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L’Europa era la nostra America, tutti volevano essere europei, appartenere alla famiglia europea, stare dall’altro lato di quella barriera invisibile ma impenetrabile, là dove gli uomini erano uomini.

Se fosse un film di Gianni Amelio, il secondo romanzo di Pajtim Statovci si chiamerebbe Leuropa. Ma Le transizioni (Sellerio, 2020) riassume al meglio lo spirito di un libro che racconta la fuga da un luogo – l’Albania – e dall’identità decisa una volta per tutte. Lontano dal finlandese Tiranan sydän, letteralmente «Cuore di Tirana», il titolo di Sellerio e del traduttore Nicola Rainò ricalca la scelta dell’editore statunitense, Crossing, e accoglie un’ambiguità che allude sia alla migrazione nello spazio che al distacco da sé in senso prettamente fisico, sessuale.

Dell’Albania c’eravamo quasi dimenticati, finché, lo scorso 29 marzo, il tormentato paese balcanico ha teso una mano all’Italia in difficoltà, annunciando l’invio di un ridotto contingente di medici e infermieri per fronteggiare l’emergenza sanitaria. Secondo il presidente albanese Edi Rama, un modo per ringraziare l’Italia della straordinaria accoglienza offerta nel ’91 alle migliaia di migranti riversatisi sulle banchine di Brindisi, Bari e Otranto. Ma Rama racconta soltanto metà della storia.

Al centro del romanzo di Statovci – nato in Kosovo ed emigrato in Finlandia a soli due anni – c’è proprio la volontà di indagare le conseguenze di quella storia negletta attraverso il racconto di un profugo albanese che all’approdo in Italia vede la propria specificità revocata e sostituita dalla generica etichetta del diverso.

Mi ritrovo a vivere un’esistenza tale che mi capita di pensare a come farmi fuori nella maniera meno dolorosa, passo giornate intere in cui non oso aprire la bocca nemmeno per dire grazie o buongiorno, e l’unica cosa che riesco a fare è fingere di sapere dove sto andando, come se appartenessi a questa città. Questa non è la mia vita, questi giorni non sono miei. Non sono io quella persona che pulisce ossessivamente gli schizzi di urina e le tracce di escrementi nei cessi dei bar e dei ristoranti perché nessuno, usando quei servizi dopo di me, pensi che sia stato io a lasciare quello schifo. Quella persona è qualcun altro, un fantasma che vive ai margini delle mie ombre.

I capitoli sulle peregrinazioni di Bujar attraverso Roma, Madrid, Berlino, New York e Helsinki si alternano al racconto dell’infanzia in Albania, segnata dal rapimento della sorella e dalla prematura morte del padre. Il suo primo amore è il compagno di giochi Agim, che lo convince ad abbandonare la famiglia per smarcarsi dai pregiudizi di una società retriva e da un destino segnato dalla miseria. I due ragazzini patiscono la fame e vivono per strada, prima a Tirana, poi a Durazzo, in attesa dell’occasione giusta per salpare verso l’Italia. In patria, Bujar sperimenta il divario tra la gloriosa Albania delle leggende tramandategli dal padre e l’abiezione in cui sta precipitando il suo paese, smarrito e isolato dopo la fine del regime comunista. Questo abisso lo spinge a un rifiuto radicale delle proprie origini, che di città in città si traduce in nuovi passati e nuove identità da interpretare. Pur di smarrirsi definitivamente, Bujar è disposto a tutto; c’è una tragica cattiveria nel suo continuo impossessarsi dei talenti altrui, come un Tom Ripley imprigionato nel proprio meccanismo.

Posso scegliere cosa sono, posso scegliere il mio sesso, la mia nazionalità e il mio nome, il luogo di nascita, semplicemente aprendo la bocca. Nessuno è tenuto a rimanere la persona che è nata, possiamo ricomporci come un nuovo puzzle. Però bisogna essere preparati. Per vivere innumerevoli vite, devi essere in grado di coprire le menzogne con altre menzogne.

Grazie a un personaggio gender fluid e aspirante apolide la cui psiche è un conglomerato di fragilità e contraddizioni, Statovci affronta con lucidità impressionante le questioni di identità e genere, senza mai scadere nel pietismo.

L’assenza di Agim nelle vicende dell’età adulta di Bujar garantisce al romanzo un mistero che tiene incollati alle riflessioni sulle dinamiche dell’immigrazione e sulla prepotenza delle etichette identitarie che non si fanno in nessun caso astratte o prolisse e rimangono ancorate a un’architettura perfettamente godibile e avventurosa.

La continua transizione tra le varie identità del protagonista è resa scorrevole da una lingua realistica e brutale, che si aggrappa alla carne e aderisce alla materia del romanzo come l’unica voce possibile del protagonista; Statovci adopera uno stile maturo, che non appartiene a nessuna regione letteraria pur incrociando tradizioni diversissime (Camus, Kafka, Hemingway). L’equilibrio della prosa è garantito da un continuo movimento nello spazio e nel tempo, che include anche spunti di riflessione storica e simbologie provenienti dal folklore albanese.

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