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Occorreva una cautela incredibile per vivere con quel sangue.
[…] Ma allora il suo sangue dormiva.
Rainer Maria Rilke, I quaderni di Malte Laurids Brigge

 

A sostegno delle scale c’era un corrimano in ferro scuro. Scendendo, lo battevo forte con il palmo perché il frastuono rimbombasse contro i muri. Rivedevo l’espressione della mamma – l’accenno di sarcasmo in fondo allo sguardo severo. Prefiguravo quella che avrebbe avuto dopo – il sarcasmo che esplodeva dagli occhi e si spandeva intorno, fino a deformarle il viso. Tra le due facce c’ero io, nella morsa delle scale. Scendevo, indolente, verso la cantina. 

Il latte. Di solito stava nell’angolo del ripiano più basso, ma la mamma era disordinata. Allora, prima della mensola, guardavo altrove. Senza focalizzare la vista, tutto insieme: a vederli così, gli oggetti facevano male. A quel punto iniziavo a respirare più forte. Strofinavo le mani contro i pantaloni per evitare che il sudore mi togliesse la sensibilità al tatto. Seguivo i contorni delle confezioni, senza staccare il dito – il ruvido accogliente del cartone, il liscio freddo delle bottiglie in plastica. Nel punto in cui un oggetto finiva e un altro iniziava, affilavo i sensi. Ma il dito era umido, non aveva aderenza. E sulla vista contavo poco – troppo compromessa dalla concitazione e dal buio. Si poteva provare ad accendere la luce. Ma temevo l’assalto degli oggetti. A fissarli tutti insieme, illuminati, mi avrebbero stordita. Allora, preferivo la penombra. Il cartone del latte continuava a nascondersi. Forse non avevo vagliato tutti i ripiani. Avevo iniziato dal basso o dall’alto? Conveniva ricominciare daccapo, e ricominciavo. La mano aderiva sempre meno, e già avvertivo quel fastidio, come un formicolare, sulla punta delle dita. Allora prendevo una pausa dagli oggetti, per controllare il respiro. Poi accadeva. Mentre facevo esercizi di ispirazione profonda, seduta a terra, in un calo improvviso delle difese.

Dopo qualche minuto passava, stavo meglio. Mi rimettevo in piedi, scuotendo via la polvere del pavimento dai vestiti. Tornavo di sopra a mani vuote. La mamma faceva la sua smorfia lasciando cadere le braccia ai lati del corpo. «Non ti si può mai chiedere niente», diceva. Io la guardavo zitta, svuotata. Andando verso la mia stanza, avevo l’impressione che la sua voce mi venisse dietro, lungo il corridoio, come un fruscio nero. Però sorridevo di sollievo. Guardando la sua faccia sformata non avevo sentito caldo, sulle guance, ma un freddo torpore.  

A sei o sette anni, la mamma mi ha insegnato la vergogna. La prima lezione è stata nel liceo di mia sorella più grande. L’avevamo accompagnata a ritirare il diploma, alla fine dell’estate. C’era un ragazzo, nella stanza in cui aspettavamo asfissiando, che si teneva chiuso in un angolo, la testa appena protesa fuori dalla finestra. Con tutto il corpo sembrava assecondare il moto del collo sottile, come se volesse allungarsi verso l’alto, a filo contro il muro, e poi flettersi e cadere giù, oltre il vetro. A vedere mia sorella si era contratto ancora di più nell’angolo. Io lo guardavo con simpatia. Gli erano arrossite persino le orecchie. Avevo sentito bisbigliare, sulle sedie accanto a me. Poi la mamma mi aveva stretto forte il polso, indicando il ragazzo con un cenno del mento. Era un compagno di classe di mia sorella, si chiamava Gianni. Tremava per tutto e non parlava mai con nessuno. «Se non cambi, diventerai come quello», mi aveva detto sottovoce. Io mi ero fatta rossa.

Alla mamma dispiaceva il mio arrossire: lo trovava inopportuno. Me lo ricordava, quando accadeva, perché imparassi a correggermi. Un’occhiata severa, di sfuggita, valeva come rimprovero. Se avevamo ospiti a cena, giustificava il mio comportamento bonariamente. Siccome non parlavo, o stentavo a farlo, quando interrogata, spesso rispondeva a nome mio. Io la ascoltavo come se parlasse d’altri. Divampavo.

Una sera, l’ospite era il nuovo fidanzato di mia sorella. Mario era timido, questo attenuava le mie colpe: facevamo a metà. Sedeva a capotavola, vicino a me. Per tutto il tempo avevo percepito la frenesia del suo ginocchio, sotto il tavolo, che si alzava e abbassava senza sosta. Mi calmava. Verso la fine della cena aveva chiesto che gli passassi il sale. Afferrando il barattolo al centro della tovaglia avevo sfiorato il bicchiere della mamma, seduta al mio fianco. Avevo visto un’ombra livida, indagatrice, passarle davanti alla pupilla per un attimo, nell’atto di ricambiare il mio sguardo. La percezione dei suoi occhi dava al mio braccio una tensione speciale, da cerimonia. Avrei voluto trattenere l’afflusso, ma il sangue ha le sue leggi, che non si giudicano: il corpo è amorale. Io questo lo intuivo. Allora mi ero abbandonata al tepore crescente delle guance, quietamente. Mario aveva bisbigliato grazie stringendo il sale, io ero tornata al mio piatto. Però l’apprensione mi aveva fatto girare il collo dall’altra parte, in cerca della mamma. Lei, le mani incrociate sotto il mento, mi scrutava. Aveva il sorriso amaro, ironico, che le vedevo fare quando disapprovava qualcuno che giudicava ridicolo fino ad averne fastidio, un imbarazzo da scacciare in fretta, e senza perdono.

Così sentivo la vergogna due volte – sulla pelle calda del mio viso e poi riflessa nel ghigno delle sue labbra allungate. Imparavo che si deve avere vergogna della vergogna, e mi vergognavo. C’era qualcosa, dentro il mio corpo, ora, che si rimestava e mi faceva contrarre. Una colata bollente pronta al deflusso. Sapevo di doverla arginare. Più la sapevo vicina alla pelle, più mi contraevo, più quella scottava sull’uscio dei pori. Intanto con la mano sbriciolavo un pezzo di pane sulla tovaglia, per deviare l’attenzione dalle guance. 

Al punto di massima combustione, la contrattura dei muscoli si era fatta dolore, ma io non avevo ceduto. Così la tensione era implosa, gelandosi nei capillari sottocutanei – li avevo sentiti scoppiare, come un tubo ostruito dal ghiaccio. Sulla pelle era giunta solo un’impressione di spille fredde, più fitta a livello delle guance. Senza fare male: piuttosto un pizzicore. Era durato qualche istante, e poi avevo perso tutto – il contatto con la crosta del pane sotto le dita, con il legno della sedia sotto le cosce. Forse ero morta, o diventata impalpabile. Per capire avevo portato discretamente la mano poggiata sul tavolo in direzione dell’altro braccio, rigido e proteso verso il pavimento. Avevo cercato la cute scoperta, tra la fine della manica e il polso, dove è più sensibile. Non l’avevo trovata. 

Francesco non badava al fatto che per me sarebbe stata la prima volta. Quel giorno camminavamo nel prato in salita dietro casa mia. Alla fine del prato, si apriva il bosco. Io mi ero seduta sulle radici del primo tronco in vista, a rimescolare con un ramo la terra seccata dal sole. Lui mi guardava come si guarda un bambino che gioca, però negli occhi gli vedevo una malizia seria, in attesa. Accovacciato davanti a me, picchiettava le mani sulle mie ginocchia nude. Gli sentivo i palmi ruvidi, ispessiti come la corteccia che avevo dietro la schiena. Con lo sguardo mi sfidava, si divertiva a cercare il mio imbarazzo. Io non sapevo arrossire: temevo piuttosto di perdere consistenza. Per non pensare al corpo, lo sfidavo a mia volta. Avrei voluto darmi toni da ragazza matura, ma non li conoscevo. Allora giocavo, e con uno stelo d’erba gli solleticavo le labbra. Lui rideva, piano, alzando appena gli zigomi e guardando in basso. Mi lasciava il tempo che non sapevo di chiedere, ma controllandolo, quasi annoiato, come se tutto gli fosse già noto. 

Mi aveva tirato a sé per le caviglie, e io mi ero ritrovata sul terreno supina, i capelli sciolti tra le foglie scricchiolanti. Durante lo slittamento, le asprezze del tronco mi avevano graffiato la schiena. Avevo chiuso gli occhi, per il fastidio. Riaprendoli, avevo colto Francesco già nell’atto di portarsi sopra al mio corpo. Con la mano gli avevo stretto la pelle della spalla per saperla concreta, assicurarmi un’aderenza. 

Avevo sentito male, ma per poco. Provavo a resistergli, irrigidendomi. Ma Francesco aveva cercato il mio sguardo, stringendomi appena il mento, come una carezza, e nei suoi occhi avevo visto un abbandono, libero e senza timore, che mi chiamava a fare lo stesso. Allora avevo disteso la stretta dei muscoli, lentamente, e infine concesso al fervore il suo flusso.

Prima di rialzarmi, scuotendo via la terra dalle cosce, avevo scoperto una macchia rosso scuro, tra le gambe. Avrei voluto nasconderla sotto le foglie, in fretta, ma Francesco mi aveva fermato il polso e aveva riso, con tenerezza. Avevo riso anch’io. Poi ero tornata con lo sguardo alla macchia, rimirandola assorta, come l’annuncio di un ritorno. 

Francesco ancora mi scrutava, insistente. Sembrava volermi sfidare, come prima, ma disteso e sfogato. Io avevo alzato la testa verso il cielo, gli occhi socchiusi, lasciando che il calore del sole si unisse al moto già in atto sulle guance. Dai raggi in diagonale filtravo il mio perdono.  

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↔ In alto: foto Luis Paico / Unsplash.   

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