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Prendeva le onde di petto, aspettando che il mare si increspasse in una linea di schiuma, lì sul frangiflutti. Lei invece rimaneva dietro, bagnandosi le caviglie, e lo guardava. L’acqua era ancora troppo fredda.

«Laura, guarda com’è grande questa! Dai, tuffati!».

Era sempre stata la più riflessiva, diceva la mamma. Pensava alle cose, poi ci ripensava ancora, e quando finalmente sembrava aver trovato una soluzione allora ci pensava di nuovo. Lì ferma sul bagnasciuga, c’era un filo sottile di vento che le gonfiava appena il vestito, bianco e largo. Non se l’era ancora tolto.

«Laura! Sono enormi, muoviti!».

Laura rimaneva sulla riva, a prendersi gli schizzi delle onde.

«Laura!».

«Aspetta Giò, è fredda! Penso che verrò tra un pochino».

Gioele aspettava le onde in piedi, e quando stavano per arrivare faceva due bracciate con il suo corpicino magro per farsi sollevare dall’acqua. C’era un odore di sabbia e conchiglie intorno. A quell’ora il sole era una grande macchia bianca dai confini dilatati, ferma in un cielo che sembrava colorato con pastelli nuovi, appena usciti dalla scatola. Laura ancora non si buttava – l’acqua era sempre troppo fredda – nonostante quel sole che le picchiava sulla testa, scaldandola sotto il cappellino con la visiera. Il vestito continuava a muoversi spinto dal vento.

Dopo pranzo bisognava aspettare sempre un sacco di tempo prima di fare di nuovo il bagno, allora Gioele si allontanava un po’, con il contenitore di plastica per le bocce e il suo amico che stava due ombrelloni più in là. Palle di quattro colori diversi che rimanevano sospese in aria per poi tuffarsi nella sabbia vicino a un boccino piccolo e rosso. Ce n’era una vuota, che prendeva sempre il vento e andava dove le pareva, ed era meglio tirarla per prima se non si voleva rischiare di perdere la partita.

«Perché tua sorella non gioca?» gli chiese il suo amico, un bambino bruno con una voglia sulla guancia che sembrava l’estremità arrotondata di una freccia. Gioele alzò le spalle e strinse appena le labbra.

«Non ne ha voglia».

Laura era seduta sotto l’ombrellone, di fianco alla nonna che leggeva un libro avvolto in una carta di giornale – perché la sabbia non si infilasse tra le pagine, diceva lei – che sistemava con cura sopra la copertina. C’erano anche i libri che ogni tanto leggeva ai bambini: a Gioele piaceva quando gli raccontavano le storie, storie di pirati, di eroi e di ragazzi che non dovevano fare i compiti, ma cose da grandi: occuparsi delle provviste, lucidare le armi, annodare le corde nel modo giusto, bere rum. A lui sarebbe piaciuto essere quello che si arrampicava sull’albero maestro e guardava lontano con il cannocchiale, il primo a vedere la costa frastagliata o i boschi, gli alberi arcigni che nascondevano qualcosa da secoli, il primo a sapere che era la direzione giusta, che sarebbero arrivati presto. Incrociò lo sguardo di sua sorella, seduta per terra con le ginocchia raccolte sotto le braccia, che giocava a farsi strada nella sabbia con i talloni. Il vento soffiava un po’ più forte, e ogni tanto i capelli lunghi le coprivano gli occhi. Una bottiglia di plastica volava, vicino alla duna.

«Chi vuole una pesca?».

«Io, nonna, io voglio una pesca».

«Come si dice?».

«Per favore».

«E prima?».

«Vorrei».

Giò aspettava con le mani tese, mentre la nonna frugava nel sacchetto.

«Per favore, nonna».

«Non essere impaziente! Arriva. Guarda tua sorella, come sta lì buona ad aspettare».

«Laura è sempre buona. Non fa mai niente».

«Smettila».

«Cosa fai, Laura? Perché non giochi a bocce con noi?» chiese il bambino con la voglia a forma di freccia.

Laura alzò gli occhi, due biglie grigio chiaro che interrompevano la pelle abbronzata. Aveva qualche lentiggine sulle guance. Guardò anche suo fratello. Giò masticava la pesca, sbrodolandosi le mani. Anche lei prese la sua. Gliel’avrebbe lanciata in faccia, a quel rompiscatole, ma poi la pesca si sarebbe sporcata di sabbia e sarebbe diventata immangiabile.

Di nuovo in mare, ma adesso le onde erano più calme. Si sentiva il vociare dei bambini, dappertutto, e le chiacchiere dei grandi. C’erano uomini e donne con gli occhiali da sole che accompagnavano bambini minuscoli nell’acqua. Arrivava l’odore della pineta, un profumo sottile di resina, portato dal vento, la resina che ti si appiccica al costume quando non stai attento a dove ti siedi. Laura guardava il mare indecisa: forse finalmente avrebbe fatto il bagno. Il mare correva lungo il bordo della spiaggia, davanti ai teli multicolore degli ombrelloni, che tremavano appena. Suo fratello aspettava vicino a lei.

«Non fa paura, vedi? Non può succedere niente».

Giò cercò di prenderle la mano, ma lei le teneva entrambe strette sui fianchi. Quando arrivava un’onda, la schiuma leggera si ritirava e le scopriva i piedi. Era ancora pulita, l’acqua, all’inizio dell’estate. Laura affondava le dita nella sabbia sepolta dal mare, le sue unghie ci annegavano dentro. Per un po’ seguirono insieme un luccichio che si riverberava intorno a loro, brillando sulle pieghe azzurrognole… Gioele avrebbe voluto spingere sua sorella tra le onde, ma poi lei avrebbe pianto e lui le avrebbe prese dalla nonna. Allora alzò le spalle e si mise a correre, accontentandosi di spruzzarla, fino a scomparire sotto la superficie.

Nell’acqua, tra un’onda e l’altra, Gioele e il suo amico gridavano indicando la barca.

«Buoni!» urlò la nonna da sotto l’ombrellone. Aveva gli occhiali scuri, dietro al libro con la copertina di giornale.

«Nonna, c’è una barca, hai visto!».

«Sì, ho visto, Gioele, ma non fare tutto questo chiasso. Disturbi le altre persone».

«Voglio andare su una barca, nonna».

Era una barca per le gite alle grotte, lontana, che avanzava pigra sulla linea dell’orizzonte. Alla fine non ne avevano mai presa una, nonostante le promesse, forse domani, forse domenica, quando ci siamo tutti e possiamo prenderci la giornata. Barca o gelato? Vinceva sempre il gelato.

«Dov’è tua sorella?» chiese la nonna.

 «Non lo so, ci mette sempre un’ora». Si girò e iniziò a nuotare a dorso, come gli avevano insegnato in piscina, poi si girò di nuovo e infilò la testa sotto, con il naso tappato, per non respirarla ma anche perché sapeva che in mare erano in tanti a fare la pipì, e lui non voleva rischiare. Scese giù fino in fondo. Era così strano, sotto, tutto lento e senza suoni, solo un ronzio sottile come quello della tv quando non funziona bene, e gli sembrava che potesse succedere di tutto, in quel tempo lunghissimo, e si chiedeva se fosse possibile che il fondale si aprisse, lì nello spazio schiarito appena dalla luce che filtrava incerta come una lampadina che si sta scaricando, nello spazio in cui si comunicava come sordomuti, con le bolle che scivolavano fuori ai lati della bocca. Si chiedeva se fosse possibile che il fondale si aprisse e mostrasse un mare sotto il mare, una spiaggia sotto la spiaggia, senza ombrelloni ma piena di animali in vacanza che abitavano lì e non facevano altro che stare insieme, farsi il bagno, accontentandosi di quel sole tenue che arrivava, senza bisogno della crema solare, senza nessuno che li disturbava.

Riemerse con la sabbia tra le dita, e si girò di nuovo verso la riva per mostrarla alla nonna. Guardò il punto in cui poco prima c’erano i piedi di Laura, affondati nella sabbia molle e bagnata dalle onde.

C’era solo una spuma leggera a sporcare la spiaggia.

Passò un’ora buona, ma non la trovavano. Nella pineta, niente. Fecero annunci all’altoparlante, il bagnino la cercava col binocolo. Gioele gli stava vicino, ma non aveva il coraggio di chiedergli il permesso di guardare le barche all’orizzonte. L’altro bambino rimaneva un po’ più indietro, con la bocca un po’ aperta, e la nonna non si dava pace.

Poi arrivò un uomo con i baffi che l’accompagnava per mano. Laura aveva il vestito sporco di sabbia e i capelli bagnati, ispessiti dal sale.

«Laura!» la nonna le andò incontro.

«Perché tua sorella fa così?» chiese l’altro bambino.

Gioele si strinse nelle spalle, mettendo in evidenza la clavicola.

«A volte lo fa», disse.

Sua sorella guardava in basso, la mano sinistra stretta in quella dell’uomo con i baffi, grande e abbronzata, che la lasciò andare quando arrivò la nonna. Gioele guardava le pieghe dell’ombrellone mosse dal vento, la stoffa azzurra che ondeggiava innocua, la canottiera appesa ai raggi che si era avvolta su se stessa.

«Questa volta le prendi», disse la nonna. «Domani stiamo tutti a casa, così vediamo se capisci. Cosa ti salta in mente di prendere e andare? Quando mai vi ho detto che potete andare in giro per la spiaggia da soli? Mi hai fatto prendere un colpo!».

Laura aveva ancora i capelli umidi, e Gioele le guardava la crosta finissima del sale sulle guance.

«Hai i peli biondi qui» le disse indicandosi la faccia.

«Smettila!».

«Dove sei stata?» le chiese piano, per non farsi sentire dalla nonna, impegnata a sistemare le cose nella borsa da spiaggia. «Perché hai fatto il bagno senza di noi? L’hai fatto col vestito?».

Laura stringeva appena gli occhi per difendersi dal sole.

«Dai, dimmelo».

«No».

«Dai. Hai visto? Non è fredda».

«Non tanto. Se scendi un po’ giù e supera la pancia e le spalle».

«Ma col vestito?».

 Laura annuì. La stoffa bianca era ancora aderente alle costole.

«Hai bevuto?».

«No. Mi sono chiusa il naso, come dici sempre».

Giò sorrise. Guardava le striature colorate nell’acqua. Inseguiva la luce che rimbalzava sulle onde, come i sassi piatti che lanciava sul fiume quando erano in montagna.

Mentre camminavano verso il campeggio si fermò un attimo per risistemare la sacca a tracolla e si voltò a guardare la spiaggia; era strana, con tutte quelle schiene abbronzate, giornali e sedie a sdraio inclinate a metà, uomini con la pancia che parlavano fra di loro e donne con i cappelli di paglia con la tesa di sghimbescio sulla fronte, qualcuna aveva uno o due tatuaggi, e i secchielli in bilico su mucchietti di sabbia e conchiglie, castelli franati quasi subito, abbandonati da bambini che nuotavano o facevano merenda, o inseguivano biglie che correvano dentro a piste scavate con le mani. Pensava che gli sarebbe piaciuto un binocolo come quello del bagnino per il suo compleanno, per guardare le barche. In fondo, neanche lui si cambiava il costume, aveva sempre quello.

«Allora domani non venite?». Era ancora il bambino con la voglia a freccia, che gli parlava gridando dall’ultima fila di ombrelloni.

Gioele alzò le spalle di nuovo. «Non credo. Dipende se la nonna è ancora arrabbiata».

«Giriamo in bici nel campeggio?».

«Forse». Si affrettò per raggiungere la nonna e sua sorella, che erano quasi oltre la duna, non prima di avere raccolto un bastoncino dalla sabbia: un gioco in più era meglio di uno in meno per una giornata senza mare. Se avesse avuto il coltellino, come quello che gli prestava la mamma in montagna, lo avrebbe pulito tutto, scoprendo la superficie liscia e chiara sotto la corteccia.

Quando la raggiunse, Laura aprì il pugno e mostrò una conchiglia sporca di sabbia.

«Dove l’hai presa?».

«Sotto».

«Ti ha davvero trovata quel signore?».

Annuì appena. «Ma guarda che non ho pianto».

Sulle dune i ciuffi d’erba si muovevano appena, come le alghe sul fondale. Superarono l’ultimo bagno prima della pineta, gli spogliatoi con le porte verniciate di azzurro, con i giochi accumulati davanti, lasciati lì: una ruspa gialla, una fila di formiche vicino a un remo appoggiato di traverso al muro, un canotto sgonfio che era lì da chissà quanto, con il bordo di gomma arancione appena sfrangiato dal tempo. Poi entrarono nella pineta.

Le ombre iniziavano ad allungarsi sul campeggio. Il sole rosso e spropositato si adagiava oltre i pini marittimi e sembrava colorare il cielo mentre rotolava dietro la linea dell’orizzonte, come se lo avessero passato nella tempera. Al tavolino due uomini si godevano gli ultimi raggi tiepidi, con le gambe stese in avanti e le birre a portata di mano. Giò si avvicinò nel suo accappatoio troppo grande, facendo attenzione a non sporcarsi i piedi bagnati.

«Sei tu il signore che ha riaccompagnato mia sorella?».

Uno dei due, l’uomo con i baffi, lo guardò.

«Sei tu che l’hai trovata?», chiese di nuovo Gioele.

«Ciao. Ti sei perso anche tu?».

«No, io sto là», disse indicando un punto del campeggio in cui i pini si diradavano, lasciando intravedere i tetti blu dei bungalow. «Me lo puoi dire se hai trovato tu mia sorella?».

L’uomo si grattò i baffi, mentre si metteva composto.

«Sì, sono io».

«Mi sembrava. Cosa stava facendo mia sorella?».

L’uomo bevve un sorso. «Stava facendo un bagno un po’ troppo lungo. Mi sa che aveva perso di vista il vostro ombrellone».

«Ma non ti ha detto niente?».

«No. Era un po’ spaventata. Avevo sentito l’annuncio all’altoparlante, e ho pensato che fosse lei».

«E non l’hai chiesto a lei?».

«Cosa?».

«Cosa stava facendo. Non le hai chiesto niente?».

L’uomo si tormentava i baffi. «No, non mi sembrava importante».

«A me importa, invece».

Fuori dalle docce, i ragazzi si schiantavano gli asciugamani addosso, ridendo e rincorrendosi avvolti per metà in teli colorati. Nella loro piazzola, dalle tende, saliva un profumo di carne alla griglia che si mescolava all’odore di crema doposole e shampoo, un odore fresco, più buono di quello degli spogliatoi della piscina. Giò si strofinò il cappuccio sui capelli bagnati. Tra poco sarebbe stato il tempo delle foglie che si muovevano nell’oscurità, delle luci gialle antizanzara, dell’odore immobile della notte, dei gelati – quanti ne avevano mangiati, insieme a lei. Delle storie prima di dormire, una sui pirati e una sugli animali, come sempre. Il tempo del mare col buio, così timido e tranquillo, che solo una volta erano andati a vedere. Si avviò verso il bungalow, facendo attenzione a non fare entrare la sabbia nelle ciabatte bagnate.

Nella stanza si intravedeva una piccola luce che passava dalla finestra spalancata, attraverso le zanzariere, una luce bianca di lampione. Gioele allungò una mano verso il basso, dal letto a castello.

«Laura. Mi senti?».

«Sì», bisbigliò lei nel buio.

«Sono qui». Allungò una mano per toccare la sua. Mantenne la presa.

«Credi che domani la nonna ci terrà a casa per punizione?».

«Forse. Forse la punizione si annulla perché stasera ci ha mandati a letto prestissimo».

Rimasero in silenzio per un po’.

«Ma perché ti sei allontanata oggi? La nonna si è preoccupata».

«Volevo stare da sola».

«Nell’acqua?».

«Nell’acqua c’è più silenzio».

«E dove eravamo noi non andava bene?».

«Lì c’erano troppe gambe, sotto. Volevo stare da sola».

Gioele continuò a tenere la mano di sua sorella. La nonna doveva avere spento la tv, perché l’unico rumore che si sentiva era quello delle cicale, che non si stancavano mai di frinire.

«Perché non mi hai chiamato?».

«Volevo stare da sola con lei». Giò le strinse appena le dita.

«Hai pregato di nuovo?».

«Sì».

Il silenzio e le cicale intorno. Sempre quella pallida luce bianca, che non illuminava niente.

«Giò».

«Sì?».

«Sei arrabbiato?».

«No. Ma non farlo più. La nonna si spaventa».

«Pensi che tornerà?».

«Lei, dici?».

«Sì».

«Lo spero. Ma non domani. La nonna dice sempre non domani».

«Oggi era con me, mi sa. La sentivo. Chiedo sempre che arrivi qui, sulla spiaggia».

Fecero silenzio per un po’, finché non si sentivano più neanche le voci dei ragazzi grandi. Adesso era davvero buio.

«Però non allontanarti più così», disse Giò. «Promesso?».

«Promesso».

Fuori, la luna si affacciava timida, come incuriosita dalle tende nelle piazzole, preoccupata di custodire il sonno del campeggio, il lieve russare che si avvertiva qua e là, il bisbigliare di chi, per qualche ragione, non riusciva a dormire. Le cicale continuavano imperterrite a farsi sentire, nascoste chissà dove, tra gli aghi di pino e i cespugli che delimitavano il perimetro del campeggio, mentre qualche falena lambiva la luce al neon dei bagni. La pineta proteggeva la spiaggia, raccolta nell’oscurità, con i lettini piegati l’uno sull’altro ad aspettare che un’altra giornata incominciasse, e poco oltre il profilo del promontorio si stendeva lungo la linea dell’orizzonte, come se la terra volesse curiosare un po’ più in là, fino alla luce intermittente del faro.

La notte cullava il mare, avanti e indietro. Forse domani avrebbero fatto di nuovo il bagno, alla fine.

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↔ In alto: foto Arseny Togulev / Unsplash.

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