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Qualche settimana fa, per introdurre un’iniziativa che annunciava la collaborazione tra Repubblica e Lucca Comics and Games, Luca Raffaelli titolava sul quotidiano: «Non chiamateli fumetti», argomentando poi che «con il fumetto è arrivata l’ora di voltare pagina, definitivamente. Basta considerarlo una roba semplice, da ragazzi, buona al massimo per avvicinare alle buone letture. Oggi è un medium complesso e profondo, capace di raccontare i fatti d’attualità così come i sentimenti più intimi e delicati, forte anche di quella carica di sperimentazione che nel passato si trovava nella letteratura e nel cinema.» Pochi giorni dopo, con un post pubblicato su Facebook, la redazione di Fumo di China è timidamente insorta in difesa del termine che indica nella nostra lingua la letteratura disegnata.
Da ormai molto tempo il dibattito sul fumetto prende questi toni: da una parte sta chi reclama attenzione, importanza, riconoscimento; e dall’altra, con una reazione uguale e contraria, chi rivendica la condizione outsider della nona arte (come Fumo di china, o come Alan Moore), in nome di libertà, spontaneità e di una sorta di fedeltà a un qualche spirito originario e fantastico che animava gli autori delle origini.
L’impressione però è che l’intera discussione sia il sintomo di una sindrome dell’impostore che avvolge la riflessione sul fumetto (questa rubrica compresa). Il gran numero di chi scrive recensioni di un’opera a fumetti sente la necessità di evidenziare la qualità intrinseca del medium, ciò che può offrire e che le altre arti non possono neanche sognarsi di immaginare. Così, si finisce spesso a parlare dei massimi sistemi, con grande naturalezza, dando l’impressione di ricominciare sempre da capo, come se un filo attaccato alla schiena impedisse al critico di andare oltre un certo raggio d’azione.
Fra i due schieramenti probabilmente, in caso di guerra civile, bisognerebbe scegliere il secondo, perché non è poi tanto dignitosa l’immagine di un bambino che saltella vicino al tavolo dei grandi e che fa casino o sale sulla sedia per chiedere attenzione. È molto più elegante fare i saltimbanchi della propria anima, o dire che «sono solo canzonette». Ma il vero obiettivo dovrebbe essere smarcarsi dalla domanda posta in questi termini, normalizzare la discussione per proporre, invece, una riflessione davvero approfondita. Come? Forse attraverso la conoscenza puntuale della storia e delle tecniche compositive; l’attenzione al dialogo con la cultura circostante, osservata tanto in forma diacronica (in prospettiva) quanto sincronica (nel complesso dei fenomeni culturali); lo studio dei modelli economici dell’editoria e della ricezione di un’opera o di un autore, dati alla mano.

Questa riflessione nasce dalla lettura del volume di Pier Luigi Gaspa, Dal Signor Bonaventura a Saturno contro la Terra (Carocci), un saggio sulla storia del fumetto in Italia tra il 1908 e il 1945. Parlando di riviste, dei primi autori italiani e delle importanti serie d’importazione americana che strutturavano e lanciavano questi settimanali, l’autore riassume in poco più di 250 pagine un mondo dimenticato estraneo al dibattito descritto poco sopra. E il libro, infatti, non si perde in discorsi sulla natura profonda del fumetto; pone però un problema: come scrivere una storia della letteratura fumettistica nazionale? Come rendere merito a quel periodo di novità e innovazione? Come fare perché un libro che ne tratti non sia solo opera di erudizione? Negli Stati Uniti la produzione di fumetti del primissimo Novecento è presentissima, studiata e assimilata. Ora, l’operazione oltreoceano è senza dubbio più semplice: si tratta di autori che fanno parte di una storia mondiale, il loro valore supera con facilità i confini e le epoche (tre esempi per tutti: McCay, Feininger, Segar). Difficile trovare degli equivalenti nostrani, per idee e soluzioni. Ma è anche vero che il lavoro storiografico sulla storia del fumetto in Italia né parte dagli autori, che non vedono dei modelli nei loro antenati compatrioti, né incontra un rigore analitico che ne sublimi le invenzioni.

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Il volume di Gaspa offre così il destro per porsi delle questioni di metodo. È in questo senso un malcapitato: il saggio (e così la collana) ambisce a essere un utile strumento di consultazione, e tutto considerato ci riesce. Procede cronologicamente, alternando la storia editoriale delle riviste alla sintesi delle serie, scritte con più o meno dettaglio a seconda dell’importanza, e descrivendo con particolare cura alcuni personaggi. Cerca di dare una linea interpretativa soffermandosi sull’involontario beneficio che la censura fascista ha avuto per lo sviluppo di una generazione di autori, sulla nascita del racconto di fantascienza, sulla sottile linea che separava intrattenimento e propaganda. Il libro è senza dubbio documentato e mette insieme una nutrita bibliografia; tuttavia l’impressione è di trovarsi più davanti a una Garzantina che a un saggio. Se al metodo cronologico fosse stato sostituito un indice alfabetico, con una densa introduzione, di certo non sarebbe stato più possibile distinguerlo dalla collana enciclopedica, ma non è da escludere che, in questa forma, il suo valore avrebbe potuto esprimersi al massimo. Certo è che, in ogni caso, il volume si presenta come un abile prontuario, utile a scoprire nomi peregrini e avventure innocenti che hanno in-formato il carattere di tanti lettori, al pari di Salgari e degli altri grandi del romanzo d’appendice. E poi non è da trascurare il piacere esotico che può provare nel leggere dei fumetti d’anteguerra chi è cresciuto con il formato Bonelli – per quanto Il Giornalino e Linus facessero da contraltare – o ancor più chi sia nato oggi nel tempo del «romanzo a fumetti», del volume da libreria: all’epoca la produzione era legata a scadenze settimanali, costituita da storie di pochissime tavole, quasi costretta a una certa ingenuità narrativa.
Per questi motivi si potrebbe essere tentati di guardarvi con tenerezza e condiscendenza, come forse – cambiando tempi, medium, età – si ripenserà fra qualche anno a serie come Barbari o Emily in Paris. Non è però la stessa cosa: quei fumetti posseggono tutto intero il fascino della novità, l’avventura di un mondo di tecniche da inventare e sovvertire, il miracolo di una cultura nel suo immaginarsi.

Il riferimento alla Garzantina è però gravido della considerazione più severa che si può portare su questo lavoro. Per chi scrive, dire “Garzantina” significa pensare all’unico volume di questo tipo presente nella sua libreria, quello delle trame dei libretti d’opera. Ovviamente è un supporto, un’agile bussola, validissima, ma per questo motivo è priva di ciò che rende l’opera lirica sé stessa: la musica. Ecco, Dal Signor Bonaventura a Saturno contro la Terra è davvero povero in tavole e disegni e, quando ci sono, sono stampati in bianco e nero invece che a colori. Sicuramente la scelta dev’essere stata dettata da principi di economia, testuale e monetaria, ma ciò non toglie che sorprende scrivere di fumetti privandosi del supporto iconografico o tradendolo nella sua realtà estetica. E d’altra parte l’analisi scritta è perfettamente adeguata a questa bizzarria: si limita quasi esclusivamente alle sinossi. Si sente la mancanza di approfondimenti dello stile e delle tecniche, dei mezzi di produzione e di stampa. Alla fine ne rimangono solo degli accenni, così come solo accennati sono alcuni interessantissimi elementi di carattere produttivo e commerciale (per esempio il momento in cui i bambini diventano consumatori: non è più il genitore che gli acquista il settimanale, ma sono loro a recarsi in edicola con impazienza. È probabilmente una delle pagine più felici del saggio, quella sulla nascita della rivista Jumbo). Come si può allora rendere il racconto di quegli anni una presenza attiva e performante, se si trascurano questi aspetti?

Dal Signor Bonaventura a Saturno contro la Terra è un bignami, un manuale di consultazione, né brillante né stancante. Non porta avanti il dibattito, né alza il livello del discorso. Ma queste, ricordiamolo, non erano le intenzioni dell’autore, che da onesto studioso si limita a un trattato preciso e da cui, di tanto in tanto, traspaiono tutta la sua passione e la sua dedizione.

Virus il mago della foresta morta

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↔ In alto: Brick Bradford di W. Ritt e C. Gray. Da L’Audace, 27 aprile 1935.

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