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La leggenda di László Darvasi

Non la conoscenza ci avvicina ai santi, bensì il destarsi delle lacrime che dormono nel più profondo di noi. Soltanto allora, grazie alle lacrime, approdiamo alla conoscenza e comprendiamo come si possa diventare santo dopo essere stato uomo.”
E. M. Cioran

Caro László, c’è stato un tempo in cui mi chiedevo chi diavolo fossi.
Ti immaginavo come un dèmone, un vampiro, uno stregone.
Adesso mi sembra di conoscerti, di saperti davvero.

Quando ho saputo che il Saggiatore avrebbe finalmente pubblicato La leggenda dei giocolieri di lacrime ho segnato questa frase sul taccuino perché pensavo che potesse essere un buon abbrivo per il pezzo che ne avrei scritto. Mi ero convinto di aver capito chi fosse László Darvasi, di conoscerlo. D’altronde, dopo la pubblicazione di Mattina d’inverno con cadavere – il libro con il quale si presentava in Italia, il diciannove aprile di due anni fa – la sua encomiabile traduttrice, Dóra Várnai, aveva condotto un’intervista per presentarlo, cui ne era seguita una  di Matteo Moca, oltre un discreto numero di articoli che confermavano la natura diabolica di questo autore sconosciuto in Italia. Recensioni nelle quali venivano anche avvalorati alcuni dei riferimenti che avevo azzardato, curiosando nell’ignoto. László Darvasi però è un dèmone e i dèmoni tendono a sorprenderti, lasciano che tu possa coltivare le tue false speranze, la tua illusione di averne il controllo, per poi sgretolarla nelle loro mani in un raffinato gioco di prestigio. La lettura de La leggenda dei giocolieri di lacrime ha completamente stravolto e paradossalmente confermato certe intuizioni che avevo avuto leggendo Mattina d’inverno con cadavere. Ora mi è chiaro che non avevo e non posso ancora avere un’idea approfondita su chi sia davvero László Darvasi, «la voce più significativa della letteratura ungherese contemporanea» (questa definizione mi torna in mente e mi sembra acquisti sempre più senso). La leggenda dei giocolieri di lacrime è un libro enorme – e non parlo solo del numero di pagine che lo compongono –, un vero e proprio mastodontico capolavoro che si erge sulla letteratura esteuropea generando l’ombra dalla quale emergono i fantasmi, i vampiri e le emanazioni del dolore di cui è cosparsa questa terra. Questa «Maledetta Ungheria stregata dai fantasmi» di cui scriveva anche Luciano Funetta, a qualche mese dall’uscita del primo libro di Darvasi, cogliendo anche lui il legame di sangue estremamente evidente tra i due László: Darvasi e Krasznahorkai. Nel frattempo – sempre tramite il Saggiatore – è arrivato in Italia anche l’alito pestilenziale di quell’altro spettro ungherese che è Ádám Bodor – Boscomatto (Traduzione di Mariarosaria Sciglitano, 2019). Quello che lo stesso Krasznahorkai definisce, a ragione, «l’autore più spietato, più crudele della letteratura contemporanea est-europea». Bodor però non è propriamente ungherese, poiché è nato in Transilvania. Un luogo più che significativo, a mio modo di vedere. Il posto da cui credo provengano tutti questi spettri, questi dèmoni mezzosangue discendenti dai vampiri, oppure semplicemente a essi affratellati. La patria di Dracula e di Cioran. C’è qualcosa che ribolle in quella regione d’Europa, ormai ne sono convinto. La personificazione del Male. Un diavolo muto.

«Una volta mi trovavo ad Aachen per un evento», dice Darvasi nell’intervista di Matteo Moca di cui scrivevo sopra, «in occasione della mia prima pubblicazione tedesca. […] Durante quella serata stavo giusto spiegando che quel mio racconto si sarebbe potuto svolgere ovunque. In qualsiasi parte del mondo! Una signora ha scosso la testa: no! Questa cosa può succedere solo lì dalle vostre parti, sul versante est, tra voi ungheresi, così propensi alla malinconia, alle dittature, alle lamentele, e ad altre simili amenità». Così si conclude l’intervista. Non sappiamo se Darvasi sia d’accordo con la signora. D’altronde la domanda dalla quale scaturisce questo aneddoto lo interroga sul suo rapporto con un certo tipo di letteratura, diventata ormai il centro cardinale della narrativa saggiatoriana, i cui maggiori esponenti sarebbero Gombrowicz, Ligotti, Moster. La storiella di Darvasi tuttavia mi sembra abbastanza eloquente, e dice: esiste sì un legame tra tutti questi autori così geograficamente distanti, eppure c’è un tratto caratteristico mostruoso che riscontriamo solo in alcuni di questi scrittori della crudeltà, che hanno in comune l’essere nati e cresciuti in questa porzione di mondo: la propensione «alla malinconia, alle dittature, alle lamentele», un’attitudine che non potrei che definire cioraniana. Quello Squartamento interiore, ovvero la frizione disperante che si crea tra L’inconveniente di essere nati e La tentazione di esistere, portandoci Al culmine della disperazione.

Potremmo pure affiancare questa caratteristica fondante, degli autori ungheresi e transilvani di cui parlo, a certi testi di Thomas Ligotti, come La cospirazione contro la razza umana (il Saggiatore, 2016), o all’agghiacciante romanzo di Andreas Moster, Siamo vissuti qui dal giorno in cui siamo nati (il Saggiatore, 2018); sicuramente hanno una parentela stretta con i formidabili libri di Witold Gombrowicz, dal Diario (Feltrinelli, 1970) a Cosmo (il Saggiatore, 2017); cionondimeno, nello spirito antico di questi démoni vi è un nucleo cioraniano, transilvano, indelebile e connotativo, che differenzia il Male descritto da questi scrittori psicopompi, mostri spettrali esteuropei, da qualunque altro male. In questo senso Darvasi è più simile a Miklós Mészöly (di cui, purtroppo, esiste un solo libro tradotto in italiano), come ci indica egli stesso nell’intervista sopracitata; e questo mastodontico capolavoro che è La leggenda dei giocolieri di lacrime lo dimostra definitivamente. Dai frammenti sfocati dell’inferno di Mattina d’inverno con cadavere – che si svolgono in un tempo presente e marcio che però travalica il tempo dell’ambientazione eternandosi in uno spazio sospeso; passiamo ora, nella Leggenda dei giocolieri di lacrime, a un ampio “romanzo storico” ambientato durante la dominazione ottomana della regione ungherese. Anche qui il tempo del racconto subisce uno squartamento, si squarcia per mostrarci il ‘tempo di tutti i tempi’.

Accade esattamente quanto avveniva in Saulo (E/O, 1987) di Mészöly in cui la storia di San Paolo viene deformata e filtrata diventando una parabola ungherese, in cui la grazia della conversione è “assente”. «Qui l’apoteosi non ha luogo» scrive Sandor Radnoti nella sua minuziosa e splendida postfazione all’opera perfetta di Mészöly. La conclusione, la metamorfosi mistica di Saulo, rimane «inespressa, ineffabile, o meglio ancora vacante, ignota», ci dice ancora Radnoti e sugella il suo meraviglioso testo dando una definizione del romanzo di Mészöly che possiamo facilmente usare per descrivere La leggenda dei giocolieri di lacrime di Darvasi: «Questo romanzo non è affatto un’allegoria: il suo significato è aperto e polivalente. In ogni nuova epoca, in ogni nuovo contesto, in ogni nuovo ambito linguistico in cui giunge, attende di essere nuovamente decifrato e interpretato da capo». I cosiddetti capolavori sono tutti così: non sono paragonabili o incasellabili, non sono interpretabili in via definitiva e univoca, restano unici perché la loro unicità si rinnova nell’ignoto che riescono a evocare e nell’invisibile dal quale sono stati forgiati.

Ed è proprio per questo, per questa sua peculiarità genetica – e per una mia personale antipatia verso le etichette – che le definizioni con le quali La leggenda dei giocolieri di lacrime verrà presentato risulteranno sempre, a mio avviso, insufficienti e anche fuorvianti. Si dirà che è un “romanzo mondo” e che è un “capolavoro di realismo magico”, paragonandolo a Cent’anni di solitudine. Niente di più distante dalla realtà. Il che dimostra anche che le etichette che vengono usate nella filiera editoriale servono solo per vendere, permettono ai promotori di raccontare il libro, in poche parole, ai librai che avranno solo quelle per poterlo poi rivendere al lettore.
Ebbene, la Letteratura è un’altra cosa. La leggenda dei giocolieri di lacrime è un’opera maestra della letteratura ungherese, dell’est Europa ma più precisamente lo è della Letteratura tutta, in generale, senza confini, etichette o categorie. Non è categorizzabile poiché è un unicum. Contiene di certo tutti i riferimenti che abbiamo elencato ma li miscela in una pozione magica che non ha eguali.

La leggenda dei giocolieri di lacrime è come una enorme balena bianca imbalsamata, la più grande balena del mondo, giunta in città assieme ad «altri sensazionali misteri della natura» facenti parte di questo circo ungherese nato in transilvania, capace di sovvertire, con la sua sola presenza, la normalità a cui siamo tanto abituati e che ci fa stare tranquilli, sicuri. La leggenda dei giocolieri di lacrime è la storia di tutte le storie, giacché è la storia del Male.

La Leggenda ossia la Storia vera

Ho letto La leggenda durante il periodo di confinamento domiciliare causato dalla pandemia di coronavirus, dal sei al dodici aprile, circa. Ascoltando i loop angoscianti di The River di William Basinski. Non so ancora se sia stata un’idea saggia. Oggi scrivo con lo stesso disco in sottofondo, nello stesso buio scantinato umido, dopo aver guardato un video che mostra l’interno del tubo dello scarico del mio bagno mangiato dai topi; la voce dell’idraulico, con un forte accento rumeno, dice: «ecco cosa possono fare i topi» e poi aggiunge con velato e sottile entusiasmo «i sorci!». E da quei buchi inermi evoca le piccole creature malefiche. Diventa un pifferaio magico. Mi atterrisce il sorriso sbilenco che posso leggere nei suoi occhi incavati e nel suo divertito squittire.

Questo aneddoto può essere vero o totalmente inventato ma è corrispondente alla Verità perché travalica la storia vera che racconta e raggiunge una verità abissale, comune a tutti gli uomini. Ci tocca subito perché è familiare. Quando leggerete La leggenda vi sentirete proprio così: le ossessioni di Basinski che risuonano nelle orecchie e la visione di topi che rosicchiano le fondamenta su cui poggia il vostro cupo seminterrato. Eppure, sarete a Budapest nel diciassettesimo secolo, in mezzo a tutte quelle culture che si mescolano e alla guerra che imperversa. Eppure, vedrete fate e spiriti, e uomini che parlano con gli occhi, senza emettere suoni, e con gli stessi occhi assorbono le colombe; uomini bellissimi con preziose chincaglierie nascoste tra i capelli, dei quali uno soltanto appartiene a Maometto, al profeta. Incontrerete puttane, soldati e artigiani; e soprattutto scorgerete continuamente, arrivare e andarsene, un carro coperto da una lacrima blu. E sarete in tutti questi luoghi e tempi, contemporaneamente, consustanzialmente. Così sentirete la leggenda dei giocolieri di lacrime farsi la vostra storia e la storia dell’umanità. Questa è la stregoneria di László Darvasi: raccontare. Ovvero dirci del turbamento dèmoniaco di ogni uomo, quell’angoscia che ci fa divenire santi e dèmoni al contempo.

«Raccontare non causa dolore. Sentiamo per converso il miele amaro della malinconia umana spandersi sulla nostra lingua mentre le parole vi sbocciano. E tale forma di turbamento molto assomiglia alla natura smoderata del tempo».

La leggenda dei giocolieri di lacrime contiene molte altre leggende. In questo libro si compenetrano racconti del mito islamico, cattolico, della tradizione popolare ungherese. Ci sono esseri mitologici ebraici e della pura e semplice fantasia. C’è un diavolo scolpito nel legno, senza una bocca da cui parlare. C’è il Golem.

«Sarà meglio che io inizi a raccontare, che ne dice?»
«Come preferisce» alza le spalle Arnót, mentre gira una delle ruote. E il piccolo ebreo inizia dunque la sua storia.
«Come tutti sanno, il Golem è stato creato nella città di Praga…»
comincia sgranando gli occhi, ma viene subito interrotto.
«Cos’è il Golem?» chiede Arnót.
L’ebreo spalanca ancora di più gli occhi.
«L’uomo d’argilla richiamato alla vita, signor maestro»

Il Golem, il diavolo, le fate, Gesù e Maometto. Siamo noi e sono loro: dèmoni e santi. Le creature di Darvasi sono come degli esperti del dolore messi lì per mostrarci le lacrime e insegnarci le lacrime.

Le sue storie potrebbero essere ambientate ovunque – come diceva nella sua intervista – soltanto perché parlano di un dolore molto più grande e onnipresente di quello degli assedi di Buda. È il dolore dei santi, «il destarsi delle lacrime che dormono nel più profondo di noi» di cui parla Cioran nel suo Lacrime e Santi, il libro che accompagnerà il suo arrivo a Parigi e che ha illuminato le mie riflessioni sulla Leggenda di Darvasi. Un libricino emblematico che trova nel dolore e nel pianto la chiave dell’essere Santi. Il Santo è colui che ha compreso il senso attraverso il dolore. E questo accade sempre, a ognuno di noi. Solo dopo la crisi, il dolore, l’angoscia, possiamo ergerci a Santi e Dèmoni. Dipende probabilmente dalla nostra attitudine, dal nostro codice genetico, da chi siamo. E questo è il potere delle storie, di tutte le storie. Soprattutto di quelle dei nostri padri, del nostro popolo. I racconti hanno il potere di risvegliare in noi le lacrime. «Questo è il nostro vero patrimonio» scrive Darvasi. Il dolore dell’umanità che arriva a noi passando attraverso le parole e i gesti di uomini leggendari, dei nostri avi, di chi ha imparato a lacrimare senza piangere. È il nostro dolore che torna a noi, torna a casa e ne risveglia la familiarità permettendoci di riconoscerci e accettare la nostra vera natura.

«Quantunque non sia vera, questa testimonianza è vera comunque. E così succede anche con la istoria. Se l’uomo fosse libero, non ne avrebbe bisogno. Ma l’uomo non è libero. Benché ogni tanto faccia finta di esserlo. Per divertirsi. Per far baldoria. Per giocare con le proprie lacrime. Far piangere gli altri. Piangere su sé stesso. D’altronde è tradizione anche piangere come nostro il nostro bisavolo. Le nostre lacrime sono come le sue. Nascondiamo il nostro viso tra le mani, e pensiamo anche noi che la vera lacrima è quella che il cuore piange attraverso lo specchio degli occhi. Questo è il nostro vero patrimonio. Per questo diciamo che sapremmo tutto dei giocolieri di lacrime anche se nemmeno una parola fosse pronunciata su di loro».

I 36 giusti e i 5 giocolieri

La storia dei giocolieri di lacrime ruota attorno alla leggenda dei trentasei Giusti. La racconterà lo stesso Aaron Blumm, il piccolo giocoliere ebreo dai cui occhi sgorga «sangue schiumoso».

«Dovete sapere, amici miei, che non esiste al mondo alcuna generazione che non abbia trentasei persone giuste. Questi Lamed Vav Tzadikim perlopiù non lo sanno nemmeno loro di essere dei prescelti. Oppure lo sanno, ma non se ne fanno nulla di questa consapevolezza, perché chi è stato prescelto è stato prescelto, e così è. Sono esattamente trentasei, non uno in più, e nemmeno uno in meno. Se anche solo uno di loro mancasse, l’umanità con un unico grido di dolore finale sprofonderebbe nei propri peccati. I trentasei giusti rappresentano il cuore dell’umanità, e come un recipiente infinito contengono tutto il dolore del mondo. Dovete sapere che loro sono presenti ovunque. Dio mantiene in vita questo mondo solo ed esclusivamente a causa loro. E le creature più degne di compassione sono proprio quelle che non hanno idea di far parte dei trentasei. Per loro il mondo non è altro che un’indicibile sofferenza, un supplizio, un inferno. Può capitare che la loro anima si pietrifichi ghiacciata per il dolore».

Questa leggenda è contenuta nel Talmud, fa parte della tradizione cabalistica. Jorge Luis Borges la manipola – come suo solito –indicando nel suo «L’uomo sulla soglia», uno dei racconti de L’Aleph, «quattro uomini retti che segretamente sorreggono l’universo». I giocolieri di lacrime però sono cinque, o forse sei. Allora potremmo prendere in considerazione quanto Borges aggiunge poco dopo: «se il destino negava i savi, bisognava cercare i dissennati». Darvasi confonde ancora le acque dicendoci che vi è anche «una leggenda islamica senza tempo, secondo cui esistono sulla terra quaranta persone che in gran segreto e di nascosto da tutti mantengono in vita il mondo con la loro bontà e purezza». E allora cosa c’entrano i giocolieri? Sono forse alcuni dei Giusti che si sono risvegliati – come il Golem – per riequilibrare le sorti del mondo e poi tornare nell’anonimato? Cinque sarebbe allora un numero come un altro? Non potrei crederci.

Il cinque è un numero dalle molte interpretazioni, eppure nessuna riesce a convincermi. C’è forse il caos alle radici di questa scelta? Non lo so. Mi sembra che la domanda sia molto più utile della risposta. Potremo scoprire così che per capire le lacrime, per comprendere i dèmoni, bisogna tornare a quello stato di sospensione. Alla condizione del non sapere. Alla fede primordiale verso l’ignoto. Alla perenne domanda senza risposta.

«Esattamente» si rialza il signor Farkas. «Ciò in cui io credo non è l’esistenza dei giocolieri di lacrime o la loro non esistenza. E poca importanza ha se sono in tre o in sei. Io credo nella loro tristezza, che esiste esattamente come esiste la vita o la morte».

Gli artisti di lacrime: Santi o Dèmoni?

Se proviamo a indagare l’etimologia della parola santo e quella della parola dèmone, ci accorgeremo di quanto possano somigliarsi e specchiarsi anche con la tradizionale definizione dei Giusti. Sembrerebbero tutti della stessa famiglia. I trentasei giusti allora potrebbero essere trenta santi e sei dèmoni. O essere tutti dèmoni e santi. O essere trentasei santi di cui sei dèmoni. Oppure quaranta, come per la tradizione islamica, di cui trentasei santi. Non ha importanza qui definire da quale mitologia emergano i giocolieri di lacrime – sono una leggenda a sé stante.

«I loro nomi sono Goran Dalmatinac, Péter Feketekő, Zorán Vukovics, Aaron Blumm e Franjo Mendebaba, cinque uomini sulle strade del tempo» ci viene detto a un certo punto, ma non possiamo essere sicuri nemmeno dei loro nomi. Sicuramente possono muoversi nello spazio e nel tempo, sembra abbiano poteri illimitati e che seguano alcune persone in particolare. Primo tra tutti il loro fratello Ferenc Pilinger. La storia che ci viene raccontata sembrerebbe svolgersi, sottotraccia, intorno alla sua crescita. Tuttavia, è pur sempre la storia dei giocolieri il centro del racconto. Assistiamo alla loro nascita, fin dall’allestimento del carro. Siamo con loro quando si rivolgono al maestro tintore Stephan Peer, chiedendogli di dipingere su di un telo una enorme lacrima blu.

«E a qual fine lorsignori useranno questo telo con una lacrima dipinta?» chiede Stephan Peer.
«Diventeremo degli artisti saltimbanchi» risponde orgoglioso l’ebreo. Il tintore alza le spalle. Andare in giro a fare gli artisti di questi tempi bui? Quando il paese intero si sta perdendo?! Metà della patria?!
«E che tipo di artisti diventerete, signori?»
«Artisti di lacrime» dice l’ebreo e torna a sedersi in mezzo ai compagni.

Da quel momento vivremo tutto ciò che succede sotto i nostri occhi attoniti – una congerie abnorme di storie intrecciate l’una all’altra – con la consapevolezza e nell’attesa che spunti da qualche parte questo sgangherato ed eloquente carro di artisti. A volte lo attenderemo con timore e altre volte terremo il fiato sospeso, nella speranza che arrivi proprio in quel momento. E difatti arriverà puntuale, sempre al momento giusto, per risolvere la situazione. Ovviamente per come può risolvere la situazione un dèmone – o un idraulico che trova un intero impianto di scarico rosicchiato dai topi. Li richiamerà a sé: «sorci!», con una nota d’eccitazione che tradisce la crudeltà nascosta nella gentilezza della sua voce. I giocolieri di lacrime sono il Male, eppure quel Male può essere una maledizione come una fortuna. Dipende da chi sei e cosa hai fatto. In ogni caso, è inutile scappare.

«I giocolieri di lacrime possono apparire in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo sotto il cielo. Se li si aspetta, vengono. Se non li si aspetta, eccoli comunque apparire. Se si cerca di scappare da loro, eccoli che arrivano di fronte».

«Ovviamente è inutile cercare le tracce dei giocolieri di lacrime, perché i loro segnali non fanno altro che diventare sempre più confusi». Arriveranno ma non possiamo cercarli. Siamo in trappola, siamo diventati noi la preda.

Adesso la domanda che sorge spontanea è: va bene, ma cosa fanno esattamente i giocolieri di lacrime? Lo scopriremo subito, al primo incontro con il maestro tintore Stephan Peer. «La nostra prima esibizione è per lei, signor maestro» dirà Aaron Blumm prima di iniziare. E la loro esibizione ovviamente consiste in un pianto: «Uno di loro piange sangue, l’altro miele, il terzo sassi neri, il quarto piange ghiaccio, mentre ahimè al quinto scendono dagli occhi minuscole schegge di specchio». Schegge di specchio nelle quali potremmo vederci il nostro peggior nemico.

Secondo Socrate ogni sua decisione era suggerita da un dèmone, il suo dáimōn. E cos’è Socrate se non un santo? La mia ipotesi è quindi che i giocolieri di lacrime siano dèmoni al servizio dei santi. In grado di provocare in loro «le lacrime, criterio di verità nel mondo dei sentimenti». Ma attenzione, sono «Lacrime, non pianti» scrive Emil Cioran nel libricino illuminante di cui dicevo. E chiarifica: «Esiste una predisposizione alle lacrime che si manifesta in una valanga interiore. Ci sono degli iniziati in fatto di lacrime, che non hanno mai pianto realmente». Le lacrime dei giocolieri sono proprio quelle descritte così accuratamente da Cioran. Le lacrime dei Santi. Sorgano dal dolore che porta alla santità, il dolore necessario per raggiungere la beatitudine. Quel morire Zen che precede l’illuminazione. Rinunciare a tutto e abbracciare il proprio malessere per arrivare alla comprensione di tutte le cose, così «approdiamo alla conoscenza e comprendiamo come si possa diventare santo dopo essere stato uomo», tramite quelle lacrime. Bisogna attraversare la sofferenza per approdare alla pace e alla libertà, per diventare dei Giusti, persone rette. Per salvarci.

L’ermeneutica delle lacrime

«Penso a un’ermeneutica delle lacrime, che tenti di scoprirne l’origine e tutte le possibili interpretazioni. Per arrivare a che cosa? A capire i vertici della storia e a liberarci dagli «accadimenti», perché allora sapremmo in quali momenti e in qual misura l’uomo sia riuscito a innalzarsi al di sopra di se stesso. Le lacrime conferiscono un carattere di eternità al divenire, lo salvano. Che cosa sarebbe la guerra senza di esse? Le lacrime trasfigurano il crimine e giustificano tutto. Considerarle attentamente, e capirle, è trovare la chiave del procedere universale. Il senso di questo approfondimento sarebbe di guidarci nello spazio che collega l’estasi alla maledizione». 

(E. M. Cioran, Lacrime e Santi)

Vivere nel dolore è una maledizione, non c’è dubbio. Possiamo concordare tutti su questo, eppure nella crisi è in nuce il cambiamento necessario ed essenziale per farci santi. Questa è l’ermeneutica delle lacrime cui pensa Cioran. La beatitudine risiederebbe quindi nell’esperienza del male. Per questo la distinzione tra il santo, o l’angelo, e il dèmone (ricordiamoci che proprio il diavolo era pure lui un angelo) si presenta in modo così poco nitido. Perché sono in fondo la stessa cosa: sono gli ospiti di quello «spazio che collega l’estasi e la maledizione», ne sono la manifestazione più pura. Essi sono l’espressione dell’invisibile.

In questo senso la storia del maestro Arnòt è esemplare.
«Il mondo è governato dal male. Guerra, fame, infelicità. Inutilmente l’animo umano spera, inutilmente è buono, esso viene rovinato dalle selvagge fiere. Ogni cosa cade a pezzi, e nulla ha forma. Se però al male viene offerta una forma attraente, allora sicuramente vi si trasferirà dentro. E quindi sarà più facile eliminarlo. Lui è stato chiamato a scolpire il diavolo, in modo da poter imprigionare la sua anima e poi distruggerla». Il diavolo che scolpisce è il diavolo muto di Sopron. Sarà la sua rovina e forse la sua benedizione. Deve forgiare il Male per poi distruggerlo e diventare un Santo, uno dei trentasei Giusti. E, infine, uno dei giocolieri di lacrime. Nel Male è l’esperienza del cambiamento. Per ciò tutto il mondo di Darvasi è intriso di malvagità, il maligno dimora ovunque, la miseria spadroneggia per le strade e tutti i personaggi vivono con questo senso di morte.

«Se adesso lo sguardo del bambino potesse parlare, direbbe che la morte è una bestia alquanto strana. Lo sguardo del bambino tuttavia non può parlare. E la morte non è una bestia strana. Geme o si allunga pigramente nel nostro cortile come l’ombra del sole. La morte è il nostro cane, un essere saggio e fedele. Ci segue ovunque, fa la guardia al nostro cortile. E quando l’orologio batte l’ora, si stende sul nostro petto e lecca via dalla nostra faccia la maschera della gioia e della tristezza. Lecca via dal nostro sguardo tutte le lacrime, in modo che nei nostri occhi al loro posto possa trasferirsi l’eternità».

Il Male agisce attraverso la parola e il racconto e le leggende. Tuttavia, non si trasmette tramite il suono ma attraverso il silenzio. Ovvero «la polvere del Verbo». Questo è il controsenso insito nel significato del verbo tacere, viene espresso in quest’opera attraverso un so di non sapere darvasiano che ha il sapore di quei fastidiosi ammonimenti paterni, perentori e ineludibili.

È risaputo che l’uomo costruisce la sua misera vita con i mattoni e la polvere del Verbo. È così da cento anni, ed è così perfino da mille anni. Dal silenzio non è cresciuto mai nulla. Anche la virtù è fatta di frasi e anche il peccato è fatto di frasi. E dunque questa unica, breve piccola frase, questo «Non c’è bisogno di sapere tutto», è da prendere seriamente.

Questa frase programmatica ed esoterica inevitabilmente lascia risuonare Socrate e gli scettici, e ancora Cioran. Non si tratta di un «non sapere» sterile e preventivo, uno «stare in silenzio» ma di una tensione al sapere che nasce dalla consapevolezza definitiva e ultima di non poter sapere; equivale al tacere come azione di evocazione del silenzio. Un sapere di non sapere che fruttifica e si riempie di senso dando sacralità a quanto non è possibile sapere, evocando l’ignoto e concretizzandolo in forma di golem o di diavolo, d’innanzi a noi.

«Non c’è bisogno di sapere tutto» dice il signore.
Ferike Pilinger non è più uno sciocco bambino. Capisce l’essenza di questa frase. Ossia, che quel che sappiamo dobbiamo saperlo molto bene. Con tutte le nostre forze e con tutta la nostra ambizione dobbiamo arrivare a sapere ciò che è possibile sapere, e mai bisogna volere più di quello.

Jozef Bezdán, l’uomo cioraniano

«L’uomo inverosimilmente bello si chiama Jozef Bezdán. La sua professione è spia mondiale e sicario».
Quando incontriamo Jozef Bezdán la storia sembra prendere un’altra piega. È un uomo bellissimo e una spia che collabora con tutti i governi che girano attorno all’assedio di Buda. Viene messo sulle tracce dei giocolieri di lacrime e ci sembra che lui, solo lui possa arrivare a svelarne il mistero. Si chiede continuamente «Chi sono questi personaggi e cosa vogliono?», «E ciò che vogliono per quale motivo lo vogliono?», «E perché vogliono proprio ciò che vogliono?», fino all’ossessione. In questo senso Jozef Bezdán è proprio l’uomo cioraniano, si pone continuamente la domanda impossibile e la persegue nonostante tutto, nonostante il dolore e l’annullamento. E infatti non parla, resta sempre in silenzio. Dice solo una frase nel corso di tutta la storia, poiché Jozef Bezdán è un uomo sempre in ascolto e sa parlare solo attraverso lo sguardo. È già un santo, ancor prima di conoscere i giocolieri, ma sta per diventare un dèmone, lo incontriamo nel momento in cui è quasi pronto a diventare un artista di lacrime. Per farlo, tuttavia, dovrà compiere l’impresa più grande: conoscere se stesso. Ma «quando uno spia sé stesso, sta sfidando la più terribile delle morti».

Nella Leggenda lui è l’unico a sapere la verità sui giocolieri eppure non può svelarla nemmeno a sé stesso. Per riuscirci dovrà spiarsi da solo. Poiché è l’unico in grado di farlo, di spiare le sue stesse mosse: di conoscere se stesso – appunto. Conoscersi, tuttavia, equivale a morire: «morire prima di morire». Gli uomini di questa storia, per farsi Santi e infine diventare dèmoni, o meglio: giocolieri di lacrime, devono rinunciare alla loro stessa vita. Bisogna che accettino il destino di santità che li aspetta, quell’estasi così simile alla maledizione, quel tormentoso non sapere; devono arrendersi alle lacrime e al dolore, all’ignoto e al Male, per diventare finalmente davvero se stessi. Per farsi Santi bisogna soccombere, sottomettersi, accogliere definitivamente quella tensione costante che dovrebbe muovere tutti noi – che muove i Giusti – nonostante tutto, nonostante faccia piangere.

«La sua città, la sua vita non ci sono più. La sua casa sta bruciando. Anche il suo negozio è in fiamme. Il suo passato si sta trasformando in cenere e fuliggine. Ha perso tutto il mondo, eppure l’intero peso del mondo è ora sulle sue spalle. E finalmente accetta anche nel profondo della sua anima ciò che fino ad adesso solo la sua ragione riusciva a cogliere.
È qui, nel centro esatto della rovina, come tanti altri.
È vivo.
Ed è diventato un uomo giusto.
È definitivamente diventato uno dei trentasei giusti che tengono il mondo sulle proprie spalle».

Chissà se smetteranno di risuonarmi in testa i loop di Basinski o se l’immagine dei buchi nell’intricato labirinto di tubi di plastica che mi sta sotto i piedi cesserà di tormentarmi. Può darsi che questo episodio mi porti altrove: in un’altra casa, più grande e più lontana dalle fogne. Chissà se capirò mai chi diavolo è László Darvasi. Sono ancora tanti i suoi libri da tradurre e quindi quelli che forse potrò leggere e inoltre il suo raccontare si riverbera nelle voci dei suoi confratelli, e insieme formano una letteratura immane. Oscura e misteriosa, magica. Le loro storie sono la nostra storia, una leggenda senza fine poiché è una eco alchemica fatta di catarsi e può trasformarsi negli innumerevoli accadimenti che ci circondano. E questo coacervo di leggende e piccoli aneddoti si raggruma ed evoca il Male, ci fa piangere per ritrovarci nell’eternità.

Questo è il potere di László Darvasi, bere la sua pozione miracolosa significa soffrire e risplendere, significa predisporsi a diventare santi. A tramutare il pianto in lacrime. Il metallo in oro puro. Ascoltare il racconto del Male può provocare quella purificazione che ci permetta d’incontrare il nostro dèmone, di vedere il nostro peggior nemico, di comprendere «come si possa diventare santo dopo essere stato uomo». Leggere davvero queste pagine può darci la forza di attraversare il dolore come maledizione ed elevarci al di sopra di noi stessi, farci persone migliori attraverso il contatto col sacro che è il contatto col male che è la catastrofe, ovvero l’orizzonte del cambiamento, la metamorfosi sulla quale si fondano tutte le storie, sulla quale si basa l’essere uomo, la nostra esistenza e l’esistenza infinita di ogni cosa.

«E così si potrebbero ancora raccontare tante altre cose, perché le storie non si esauriscono mai, non terminano, non si prosciugano, proprio come non possiamo mai vedere la fine della vita umana».

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In alto: illustrazione di copertina © Andreco. Si ringraziano Andreco e il Saggiatore per la gentile concessione.

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