forza di un lirismo da tinello, bensì per il fatto che le villette a schiera, come hanno sottolineato in tanti, a Spinaceto semplicemente non esistono. Che poi si sa, villetta uguale morte, casa di due piani uguale inedia di destra, forse è vero, basta che ci risparmiate l’altro cancerogeno storytelling del precario che abita oggi a Testaccio, che è un po’ come infilare Margherita Buy in un capitolo della Marvel. Tutta una confusione di sobborghi, periferie, confini, persino litorale, per carità, il litorale romano di Casal Bernocchi supponiamo, le splendide acque di Malafede. Si stagliano sopra tutto questo i famigerati «bordi di Roma», neanche fosse il nastro di Möbius, e collassa un intero universo d’interrogativi urbanistici, geografici e letterari, con quel senso d’inquietudine che accompagna la sola domanda di buon senso che rimane a chi legge: ma come vive gli spazi chi dice di aver visto tutto Haneke? Non dormo da tre giorni, la probabile replica, nonché refrain social di utenti e recensori esteti, forse le macerie psicologiche della quarantena scambiate per angoscia culturale.

Il feticismo per il realismo di borgata (ma che borgata è Spinaceto? Spinaceto come Magliana? Dogman contro Nanni Moretti? Con spruzzata di litorale alla Carlo Sironi? Facciamolo ‘sto meme) non lascia superstiti: il tema gode di largo consenso. «Andate a vederlo», invitava il mandarinato cinematografaro. Al massimo potevi alzarti dal divano e spostarti in cucina, che ne sa lui, andava forse specificato nei commenti al post: Scusi maestro, ma ‘ndo vado di preciso?, subito sotto alle piccole invettive del GRANDE PUBBLICO, che il DISAGIO nemmeno lo cerca: «Ma vi sembra il momento di fare questi film? Lo guarderò più avanti, ora non è proprio il periodo…». Fa niente signò, noi circoletto andiamo avanti perché è importante raccontare gli ultimi, ma è altrettanto dirimente uscire dal cinema rassicurante. Anche questa è espressione chiave. Per alcuni brucia ancora la lotta a un’invisibile egemonia del rassicurante, mare di titoli che confermano e giustificano le poche certezze che abbiamo, la cara e vecchia storiella che il cinema italiano fa nel complesso schifo per la sua autoindulgenza, salvo naturalmente poche e rare eccezioni che la massa non conosce, ma che puntualmente conoscono tutti e incassano anche parecchio.

Andiamo avanti perché in Favolacce ci sono «le assordanti cicale che ci inchiodano senza via di fuga». Le cicale di Spinaceto le ricordo bene, che ferocia che rabbia ‘ste cicale, con quella sensazione che ti accompagna per tutto il film che «qualcosa di brutto può accadere», con possibile domanda di un autoctono: ma per le cicale dici? E ancora più giù verso «l’uscita del film strana e resiliente» – madre mia, Ada – «che va per il verso giusto», verso il Raccordo, imboccamo l’Ostiense, dove? Non si sa di preciso, però una sicurezza semantica la troviamo ne «L’Italia appiccicaticcia di Favolacce», dove «la provincia ha divorato qualsiasi cosa con la sua promessa di riscatto», e infatti mancava alla festa la nostra brutta e cattiva provincia che inghiotte tutto, se non fosse che Spinaceto è provincia di niente, forse lo è Casal Palocco, anche se chiedendo in giro pare che nemmeno Casal Palocco sia provincia, a meno che s’intenda Spinaceto come provincia dello spirito o cose simili.

L’indulgenza e l’italianità sono scolpite con rigore negli articoli più sentiti: «Un’opera di cinema italiano che niente di solo italiano, stavolta, meravigliosamente possiede perché universale e senza luogo come deve essere per ogni cosa che l’Umanità voglia toccare, ovunque si trovi». E quindi che se tocca st’Umanità? Sempre lì con ‘ste manacce, e il così essere poco italiano allora è una gran salvata, ce la siamo vista brutta, poteva davvero essere il film che tutto il mondo ci invidia, ovunque il mondo si trovi. In altre riviste leggiamo che Favolacce «si presenta come una favola nera, tant’è che si sceglie la voce narrante esterna di Max Tortora come espediente narrativo», sancendo una volta per tutte non solo il legame tra Max Tortora e il new weird – qualche indizio già lo si poteva trovare in Piloti, che dietro la vis comica nascondeva richiami all’abisso del reale, Bertolino rivela Allan Poe – ma introducendo lo spettatore meno scafato al tentativo di un canone. Non sappiamo quale, le possibilità sono molteplici; raccomandiamo tuttavia uno sguardo da entomologi del reale, siamo qui per mappare il discorso cinematografico italiano, però quello «decisamente anticommerciale, perché difficilmente Favolacce potrà incontrare i gusti dei fautori della commedia all’italiana».

S’inizia con il botto: i fratelli D’Innocenzo come i Safdie brothers, con un coraggioso salto oltreoceano di Adam Sandler in giro per una Torvajanica sparata al neon, un verboso trip nevrotico tra gli opali di Campo Ascolano e il synth new age nella Santa Palomba allucinogena. Viriamo poi su ben altri lidi perché per alcuni Favolacce «è un western di oggi in cui la balla di fieno è la vita»; la circolarità inevitabile dell’esistenza trasfigurata nella balla di fieno, l’uroboro come vipera nascosta nei campi vicino Pratica di Mare, prima dell’aeroporto, lì dove Nietzsche si dichiarava nemico della gravità come gli uccelli in Così parlò Zarathustra, perché no anche questo disperato affresco della periferia romana. E a proposito di genere come strumento d’indagine autoriale, c’è chi non si risparmia: «Corale come un film di Altman, acido come un film di Todd Solondz, grottesco come certe cose dei Coen», certe cosette, delle robette, e il metodo dell’andare a gemellaggi e a fratellanze s’abbandona completamente alla dissociazione critica – ne avesse preso uno – lasciandosi poi andare all’analisi di classe, dove non c’è niente di più divertente e fuorviante della caccia al piccolo borghese italico che ancora nessuno ha capito in effetti cosa sia, soprattutto perché, nota a margine politicamente orientata, lo si continua a identificare con i costumi ’80-’90 e non su quel mistero tutto nostrano, liquido e denso di ombre: il reddito, infida lamella dei nostri tempi. E quindi: «Favolacce è un film sul naufragio sociale ed esistenziale della piccola e media borghesia italiana». Di che tipo di borghesia parliamo? Elementare: «quella che si è conquistata la villetta a schiera e il giardinetto con il barbecue, quella che organizza le grigliate con i vicini, quella che ha i figli bravi a scuola, quella che quotidianamente recita il copione della rispettabilità e della normalità ad ogni costo». Serve tempo per scandagliare con dovizia i danni intellettuali di un certo tipo di immaginario americano, lì fermatosi con lucidità ai primi duemila, successivamente universalizzato e rimpastato qui da noi con un’aderenza alle nostre realtà totalmente fuori fuoco. Continuiamo però con il canone, le sorprese sono molte: perché se «le case possono sembrare quelle di Tim Burton» per molti appare chiaro come i D’Innocenzo, a partire da La terra dell’abbastanza, peschino a piene mani dal reietto universo di Sergio Citti, certo qui più benestante, più imborghesito e meno selvatico, puramente evocato: i due registi in una conversazione di inizio anno visibile su YouTube dichiarano candidamente di non aver visto neanche mezzo film di Citti, ma ormai è troppo tardi, il limite è stato superato. Ci siamo, arriva Pasolini. Va detto che l’uso di Pasolini dal critico è spesso centellinato, magari buttato lì, vivo il rischio di passare per banale; occorre cercare altri riferimenti, appena scoperti, nuovi nuovi.

Poco rilevante tuttavia un’altra intervista sul Corriere della Sera in cui sostengono di aver visto solo due film del regista, anche uno e mezzo, visto che in un’altra ancora uno dei due ammette di aver lasciato a metà Salò o le 120 giornate di Sodoma. La valanga non si ferma e da Pasolini passiamo all’horror: «immagini di inquietante crudezza», che in confronto Ari Aster è una mano santa per la cervicale, per non soffermarci poi sull’immaginazione dei due registi «esplosiva per il suo sadismo», altro che Takashi Miike, buono per un pubblico da pan di stelle. Non poteva mancare, in altra critica, ricorda il primo e dentro il regista del caso: «a tratti il primo cinema di Antonioni», anche se nella stessa recensione occorre menzionare «l’orrore connaturato alla contemporaneità tipica del primissimo Dylan Dog» in una versatilità culturale adatta solo al pubblico da film pugno nello stomaco. Le sentenze da omelia, lezione per tutti noi, noi che non capiamo (ma quand’è che la gente capirà?), sono ravvisabili ovunque sul web, persino nelle critiche a piccolo raggio, il Voi punitivo, voi che vivete in provincia, o in periferia, demoni di quartieri residenziali senza speranza, «Voi che avete sempre fatto affidamento su un vostro fratello, unico confidente, che siete disposti a seguire fino alla fine. Noi». Sipario.

Nuovi linguaggi, si scombussolano le coscienze, si aprono nuove strade? Niente di tutto questo. GQ Italia approda da sola nella grande terra del nulla, intercettando il presente e concedendosi la svolta interpretativa: il titolo volutamente provocatorio «Favolacce sarà il nostro Parasite» è uno strappo talmente slegato dal contenuto da eliminare qualsiasi necessità di ritornare sul film coreano, togliendo via anche la più piccola traccia di una spiegazione per un paragone di siffatto ardimento, forse un’eterogenesi dei fini che allarga insondabili orizzonti. In seconda istanza coglie al volo l’attualità contagiata: «I D’Innocenzo si affidano all’archetipo, per raccontare il mondo che stiamo vivendo. Involontariamente anche quello infestato dal Covid». Infetti noi, infetta la piccola borghesia dal capello squadrato, appena fatto s’intende, che i parrucchieri erano chiusi.

Per concludere: chi scrive conosce Spinaceto, e per i topografi più agguerriti Spinaceto non è Villaggio Azzurro, dove pure ho amato come servo della gleba a testa alta una ragazza poco interessata a Meneguzzi, direi un’umanità alla Skam Italia, ben lontana insomma dall’artificialità esistenziale di chi abita Favolacce. Forse è questo il punto: la smania di calar sociologia dall’alto su tutte quelle periferie pensate male e rese artisticamente peggio, tradotte in simboli e codici che le riguardano solo in parte, con probabilità nasconde sbirciate intellettuali da etologo incerto, conoscitore fragile e approssimativo di ambienti che non hai mai compreso fino in fondo, che tu sia regista, critico, recensore, recensore dei recensori.

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