Skip to main content

“Domani” il mondo, in quanto mondo culturale umano, può finire e […] una qualsiasi risposta a come possa e debba essere “domani” il mondo comporta la domanda preliminare se “domani” vi sarà un mondo.
(Ernesto De Martino, La fine del mondo, p. 69 – corsivo mio)

Siamo in grado, oggi, di rispondere a questa domanda preliminare? Ci sarà domani, un «domani»?

Se potessimo consultare Lorenzo il Magnifico riceveremmo, con ogni probabilità, una risposta asciutta e stringata del tipo: «del doman non v’è certezza». Certamente non come avrebbe potuto pensare il mecenate fiorentino, ma il suo verso più famoso sta assumendo i caratteri di una verità. Una verità tanto ingombrante da renderci quasi ciechi nei suoi confronti, e così impellente che, il quesito sulla possibilità che vi sia un domani, da preliminare, sta diventando l’unica, inquietante, domanda possibile: siamo davvero in procinto della fine del mondo? Non appena ho ultimato La Trilogia della catastrofe (effequ, 2020) ho avuto l’impressione che, a far scaturire l’esigenza del libro, ci fosse precisamente la volontà di affrontare questo interrogativo. Di farlo in qualità di esseri umani, di soggetti pienamente coinvolti, e non in veste di osservatori.

La particolare congiuntura contemporanea accentua di suo la necessità di approfondire e attualizzare il dibattito sulla possibile fine del mondo così come lo conosciamo; chi potrebbe negare che questa prima metà del 2020 abbia mostrato caratteristiche proto-apocalittiche? Sembrava che l’immane ondata d’incendi in Australia a gennaio fosse sufficiente a farci raggiungere la quota annuale di catastrofi, ma nelle stesse settimane l’uccisione del generale iraniano Soulemani, in pieno stile Guerra Fredda degradava il livello DEFCON tanto da lasciar paventare venti di guerra mondiale, almeno fra i tweet e i meme. A fine febbraio si registravano i primi casi di Covid-19 in Europa, da marzo tutti in lockdown a contare i morti e a piangere in vista della futura crisi economica e sociale. Infine (per ora) arriviamo a giugno, assistendo a qualcosa che ben pochi ritenevano possibile: Stati Uniti in pieno subbuglio, attraversati, con la pandemia ancora in corso, dalla più clamorosa serie di proteste e manifestazioni popolari che il gigante a stelle e strisce possa ricordare, almeno dal 1968 in poi.

Se già a dicembre del 2019 era urgente che si affrontasse la questione «fine del mondo» – e in realtà lo era da ben prima – oggi, è inevitabile. Come una sincronicità di junghiana memoria, la puntualità della Trilogia della catastrofe sembra celare una contezza degli eventi maggiore di quella che ci si potrebbe aspettare.
O forse, le cose si sono messe davvero, davvero male.

Il tema della catastrofe è ovviamente centrale nell’opera, seppur declinato in modo peculiare in ciascuna delle tre sezioni che la compongono; la prima, a cura di Emmanuela Carbé, approccia il discorso partendo da quello che sembra il suo esatto opposto, il «principio», la seconda, scritta da Jacopo La Forgia, conduce negli ansiogeni meandri del «durante» l’avvenimento catastrofico, mentre l’ultima sezione, di Francesco D’Isa, configura l’orizzonte terminale verso cui la catastrofe può trascinare chi ne è colpito, la «fine». Per quanto tale suddivisione possa a un primo sguardo apparire scontata, o comunque la più logica da adottare, essa non rappresenta che un vestito, lo strato superficiale.

Addentrandosi fra le pagine del libro, iniziano a udirsi le molteplici tonalità che costituiscono l’ossatura della sinfonia catastrofica messa in atto dagli autori. Così, a quella che pare una ripartizione razionale, progressiva e sequenziale, come potrebbe darsi per un saggio accademico, se ne sostituiscono, o meglio sovrappongono, altre, che richiedono al lettore l’impiego delle proprie facoltà immaginative, empatiche e creative, piuttosto che di quelle logico-deduttive.

Più che semplicemente esposta, la catastrofe è resa come un percorso, un qualcosa la cui riconoscibilità non è immediata, qualcosa che richiede coraggio e riflessione.
La catastrofe va, in un certo senso, ottenuta. Ancora prima che affrontata.
Le linee tracciate per guidare chi legge fra le varie assi significanti del libro, come fossero le indicazioni stampate sul libretto d’opera distribuito a teatro, sono, giustamente secondo chi scrive, di stampo definitore; cosa intendiamo per catastrofe? Nell’introduzione si legge: «Delle definizioni che ci fornisce l’enciclopedia, la più prossima alla nostra idea di catastrofe è quella di interruzione del continuo, rottura di un equilibrio, creazioni e distruzione di assetti» (pg. 9)

Tale dichiarazione è cruciale, poiché rappresenta una sorta di manifesto filosofico, la cornice entro cui le successive coniugazioni della catastrofe andranno collocate. Lungi dall’essere un accadimento unilateralmente «negativo» e/o devastante, la catastrofe è più un rovesciamento, un profondo cambiamento, un’energica mischiata di mazzo. Troviamo qui una certa continuità con la definizione che il filosofo francese Alain Badiou fornisce in merito all’Evento; questo è una convergenza necessaria di circostanze (storiche, sociali, ambientali, ecc.) che pone le condizioni per «la creazione di nuove possibilità», siano esse positive o negative, non situandosi «semplicemente al livello dei possibili oggettivi, ma al livello della possibilità dei possibili.» (L’ipotesi comunista, Cronopio 2011).

Per l’appunto, «creazione e distruzione di assetti».
Strettamente correlata a questa caratteristica dell’Evento, bisogna sottolinearne una seconda, ugualmente decisiva: l’Evento, come la catastrofe, non agisce esclusivamente su ciò che accade durante il suo dispiegarsi nella realtà e sulle ripercussioni future, ma influenza parimenti il prima, il passato. Per lo meno la funzione significante che esso può assumere per chi si trova a vivere l’accadimento catastrofico, «nel senso che c’è una “necessità”, ma essa si stabilisce sempre retroattivamente» (Hegel o l’immanenza delle verità, A. Badiou & S. Žižek, PGRECO 2017).

L’impossibilità del principio

Il tassello che chiarisce tale decisione è costituito dall’ulteriore specifica definizione di catastrofe che fa da apertura alla prima sezione. Essa si riferisce all’utilizzo del termine nell’ambito della biologia; la corrispondenza è con la nozione di morfogenesi, ovvero la rottura di un equilibrio che, causando profonde variazioni nella rete di legami cellulari che codifica la vita, segna l’inizio del processo di formazione, o disfacimento, «di assetti morfologici di qualsiasi tipo».

Il principio individuato dalla scrittrice, il punto zero dal quale le circostanze hanno iniziato a convergere fino alla congiuntura contemporanea, fino all’attuale stato della nostra rete cellulare storica, è il Congresso di Vienna. Che si tratti di una decisione “economica”, tesa a permetterci di rimanere nella nostra comfort zone di pensiero occidentale, o che effettivamente quest’ultimo, tramandatosi per via dell’istruzione ufficiale e del senso comune, lo abbia infine imposto come episodio in cui collocare le radici della storia che conta, poco importa. Entrambe le affermazioni sono vere. Ciò che conta qui è l’arbitrarietà della decisione.

«Primo novembre 1814, castello di Schönbrunn: inizia il mondo. Mi convinco che tutto il prima è una menzogna, una scrittura epica di un passato che non è mai esistito. Faccio fuori in un attimo secoli e secoli di storia e mi prendo in mano poco più di duecento anni. Mi sento già a mio agio: questo, con un po’ di sforzo, posso vagamente concepirlo» (pg. 24)

Che durante questi duecento anni il susseguirsi degli eventi abbia accelerato parecchio le tendenze auto-distruttive dell’uomo, in particolare tramite la rivoluzione industriale, la globalizzazione e il capitalismo, non giustifica certamente la cesura totale rispetto a quanto avvenuto prima. L’intento del brano non è, chiaramente, quello di sostenere che l’esistenza sia effettivamente cominciata a inizio ottocento, ma creare un prologo puramente narrativo che giustifichi l’attuale stato delle cose.

Immaginando questo fantomatico Congresso animato da strambi personaggi occupati a creare il mondo da zero per via di bizzarri comitati e sottocomitati – «1. Comitato interdisciplinare per la costruzione dello spazio e del tempo» (pg. 31) – Carbé riproduce su carta la stessa operazione culturale che il pensiero occidentale ha condotto su scala globale durante l’epoca moderna e quella contemporanea: frapporre una lente tra come le cose sono e come esse vengono raccontate, un filtro arbitrario fra la realtà e la percezione che di essa si ha, o è concesso avere.

In altre parole, inventare una favola e in base a quella imporre, ideologicamente, una precisa visione del mondo e di come le cose dovrebbero andare. Chi non capisce o si dissocia deve essere senz’altro uno «scemo di guerra». Provate a spiegare a dieci persone qualunque che uno dei rimedi più efficaci per alleviare l’attuale crisi ambientale è quello di lavorare meno; riceverete almeno sette o otto risposte semanticamente in linea proprio con «scemo di guerra».

Perché?
Probabilmente, per usare le stesse parole di Italo Calvino citate dall’autrice: perché «le fiabe sono vere» (pg. 44). E lo sono per almeno due motivi. Il primo di questi, è che esse sintetizzano infiniti destini entro modelli stabili, ma vivi e pulsanti, fatti di carne ed emozioni profonde. Come i miti, si fanno custodi archetipici delle molteplici possibilità e forme dell’esistente. Il secondo motivo è ugualmente interessante; le fiabe sono vere perché, una volta assurte a ideologia, a narrazione culturale dominante, come nel caso del Congresso di Vienna e dei suoi comitati, finiscono col definire la realtà stessa, i limiti entro cui ai cittadini è concesso viverla e, sopratutto, giudicarla. La pergamena di esempi storici a supporto di quanto appena detto impiegherebbe diversi minuti a srotolarsi del tutto; basti pensare al caso più recente e osceno di disastro ideologico, il Nazismo, e alla contemporanea, indiscussa, tensione umana verso la crescita e il progresso, che sta causando danni non meno gravi.

Ci troviamo allora con un tentativo di comprendere la fine partendo dall’inizio; ma se esso è una fiaba così come tutto il resto della trama, tale tentativo non può che risolversi in un fallimento. Principio e termine si rincorrono in tondo senza mai riuscire a definirsi l’un l’altro. Come sarebbe d’altro canto possibile riuscire a raggiungere una qualche verità (non ideologicamente definita), se gli stessi strumenti di ricerca, giudizio e discernimento, sono addestrati per tralasciare ciò che non si confà alla fiaba che li ha generati?

L’inizio fantasmatico, il Congresso di Vienna, diviene allora parodia, pura farsa. Ma il lavoro svolto dai comitati e sottocomitati ormai si è consolidato, la favola a forza di essere raccontata si è trasformata in una verità. Una verità-che-ignora. Ignora in primis il disastro che ha combinato, senza neanche riuscire a vederlo arrivare. Perfetto esempio di una visione del mondo che, infine, diventa trappola. Da buon hegeliano non posso d’altronde che sottolineare l’importanza di questo passaggio, che nel processo di ottenimento della catastrofe, ci permette di salire al gradino successivo. Poiché la rilevanza di quanto scrive Jacopo La Forgia nella seconda sezione, il «durante», emerge chiaramente proprio in funzione di quanto detto finora in merito a fiabe e visioni del mondo, che bisognerà tenere bene a mente.

Durante la catastrofe

A traghettarci verso la seconda sezione del libro troviamo una terza definizione di catastrofe, che si incastra negli spazi disegnati dalle due precedenti, cambiando però istantaneamente le tonalità del discorso. Questo s’incupisce non appena scopriamo che la catastrofe che ci attende nelle prossime pagine è un «esito imprevisto e doloroso o luttuoso di un’impresa», un «improvviso disastro che colpisce una nazione, una città, una famiglia». (pg. 59)

La catastrofe non è dunque solo evento distruttivo, ma, senza dubbio, può anche essere una vera e propria sciagura. Lasciandoci alle spalle, solo apparentemente, l’universo fiabesco e dalle sfumature irreali della sezione precedente, veniamo catapultati in un dipinto estremamente concreto, terribile, spaventoso, mortale. Siamo in Indonesia, seguiamo il diario di viaggio di La Forgia dal momento in cui smonta dall’aeroplano; si trova lì per parlare con alcune persone che sono, letteralmente, sopravvissute a una catastrofe.

Il fatto inquietante è un vero e proprio genocidio, perpetrato a cavallo tra il 1965 e il 1966, da parte di gruppi paramilitari e delle forze armate indonesiane guidate dal generale Suharto, a danno dei membri del Partito Comunista Indonesiano e dei sostenitori, veri o supposti, di sinistra. Si tratta di una tragedia di proporzioni bibliche, rimasta per lo più taciuta e sconosciuta:

«Nel giro di pochi mesi l’esercito guidato da Suharto assassinò più di mezzo milione di militanti e simpatizzanti del Partito Comunista Indonesiano, il più grande partito comunista al mondo al di fuori degli stati socialisti. Altri milioni di attivisti vennero arrestati e trascorsero decine d’anni in prigione. Le conseguenze per il terzo paese più popoloso del mondo e per il proseguo della Guerra Fredda furono enormi ma di quell’immenso massacro in Italia ben poco si conosce» (da «Indonesia, la strage dimenticata», Jacobin Italia 2019).

Questa mancanza d’interesse, non solo italiana, non è innocente o casuale, ma frutto di un accurato lavoro di omissione e occultazione, da inquadrare nell’ostracismo subito dal comunismo in ogni sua forma durante e dopo la Guerra Fredda, con ripercussioni che ancora oggi sono palesi. Basti notare l’involuzione dei parti comunisti europei, passati dall’avere percentuali di voto pesantissime – quasi il 40% in Italia nel 1976 – alla totale sparizione odierna, sia dal discorso pubblico che dai radar elettorali. Uno dei motivi che ha contribuito alla timida e tardiva uscita dal dimenticatoio della brutale apocalisse indonesiana è la pubblicazione, nel 2012, di un singolare quanto agghiacciante documentario: The Act of Killing. Realizzato da Joshua Oppenheimer nell’arco di sette anni, si tratta di un conturbante esperimento; il regista ha chiesto a un gruppetto di anziani carnefici del ’65 di ricostruire cinematograficamente alcune delle torture e uccisioni commesse ai danni dei comunisti durante il grande massacro.
Il risultato è sconvolgente.

Io ho visto il documentario giusto qualche mese fa, e ne consiglio la visione a chiunque, a maggior ragione a chi voglia leggere la Trilogia, poiché aiuta a calarsi psicologicamente dentro ciò che è accaduto, ad affondare le mani in una viva catastrofe – «improvviso disastro» – fatta di terra e sangue; cosa che tenta di fare La Forgia nel racconto del suo viaggio in Indonesia. Se prima eravamo nella posizione di osservare, seppur favolescamente, i processi che possono dar luogo a una catastrofe, ora ci siamo immersi fino al collo. Se gli evanescenti dignitari del Congresso di Vienna non possono che cosare, agire indefinitamente sulla creazione fittizia della storia, i sopravvissuti alla tragedia indonesiana, i loro parenti e gli attivisti, esistono – e soffrono – in un contesto dannatamente reale. La catastrofe inizia a sfaccettarsi e a farsi umana, a costellarsi di incontri, ricordi, episodi, luoghi e nomi.

A cominciare da Wayan, il primo uomo indonesiano che rivolge la parola a La Forgia, e che lo fa per informarlo, dopo una breve conversazione, che «ci sono due Indonesie. Quella prima del 1965 e quella dopo il 1965». Quasi come se sapesse già dove sarebbe finita la sua frase, Wayan individua subito il carattere cruciale di una catastrofe: la capacità di cambiare totalmente le cose, di disegnare nella realtà scenari in piena rottura con ciò che accadeva prima della sciagura. Una sciagura che ancora vive nella memoria di chi ha vissuto in prima persona quel periodo terrificante, come Peritwi, un’anziana donna incontrata presso un centro culturale nella città di Yogyakarta, che racconta: «Mi hanno accusato di avere tatuaggi comunisti sul corpo. Era un’accusa frequente. In realtà cercavano di farci spogliare per violentarci. Per fortuna non è mai successo. Ho confessato crimini che non avevo commesso. Poi mi hanno messo in prigione, a Plantungan, e mi ci hanno lasciato per 14 anni» (pg. 126).

Esperienza simile a quella di Legi, un’altra vegliarda signora presente al medesimo incontro. La donna ricorda come fu rapita, una mattina, dopo un’improvvisa e violenta sortita notturna da parte di tre paramilitari. Legi non era iscritta al partito né a nessun’altra organizzazione, il suo unico crimine era stato quello di aver ballato «ascoltando una canzone che alcuni pensavano fosse comunista, Kejir Kejir.» (ibidem). Se questo era il trattamento riservato a chi era semplicemente sospettato di essere rosso, possiamo facilmente figurarci come sia stato possibile che in così pochi mesi siano state imprigionate, torturate o uccise, così tante persone. Alcune stime contano un milione di morti. Ma l’oscenità di tutto ciò, la cruda e micidiale sistematicità con cui è stata inferta deliberata violenza a donne e uomini innocenti, il male inflitto con tale regolarità da apparire banale almeno quanto quello somministrato da Eichmann nei campi di sterminio tedeschi, non è il lato più oscuro di questa vicenda.

Perché, per il governo indonesiano, nulla di tutto ciò è mai successo. Per la storia ufficiale, nel 1965, in Indonesia non è accaduto proprio un bel niente. Bayu, un ragazzo conosciuto da La Forgia durante un precedente viaggio nel paese asiatico, descrive la situazione con chiarezza: «A Jakarta non mi avevano mai detto nulla. Né a scuola, né in famiglia, né da nessuna parte. Dopo il genocidio c’è stato un regime di trent’anni in cui ci hanno fatto il lavaggio del cervello, ripetendoci fino alla nausea che il comunismo è il male assoluto.» (pg. 81).

Insomma, abbiamo ancora a che fare con le favole.
Il regime indonesiano, supportato dal blocco occidentale del mondo, ha relegato i massacri del ’65 nell’oblio, adoperando una politica di omissione rispetto ai fatti realmente accaduti, di terrore nei confronti di chi provava – e prova – a tenere vivo il ricordo di quelle atrocità, e, infine, di imposizione di un racconto fazioso e totalmente falsato, per non dire inventato di sana pianta, a proposito di quei mesi mostruosi.

Molte delle persone con cui l’autore entra in contatto temono per la propria incolumità. La Forgia stesso racconta dell’ansia che lo avviluppa realizzando di essere, quasi sicuramente, sotto stretta osservazione da parte dell’autorità. L’intera popolazione indonesiana vive soggiogata dall’imposizione del diktat anticomunista e dalla negazione del proprio passato. Gli effetti sull’Indonesia di tale gigantesca mistificazione non sono neanche interamente calcolabili, e anche se da qualche tempo associazioni di varia natura conducono uno strenuo e pericoloso lavoro di giustizia storica, cercando di portare a galla la verità del genocidio, la stragrande maggioranza della popolazione vive totalmente all’oscuro. Nessun monumento commemora le vittime, le TV di stato producono programmi televisivi per cementare la fiabesca versione ufficiale, nelle scuole i bambini cantano inni apologetici in onore di chi ha preso il potere massacrando civili. È come se, in Indonesia, la catastrofe non avesse mai smesso di accadere. È come se fosse ancora in pieno svolgimento.

Se la fantasmagorica vicenda del Congresso di Vienna è una sorta di sketch, uno schema generale di come la mistificazione storica possa generare disastri e tragedie, l’Evento indonesiano è un lugubre esempio delle ripercussioni che essa può avere sulle persone e su intere nazioni. Una testimonianza impressa a fuoco sulla pelle della realtà di come le visioni ideologiche del mondo, le favole ripetute fino allo sfinimento, possano trasformarsi in trappole mortali. Una prova inequivocabile di come la catastrofe non accada semplicemente, ma viva e respiri, si riproduca nella realtà tramite narrazioni inquinate e intolleranti, che, ancora una volta, finiscono per creare verità-che-ignorano.

Questa però non è l’unica lezione qui; la vicenda indonesiana ci dota di uno strumento chiave per affrontare l’ultimo step rimasto nel nostro processo di ottenimento della catastrofe, quello della fine, poiché dimostra che tali verità ignoranti possono essere combattute. Che nonostante la forza delle menzogne ideologiche, nonostante la capillare profondità con cui esse si instaurano nei costrutti sociali, è possibile opporvisi. Vale la pena tentare, questo ci insegnano le donne e gli uomini indonesiani che, malgrado l’enorme rischio, scelgono di lottare per abbattere la favola e tenere vivo il ricordo della verità, anche se con poche speranze di riuscita. Ciò è fondamentale perché, addentrandoci nella terza e ultima parte della Trilogia, emerge un quadro talmente rovinoso che le speranze di riuscita sono, se possibile, ancora di meno.

Gestione della Morte, o sulla Fine

L’accezione di catastrofe adottata da Francesco D’Isa per introdurci alla sezione finale preconizza l’orizzonte definitivo – «che pone decisamente fine a una questione» – verso cui saremo condotti. Essa si riferisce «alla soluzione, di solito luttuosa, del dramma» (pg. 135).

È infine arrivato il momento di fare i conti con la nostra catastrofe, con la spirale di contingenze, già potentemente in moto, che sembra apprestarsi di gran lena a trascinare il mondo – almeno quello «culturale umano» – verso la concreta possibilità della fine e/o di un profondo e sostanziale mutamento di equilibri: il Cambiamento Climatico.

Per la maggior parte, esso viene correlato all’aumento costante della temperatura media del pianeta Terra, a causa dell’immane aumento di emissioni di CO2 e altri gas serra nell’atmosfera, iniziato dopo la seconda rivoluzione industriale, e divenuto un trend in costante crescita da quando il capitalismo e la società dei consumi hanno iniziato la propria scellerata opera nel mondo. Sia chiaro, il clima è sempre cambiato per ragioni indipendenti dall’azione umana, ma l’impennata del flusso di anidride carbonica avvenuta negli ultimi centosettanta anni, e i repentini cambiamenti climatici che a essa hanno fatto seguito, non lasciano alcuno spazio a dubbi rispetto all’origine antropogenica del riscaldamento globale contemporaneo.

Nel Gennaio del 2019 il National Oceanic and Atmosferic Adinistration (NOAA) ha pubblicato i risultati delle annuali misurazioni di CO2 nell’atmosfera terrestre, registrando in media una concentrazione di 409,92 PPM (Parti Per Milione); negli ottocentomila anni che hanno preceduto la rivoluzione industriale la stessa media non ha mai superato le 300 PPM. La quantità è così alta che l’aumento delle temperature non che è uno fra gli effetti climatici provocati. Il sistema Terra è talmente interconnesso che una volta alterato in modo eccessivo abbandona un andamento stabile, in favore di una traiettoria molto più variabile e suscettibile a forti oscillazioni. Bisogna quindi «riconoscere che sistemi dinamici in grado di autoregolarsi come voi, me e la Terra, se sufficientemente stressati, passeranno da una retroazione negativa stabilizzante a una positiva con effetti destabilizzanti. […] essi diventano amplificatori del cambiamento e, in quanto tali, non distinguono tra riscaldamento e raffreddamento.» (Gaia ultimo atto –  James Lovelock, Felici Editori, 2012)

Non dobbiamo dunque aspettarci un semplice incremento più o meno lineare della temperatura, ma piuttosto un mix imprevedibile di alti e bassi climatici, sia caldi che freddi, e di rotture eco-sistemiche; dalle ondate di calore alle improvvise inondazioni, fino alla morte massiva di foreste, alle estinzioni di massa e allo sconvolgimento del regolare andamento stagionale, con la progressiva dissoluzione dei periodi intermedi fra estate e inverno e l’aumento di eventi climatici estremi.

Ma l’uomo non vive separato dal sistema Terra, ne è piuttosto ontologicamente dipendente. Quindi le conseguenze dirette sulla produzione e la disponibilità di cibo, sull’apporto di acqua, sulla trasmissione delle malattie e in generale su ogni aspetto della vita delle persone, sono talmente profonde da lasciar paventare gravi crisi alimentari, idriche, sanitarie, e quindi anche migratorie e belliche. Non siamo altro che realisti, allora, se notiamo come la crescita delle temperature, le siccità, lo scioglimento dei ghiacci, l’aumento del livello del mare, la proliferazione di eventi climatici estremi e distruttivi, la scarsità delle risorse tanto primarie quanto secondarie, le disparate e diffuse crisi sistemiche, le innumerevoli colonne di uomini costretti, a ogni latitudine, a spostarsi verso le terre rimaste abitabili attraversando territori già martoriati dalla povertà, dallo sfruttamento e dalle divisioni politiche, etniche e religiose, trasformerebbero il pianeta in una vera e propria polveriera con multipli punti critici pronti a esplodere in un caos generalizzato.

Il cambiamento climatico allora, nel suo concretizzarsi tramite catene distruttive e destabilizzanti, tanto ambientali quanto economiche e socio/politiche, è una minaccia concreta alla stessa esistenza della civiltà globale contemporanea. In sintesi:

«Even for 2°C of warming, […] the scale of destruction is beyond our capacity to model, with a high likelihood of human civilization coming to an end.» (Existential climate-related security risk: A scenario approach – Ian Dunlop & David Spratt, Breakthrough, National Centre for Climate Restoration, 2019)

Già così l’affresco è drammatico, ma è anche peggiorabile.
Oltre ad aver determinato l’insorgere di un problema tanto grande da non essere nemmeno interamente concepibile – il Cambiamento Climatico è l’iperoggetto per antonomasia – siamo anche rimasti ciechi e apatici nei suoi confronti, tanto da privarci della possibilità di tamponare in qualche modo quello che sta succedendo.

«Qualche decennio fa, forse, era possibile limitare i danni con degli interventi ragionevoli, ma il problema è proprio qui: ragionevoli, e noi non lo siamo. La metto giù nel modo più diretto possibile: uno stile di vita improntato sul consumo esponenziale da parte di un numero sempre crescente di persone in un ambiente con risorse limitate è un’idea cretina» (Trilogia della catastrofe, pg. 159)

È qui che, ahinoi, ci tocca tornare ad avere a che fare con le favole.
Per l’esattezza, con la favola neoliberista. Se certamente alcuni attori hanno più colpe di altri, sono le abitudini e i comportamenti di ognuno di noi, nel nostro ruolo di ligi consumatori, ad aver alimentato la macchina divoratrice capitalista. Il mito della crescita, e con esso quelli del progresso e del lavoro, sono le fiabe a cui ognuno di noi crede ogni giorno semplicemente vivendo secondo il modello socioeconomico contemporaneo. Un modello imperniato sul raggiungimento del massimo benessere individuale, poco importa a spese di chi, o cosa. E nonostante ormai il supporto scientifico rispetto al disastro entro cui stiamo iniziando ad annaspare sia quasi unanime – resta qualche furbastro petroliere negazionista – non si è assistito a nessuna mobilitazione per tentare di arginare (realmente, non a parole) il problema. Perché? D’Isa spiega questa sorta d’ignoranza volontaria appellandosi a quella che chiama GdM, ovvero, Gestione della morte. In sostanza, l’essere umano in quanto animale, agisce secondo un unico, radicato, principio: evitare la morte. Da questa causa primaria vanno poi scaturendo i meccanismi di sopravvivenza che orientano il nostro comportamento. Il problema sorge quando la forza collettiva di tali meccanismi – esercitata da quasi otto miliardi di persone – per alimentarsi ha bisogno di sfruttare fino all’osso le risorse del pianeta, senza curarsi della distruzione irreversibile verso cui lo scaraventa. Distruzione disperatamente – ma con successo – obnubilata da uno dei più potenti automatismi umani, che fa parte dell’armamentario GdM e ci ha perseguitato lungo tutto l’articolo: vivere secondo le favole, e non secondo realtà. Orientare la nostra azione in base alle verità-che-ignorano.

Tuttavia non abbiamo tempo di crogiolarci mestamente nel senso di colpa, poiché non abbiamo scelto di essere qui, ora; piuttosto «ci siamo trovati in un certo mondo (quello occidentale contemporaneo) e siamo stati educati a un certo comportamento (quello occidentale contemporaneo)» (pg. 188). L’unico errore che dobbiamo imputarci  è quello «di non averlo messo abbastanza in dubbio, di non esserci opposti.» (Ibidem)

Ma se per affrontare direttamente il cambiamento climatico siamo ormai fuori tempo massimo, lo stesso non può dirsi per la lotta alla favola che l’ha generato, l’economia capitalista. Per questo siamo ancora decisamente in tempo. Anche se, come gli attivisti indonesiani, possiamo contare su ben poche speranze; ma poche sono pur sempre meglio di nessuna. Viene in mente quanto sentenziato da Slavoj Žižek alla fine de La nuova lotta di classe (Ponte Alle Grazie 2016): «L’unica cosa che può impedire la catastrofe è il volontarismo puro, vale a dire la libera decisione di agire contro la necessità storica» (corsivo dell’autore).

Ed è qui che, in conclusione, emerge la grande assente nella Trilogia, l’ultima dimensione della catastrofe, l’unica che possiamo ancora provare a maneggiare: la dimensione politica.

La volontà e l’avvenire

Il nostro processo di ottenimento della catastrofe, dopo aver rivelato il suo legame con le favole tramite cui codifichiamo la storia, e toccato con mano gli effetti che l’applicazione indiscussa delle visioni del mondo fantasmatiche può avere su un’intera nazione, ci ha condotti infine sul ciglio di un’apocalisse globale e potenzialmente definitiva e annichilente. Un’apocalisse causata – e oggi faziosamente trascurata – dalla verità-che-ignora attualmente al comando.

Decidere di opporsi all’unica narrazione contemporanea, quella che non riesce a fare a meno del capitalismo, è la sola opzione concreta che ci resta. E dobbiamo tentare di percorrerla, anche se consapevoli che l’obiettivo possibile non è scongiurare la catastrofe, ma fare in modo che il risultato della creazione e distruzione di assetti che ad essa farà seguito permetta all’uomo di sopravvivere, magari più armonicamente con il resto del pianeta, e non lo scaraventi entro scenari spaventosi. Quando il discorso sulla catastrofe finisce per coincidere con quello sulla possibilità di un futuro vivibile, dovremmo ricordare le parole di Antonio Gramsci, per cui «l’avvenire non è che un prospettare nel futuro la volontà dell’oggi come già avente modificato l’ambiente sociale» (Odio gli indifferenti, Chiarelettere 2019) Ecco, questo tipo di volontà, è volontà politica. E faremo bene a ricordarlo tutti, prima possibile. Nelle ultime settimane alcune statue hanno iniziato a cadere sotto i colpi della furia popolare: che qualcuno stia smettendo di credere alle favole?

14 Comments

Leave a Reply