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Il palmo della sua mano si appoggia tra le mie scapole e preme. Sento la canottiera sintetica appiccicarsi alla mia pelle per il sudore, la fascia lombare tendersi, i muscoli allentarsi sfiniti, le vertebre distanziarsi tra loro. Il respiro mi si mozza per lo sforzo. Devo mantenere la posizione, seduta per terra a gambe distese con le mani che arrivano ad afferrare le punte dei piedi.
«Cazzo, Andrea» gli dico, espellendo in un rantolo il mio malessere. Accucciato vicino a me, senza smettere di forzare la mia schiena ad avvicinarsi alle ginocchia, sorride – non posso vederlo, ma so che sta sorridendo – e mi risponde: «Molto meglio, dai. Respira però, respira». Cerco di concentrarmi sull’aria che entra ed esce dai miei polmoni, sul gonfiarsi e sgonfiarsi del mio addome che genera, con il suo movimento, un tirarsi di altri muscoli che poco tempo fa ignoravo di avere. «Devi sforzarti di fare ogni giorno un po’ di più, se non vai oltre il tuo limite il corpo s’impigrisce» aggiunge, poi non sento più la sua mano e lo vedo alzarsi. Sciolgo la posizione, mi lascio cadere supina sul tappetino.
«Quando finirà tutto questo?» gli chiedo in tono sarcastico, e si sa che il sarcasmo è paggetto della verità. «Sono sfinita e povera. Voi fisioterapisti costate troppo».
Andrea si riavvia i capelli neri, beve un sorso d’acqua dalla sua bottiglietta.
«Tira su le gambe» mi ordina con il tono di un padre pacioso verso la sua figlioletta pigra di cinque anni.
Gli dedico una smorfia di teatrale sfinimento, ma obbedisco. Afferra i miei talloni, poi mi spinge le punte dei piedi verso il basso. I polpacci si tendono, il nervo sciatico della gamba sinistra comincia a formicolare. Fa male. Restiamo così, io sdraiata con le gambe per aria e lui che mi manovra i piedi, che misura le sue mosse sulla base del disagio che vede comparire sul mio volto contrito. Lamentati quanto vuoi, mi sembra di leggergli negli occhi, hai male perché devi correggerti e lo farai, richieda il tempo che richieda. Un nuovo approccio al dolore, che passa attraverso le sue mani ferme: soffrire è sano, avvilirsi no.
Prima di cominciare la terapia mi aveva chiesto da quanto soffrissi di lombosciatalgia. «Circa sei mesi» gli avevo risposto, cercando nel suo sorriso serafico un poverina che se te lo dice un esperto puoi sentirti al sicuro, invece Andrea impassibile aveva ribattuto «Allora è proprio il caso provare a fare qualcosa» lasciandomi intendere che la bacchetta magica non ce l’aveva nessuno, tanto meno lui, nonostante il suo preventivo avrebbe dilapidato i miei miseri risparmi. Mi aveva interrogata su eventuali sforzi fisici del mio passato che potessero avermi ridotta a soffrire così, ma non avevo fatto niente di anomalo o azzardato, nessun movimento errato che potesse esserne la causa, da un annetto circa non facevo nemmeno sport.
«Insomma, niente di niente?» mi aveva domandato, riservandomi uno sguardo indagatore. Riteneva che potessi prenderlo in giro o nascondergli qualcosa. Niente era una parola che forse non gli piaceva.
«Niente» avevo ribadito. Il capo chino, aveva spuntato qualche casella sul foglio contenuto in una cartellina che aveva sotto gli occhi e che da quel momento avrebbe avuto il mio nome e cognome, poi anziché rimproverarmi per la mia negligenza, come mi aspettavo, mi aveva sorpresa aggiungendo: «Spesso i traumi di chi soffre di un dolore cronico non sono per forza fisici. Un paziente tempo fa aveva un problema a una spalla e ho scoperto durante la terapia che era diventato vedovo da poco. Quanto ci si mette a guarire dal lutto? Non posso saperlo. Io posso solo aiutare la sua spalla a muoversi meglio».
Mi aveva sorriso, aveva richiuso la cartellina e posato la penna. «Cominciamo domani?» aveva poi concluso, come se mi stesse invitando a bere una cosa. In quel momento avrei voluto afferrarlo per la maglietta e urlargli che non poteva liquidarmi con risposte da santone, con quello che mi sarebbero costate, invece gli avevo sorriso di rimando e semplicemente avevo annuito, cercando di soffocare quella sensazione di timore che sentivo dentro, il preannunciarsi di un cambiamento impercettibile che avrebbe mostrato i suoi effetti in maniera inaspettata. Dovevo passare dal niente a qualcosa che non sapevo, come se mi avesse ordinato di fare le valigie per una destinazione ignota: che ci avrei messo dentro?
Le prime sedute erano state un disastro, il mio dolore era in una fase così acuta che mi era impossibile fare esercizio, semplicemente mi lasciavo manovrare, non potendo far altro che fidarmi di quel ragazzo mentre nella sua devota concentrazione toccava i miei punti deboli, dandomi sollievo e sofferenza insieme, che poi non è altro che la miglior formula per prendersi cura di qualcuno, ma la me dolorante faticava ad accettarlo. Mi faceva alcune domande banali per distrarmi: quanti anni hai, cosa hai studiato, che lavoro fai, dove abiti, cosa farai questo fine settimana, hai un fidanzato.
Rispondevo a tutto, ma con la strana e improvvisa sensazione che quelle risposte fossero sbagliate. Ho trent’anni suonava come la perdita dell’innocenza. Sono laureata in lettere classiche pareva la confessione di un suicidio mezzo compiuto. Faccio l’impiegata sembrava nascondere un sì, lo so, non è una grande conquista. Abito con altre due amiche era certamente la prova di una celata lamentela verso un grande  compromesso, da chiudere nel cassetto in cui riponevo quotidiane rinunce. Leggerò e forse andrò al cinema aveva il sapore della frustrazione data dalla routine che si cerca di lenire con la curiosità intellettuale, però non basta, non basta mai. Infine, mi manca Gabriele che ormai è troppo lontano per dirglielo e pensare che conti qualcosa era poi il preludio della nausea, infatti all’ultima domanda avevo soltanto risposto scuotendo il capo. Andrea ascoltava continuando a manovrare il mio corpo, e quando si soffermava su un punto e mi chiedeva «Ti fa male?» per un attimo avevo la sensazione che fosse un commento più che appropriato alle mie risposte.
Come fosse iniziato tutto non me lo ricordo, e con tutto intendo quel progressivo cristallizzarsi di ogni cosa. La vita era sempre stata una corsa a briglie sciolte, fatta di scoperte, scelte e credo spassionati, poi a un certo punto si era infilata dentro, tra le costole, come uno spiffero freddissimo che sguscia tra gli infissi, la paura del procedere e dei suoi costi e avevo sentito forte l’ordine di rallentare, stabilizzare, razionare. Bisognava, a un certo punto, fare i conti con il numero di caduti e di sopravvissuti. L’ho chiamata adultità e l’ho vista tradurre l’amore in un sasso scagliato con forza verso l’altro per difendersi prima di venire attaccati e le risate in mimi di labbra attaccate a calici di vino per sentirsi legittime. Giorni, mesi e anni a ricercare la regolarità, la giusta dose di resilienza, orgoglio e pragmatismo, la distribuzione equa delle forze e delle risorse, l’accoglienza del torpore interno che ne deriva. Quel camminare lento, raggiratore di ostacoli ha dovuto però scontrarsi con l’intruso il giorno in cui ho cominciato a sentir male lungo la gamba, uno strano formicolio che diventava fastidioso e pungente con l’andare delle settimane e che spesso conviveva con il mal di schiena. Il dolore muscolare è l’altra faccia della stasi, di tutto quel tempo buttato a rimanere nella stessa posizione che via via ti irrigidisce come un legno.
«Il tuo corpo richiede un cambiamento, che tu lo voglia o no» mi aveva detto Andrea al nostro primo incontro, suggerendo che quello che io percepivo come un male improvviso e invadente fosse presente da molto più tempo. Quel pezzo di legno che ero aveva scoperto tardi le sue tarme, invisibili nel guadagnare ogni giorno qualche piccolo spazio, per vederlo alla fine diventare un cratere.
«Pensa a qualcosa di bello mentre faccio pressione, perché farà male» mi avverte scherzosamente mentre mi aiuta a portare le ginocchia al petto. Questa cosa del pensare positivo mentre provi dolore mi ha sempre mandato ai matti, avrei voluto rispondergli, ci riescono solo gli attori nei film che ripensano alla loro infanzia felice mentre stanno per morire, ma il fastidio improvviso alla schiena mi aveva soffocato la lamentela, convertendo il mio respiro in un colpo di tosse. Per altro, io all’infanzia cercavo di pensarci il meno possibile. Il giorno del mio trentesimo compleanno, insieme a una torta e a un mazzo di fiori, mia madre mi aveva portato, come biglietto d’auguri, un disegno che avevo fatto da bambina. Avevo disegnato proprio il mio compleanno, di venticinque anni prima. Sul foglio avevo colorato una casa con un giardino, sole, alberi, fiori, animaletti tra il reale e il fantastico, la mia figura stilizzata che mentre soffiava sulle candeline teneva la mano dei miei genitori, mia sorella e le mie amichette. Avevo solo cinque anni e due mani, ma mi pareva di poter riuscire a stringere tutto il mio mondo. Erano stati quelli i miei desideri, le mie fortune? Non le avevo chiesto se quel regalo insolito fosse stato un modo per dirmi che era dispiaciuta e malinconica per il mio presente precario e un po’ sterile o che dovevo piantarla di essere così insoddisfatta e tornare alla radice delle cose di cui ero stata grata senza saperlo, fossero vere o reali, perché in fondo non era andata e non andava poi così male. Eppure, mentre Andrea mi faceva tendere i muscoli verso un punto indefinito e perciò irraggiungibile, non potevo smettere di pensare che plasmare quei sogni era stato come fare piccole statuette di sale che pian piano con il tempo si sgretolano, perché li consuma il lento ma fatale alito delle cose fatte con diligenza, ordine e disillusione.

Compievo gli esercizi con il suo aiuto e mentre lo ascoltavo contare da uno a dieci a ogni mio movimento, avrei voluto dirgli che avevo paura che non servisse a niente, che mi sarei tenuta quel dolore per sempre. «Non ricordo più cosa significhi fare una passeggiata senza soffrire» gli avevo confessato un pomeriggio, a terapia iniziata da poco, e senza volerlo i miei occhi si erano inumiditi. Ero già pronta a incassare una sua eventuale risposta neutra come «È normale» e l’ordine di cambiare posizione senza guadagnarci nemmeno un briciolo di compassione, invece Andrea, una mano sulla mia pancia e l’altra sulla fascia lombare, aveva continuato a controllare il mio respiro sotto sforzo ed era rimasto zitto, come se non toccasse a lui rispondere. Aveva capito prima di me che non stavo davvero parlando a lui.
Mi lancia la fit ball su cui devo sedermi per fare le retroversioni del bacino. La afferro al volo e comincio l’esercizio, mi ci siedo sopra inarcandomi avanti e indietro, come un punto di domanda che sembra sparire, poi torna. Si siede sulla panca di fianco a me, mi osserva per vedere se mi muovo correttamente.
«Stai migliorando, vedrai che mantenendoti in allenamento il dolore sparirà e starai meglio. La ginnastica devi farla sempre però, anche quando stai bene» mi dice.
Annuisco e sto per ribattere che quel consiglio aprirebbe lo sguardo verso scenari complessi, invece mi alzo in piedi e bevo un sorso d’acqua. Stare in guardia perché il dolore potrebbe tornare una volta scomparso, evitare di star fermi anche quando apparentemente ci sentiamo bene nella nostra pigrizia, perché altrimenti quando ti torna la voglia di farti una corsetta, t’incricchi e finisce che a correre non ci vai più. Un autocontrollo dinamico: difficile, se si considera che di solito le sentinelle invece stanno immobili.
Mi fa segno che per oggi basta. «Ci vediamo la prossima settimana, dai».
Lo saluto con la mano, sto per avviarmi allo spogliatoio quando s’interrompe nell’arrotolare il mio tappetino, rimane fermo lì per qualche istante e senza raggiungermi, mantenendo la distanza di qualche metro che è più di un atteggiamento professionale, mi dice: «Il problema delle posture scorrette è che anche quelle sono naturali. Un paziente viene qui e io so che la sua schiena ha quel problema perché, ad esempio, è stato anni seduto male. È un adattamento del corpo, più immediato e veloce di quanto si creda. Raddrizzarsi, a un certo punto, è il vero casino. Mi spiego?» mi domanda e senza aspettare una mia risposta, finisce di sistemare.
Sfilo l’elastico e scrollo i capelli, poi li raccolgo nuovamente in una cipolla. «Benissimo» ribatto, concedendogli un sorriso amico e uno sguardo complice.
Mi cambio velocemente, raccolgo le mie cose ed esco. Chissà se la prossima volta andrà meglio davvero.
Chissà se è proprio il dolore a distinguere l’ennesima volta da un inizio.

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↔ In alto: foto Life Of Pix / Pexels.

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