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Ballavo tutto solo con me stesso, felice come chi ha perduto tutto, perfino l’onta del suo orrore

«James Purdy scrive sotto la pelle», disse lo scrittore britannico John Cowper Powys commentando alla fine degli anni 50 i primi lavori di uno sconosciuto scrittore americano che l’America non voleva pubblicare e che gli inglesi scambiarono a lungo per the last of the Niggars. Purdy fu molto d’accordo: «Mi piace scendere in profondità. Tutto ciò che tocca gli esseri umani ci riguarda troppo da vicino per poter essere trascurato, in qualsiasi sua forma, anche quelle normalmente considerate atroci»[1]. Se questo scrivere sotto la pelle, ignorandone beatamente il colore, è la costante di un’intera carriera letteraria, con il personaggio di Garnet Montrose, reduce di guerra protagonista e narratore di Come in una tomba, Purdy raggiunge allora un idillio: deformato, letteralmente rivoltato da un’esplosione che gli ha squassato le carni portando in superficie le vene e le arterie, e divenuto color spremuta di more, Garnet una pelle non la ha più. Esposto a ogni nuovo dolore, contatto o intemperie senza protezione alcuna, neppure la delicata corazza della cute, è obbligato alla vita pur non appartenendo più al mondo dei vivi o a quello dei morti, in una condizione di fragilità assoluta.

Nella stessa condizione è il lettore, sbaragliato da una scrittura viscerale, incurante, e da una narrazione in prima persona affidata a uno spettro, al residuo di un uomo, affogato in sentimenti spezzati o in preda agli spasmi. Come in una tomba, ripubblicato di recente da Racconti edizioni (traduzione di Maria Pia Tosti Croce), dopo un oblio di trent’anni (l’unica precedente edizione italiana è del 1990, edita da SE), è uno degli apici della produzione del suo autore. Una novella di una purezza allucinata e visionaria, insostenibile a tratti, commovente sempre: «È vero al lume della luna sembravo quasi normale, le cicatrici, gli sfregi e le chiazze si confondevano in qualche modo con la notte…».

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Non si fa forse un favore alla tormentata vicenda editoriale di James Purdy scrivendo che pochi come lui sanno straziare il lettore; o sconcertarlo come scrissero i giudici che bandirono negli Stati Uniti per oscenità il suo Cabot Wright ci riprova (troncandone probabilmente il successo editoriale); o fargli violenza, nel suo significato più intimo, come spiega Giordano Tedoldi in una rilettura shakesperiana dello scrittore americano meno americano dello scorso secolo. Purdy infatti ha scritto solo libri sull’amore, «(…) e sulla violenza dell’amore. Perché sono convinto che Eros sia un dio violento. Mentre questi piccolo borghesi pensano che l’amore sia come mangiare panna montata… Ma i Greci sapevano tutto. Se la gente leggesse i Greci e la Bibbia saprebbe tutto della natura umana…»[2]

Definito oltraggioso, fuorilegge, irregolare, reietto narratore di reietti, scrittore per scrittori, Purdy, molto più prossimo alla tragedia classica che al romanzo postmoderno o al minimalismo suoi contemporanei, è il grande rimosso della letteratura nordamericana del Novecento.

Una rimozione anche letterale: lo scorso anno, a dieci anni dalla scomparsa, un gruppo di studiosi, accoliti dello scrittore midwestern che per tutta la vita ha vissuto nella provinciale New York, ha dato seguito alle sue ultime volontà: trasferire le sue esequie in Inghilterra, in un cimitero del Northamptonshire, accanto a quelle della sua benefattrice Dame Edith Sitwell, che di lui diceva «sa come descrivere un cuore dilaniato» e senza i cui favori probabilmente non sarebbe mai stato pubblicato. Quando Maria Cecilia Holt, la ricercatrice di Harvard che si è occupata del recupero delle ceneri dall’esecutore letterario americano, si è sentita dire «ci dispiace per la sua perdita», lei ha risposto: «Non è la mia perdita. È la vostra. L’America sta perdendo un grande scrittore. Sta lasciando gli Stati Uniti per sempre e a nessuno importa».[3]

Autore in grado di alternarsi senza pagarne scotto tra romanzi, racconti, poesia e teatro nel paese che più di tutti ha preteso di formalizzare queste categorie e i rispettivi autori di riferimento, Purdy sottrae i suoi protagonisti alla vanità dell’ipertrofica storia contemporanea – «Come se a me importasse della storia o mi fosse di qualche utilità», dice Garnet Montrose, a cui la vita è stata pur rovinata dalla guerra – nell’epoca che ha esatto dagli scrittori una continua rimasticatura dell’attualità per trarne una post-verità purchessia; immune inoltre a freni moralistici di sorta nella stagione dell’odioso politicamente corretto, delle orribili categorie sociali che si mobilitano a chiamata. Purdy non aveva chance di successo negli Stati Uniti del Novecento, secolo breve e ingombrante che ha tuttavia vissuto interamente (alla morte del 2009 si scoprirà che era nato proprio nel 1914, circa dieci anni prima di quanto riportato nelle biografie ufficiali) ma come un «fiume sotterraneo che ha attraversato il paesaggio americano senza mai venire alla luce».

Per dirne una, ha scritto quasi sempre storie in cui l’indeterminazione sessuale ha un ruolo più o meno centrale, ma non ne ha mai fatto una questione cruciale. L’orientamento sessuale è per lui solo uno dei campi in cui l’uomo è esposto a tribolazioni: drammatiche, grottesche ma anche comiche; un campo, come tutti gli altri, in cui gioca un ruolo cruciale la fondamentale ignoranza del reale, e la conseguente paura, che ci appartiene come specie e che ci porta a decisioni dure o contraddittorie, insensate, tenere o violente.

Si veda la vicenda di Come in una tomba: Garnet Montrose è un uomo ritornato nella vecchia casa di famiglia in Virginia, dopo l’esperienza traumatica nel mar cinese meridionale, durante la Seconda guerra mondiale. Sfigurato, mutilato della carne e dell’età, ha una pelle scurita dalle ferite e le scottature che non può più arrossire né impallidire. Non può neppure piangere, i dotti lacrimali gli bruciano come spine. Avrebbe bisogno di un assistente ma tutti i candidati vomitano letteralmente alla sua vista. Ha come unico appiglio la corrispondenza con la vedova Rance, un amore adolescenziale. La affiderà alle mani di Potter Daventry, un giovane reietto, scappato di casa e probabilmente omicida, che accetterà di fargli da assistente. La vedova Rance si innamorerà del messaggero, lo sposerà, ma Daventry è innamorato di Garnet fin dal primo momento e Garnet infine lo ammetterà a se stesso, lo ricambierà, lo amerà a sua volta.

L’improvvisa attrazione per un uomo può sembrare una questione cruciale, ai nostri occhi ancora pieni di malizia pruriginosa, e invece ciò che conta qui è lo stupore di Garnet per la purezza, la fatalità dell’amore di Daventry e soprattutto l’imprevista nuova linfa vitale provocata in lui da questo amore, lui che si considerava ormai fuori dal mondo dei vivi, troppo devastato per poter accedere alla pienezza di qualsiasi sentimento. Daventry lo riporta in vita, anzi lo spinge oltre una soglia di dolore e di amore di cui non sospettava l’esistenza, in cui non aveva alcuna fede. Nonostante la durissima prova della guerra, e della mutilazione, Garnet è infatti ancora un ragazzo che con la devozione ingenua di un puro affronta la realtà rimanente.

Come poteva uno scrittore così abissale, che guarda ai classici greci e latini, o al massimo legge Unamuno, Whitman, Melville e le Novelle esemplari di Cervantes, essere apprezzato nella terra che ha preteso di fondare una nuova cultura e una nuova controcultura, che si è appropriata del termine postmodernismo per farne l’ennesimo prodotto culturale di massa? Purdy osserva l’American dream dalla stessa distanza di noi europei, e da qui gli appare come un surrogato pacchiano e ipocrita della felicità.

Essenziale e misterico – sarà un evento affine alla catarsi a rimettere infine un po’ d’ordine alla vita di Garnet Montrose -, artista della sottrazione (almeno in questo estimatore di Hemingway) cerca di comunicare con ciò che resta di incontaminato in noi, riesce a farsi largo nello spesso strato di futili nebbie della sua epoca per intercettare l’essere che sopravvive, in qualche modo, in mezzo allo stordimento del Novecento: l’essere che trema quando è solo, che cerca una risposta impossibile all’amore nell’altro, che è insieme disperato e comico e crudele ma sempre ignaro di tutto. Come il ragazzo Malcolm, l’orfano protagonista del suo romanzo d’esordio omonimo, che la società pretende di annettere alle proprie dinamiche relazionali e finisce per annientare.

Per Purdy l’uomo non è mai interamente un prodotto culturale del suo tempo ma innanzitutto e sempre un uomo, con un cuore fragile, sconcertato in mezzo alla vita. Leggere Purdy è allora davvero osceno, quanto voler illuminare i recessi più intimi di questo sconcerto.


[1] Intervista concessa a Daniele Brolli, ripubblicata su Altri Animali il 20 marzo 2019
[2] Intervista concessa a Livia Manera Sambuy, presente in Non scrivere di me: racconti intimi di scrittori molto amati (Feltrinelli, 2015)
[3]La cerimonia di sepoltura di James Purdy nel Regno Unito è stata raccontata da Andrew Male sul The Guardian dell’11 marzo 2019

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