Skip to main content

«Se le donne sono raffigurate, dal momento della loro nascita, come principesse da salvare e la società intera continua a rimandare, come un’eco, questa loro rappresentazione, non potranno che interiorizzare un meccanismo di dipendenza e svalutazione di sé che perpetueranno, nel rapporto di coppia o di lavoro, senza accorgersene. […] Per questo le donne si sentono fragili e incompetenti, non perché lo siano ma perché la cornice in cui vivono, studiano, lavorano, amano, crescono i figli, le rappresentano così. E loro arrivano a crederci. […] Non si tratta di un problema di sicurezza individuale, come molte di noi credono. Non è una questione psicologica, come ci hanno sempre voluto far credere, è una questione politica».
La mia parola contro la sua, Paola Di Nicola

I romanzi hanno radicato idee, a volte progressiste, altre meno. Frutto della cultura e del tempo in cui sono stati scritti, hanno modellato le narrazioni nazionali, quello che si considera come vero, hanno alimentato pregiudizi, archetipi e stereotipi, consolidato modelli provenienti da letterature straniere. L’immagine della società che questi lavori ci restituiscono è certamente preziosa ma parziale, mutilata: mancano le donne. O meglio, mancano le loro voci.

Il canone letterario italiano – e quindi anche culturale – cioè il blocco di opere che costituiscono il modello di riferimento, su cui si basano anche i testi scolastici, è formato quasi interamente da opere scritte da uomini. E così è rimasto nel tempo, consegnandoci una narrazione totalmente maschile sulle donne e su ciò che si è consolidato come vero sulla loro storia. E nonostante gli italiani leggano poco l’effetto di questa narrazione parziale persiste.

Così le donne sono raccontate dallo sguardo geniale di autori come Lev Tolstoj, Johann Wolfgang von Goethe o Gustave Flaubert, ad esempio, o Alessandro Manzoni, Giovanni Verga e Luigi Pirandello. Sguardi geniali, sì, ma inevitabilmente incompleti e irreali.

Se la spaventata, sottomessa e passiva Lucia Mondella è ancora indicata nei testi scolastici come archetipo sociale a cui le donne si dovevano – o si devono? – ispirare, e la Monaca di Monza trova posto solo perché umiliata e redenta; se non sono mai padrone della situazione, come Marta Ajala in L’esclusa, sempre le più vinte tra i vinti, e il prezzo della volontà è una diagnosi di isteria, o una condanna senza appello come per l’ex prostituta La Spera nel dramma teatrale La nuova colonia, diventa altamente complicato scardinare concezioni profondamente stereotipate sulle donne. Stereotipi e pregiudizi che le ragazze stesse interiorizzano come veri.

Anche i romanzi scritti dalle donne sono frutto del loro tempo, ma rimandano a un’altra storia. Raccontano altre donne, altre vite, includono realtà altrimenti ignorate: Valeria Palumbo in Non per me sola, Storia delle italiane attraverso i romanzi, edito da Laterza, raccoglie il racconto di molte scrittrici italiane, lo accosta a dati storici in campi di particolare rilevanza per le donne e riconsegna una realtà più completa. Una realtà più forte, fatta di tentativi esasperati per ottenere la libertà di studiare e lavorare, di desideri e amori mai liberi, di una morale oppressiva, di donne che non hanno accettato di essere costrette al silenzio. Una realtà più viva, fatta anche di violenze, costrizioni e abusi, di battaglie per oltre un secolo per garantire alle donne italiane piena cittadinanza. «Per questo abbiamo scelto le scrittrici: perché hanno mostrato. E perché, poi, sono state spesso dimenticate» scrive Palumbo nell’introduzione al suo saggio, per poi lasciare la parola a Ada Negri, Milena Milani, Grazia Deledda, Elsa Morante, Sibilla Aleramo, Luce D’Eramo, Maria Maddalena Rossi, Renata Viganò, Giovanna Zangrandi e tante altre. Quindici pagine di bibliografia testimoniano il lavoro accurato, minuzioso e preziosissimo dell’autrice, mai superficiale e mai retorico. La lettura scorre veloce tra le pagine, alla scoperta della storia delle nostre antenate che come tali, in parte, appartengono a tutti noi.

Proprietà dei padri e dei fratelli prima, dei mariti poi, di una società che le voleva poco istruite, altrimenti ritenute una minaccia per la stabilità sociale. Lavoratrici sì, ma solo se questo non consentiva loro di guadagnare autonomia e indipendenza, quindi sfruttate in casa e nei campi, sottopagate e controllate in fabbrica. Sono tantissimi gli aspetti indagati da Palumbo e ancora di più gli spunti di riflessione. Ma dall’immobilità fisica, personale e sociale alla riappropriazione del corpo, come fisicità e luogo politico, dal mito della fedeltà e della maternità fino al ruolo della religione, è proprio il senso di solitudine a legare tra loro tutte queste storie. Una solitudine che nasce dalla marginalizzazione, dall’essere ignorate e neanche nominate. La realtà per le donne italiane è stata più dura di quanto ci è stato raccontato, ma sicuramente si sono ribellate in molte di più di quante ci è stato fatto credere.

Stupisce poi come tante delle ipocrisie della società svelate dalle scrittrici dai primi nel Novecento, siano tutt’oggi ancora in piedi, seppur declinate in modo differente. Prima tra tutte la questione della “moralità”. La carta della “rispettabilità” era un vero e proprio strumento di ricatto e di controllo, il prezzo da pagare per un po’ di libertà, che fosse fare della propria istruzione un lavoro, pretendere indipendenza economica, ma anche solo il riconoscimento di status vittime di una violenza. La nomea di “poco di buono” pendeva come una spada di Damocle sulla testa di attrici, musiciste professioniste, ma anche maestre, operaie e partigiane, con il solo scopo di limitarne l’autodeterminazione: una sanzione sociale che terribili recenti fatti di cronaca dimostrano essere tutt’altro che superata.

La fama di “puttane” ad esempio accompagnò le partigiane anche dopo la liberazione e proprio a causa di questi pregiudizi a molte di loro non permisero di sfilare al fianco dei propri compagni di battaglia. A Renata Viganò, poetessa, scrittrice e partigiana si deve uno dei più bei romanzi sulla Resistenza, L’Agnese va a morire. L’anziana Agnese rimane sola quando i tedeschi portano via suo marito, è goffa e fortissima insieme, e pedalata dopo pedalata restituisce alle donne partigiane la loro complessità di esseri umani.

«In più Viganò mette ben in chiaro che la Resistenza non fu soltanto quella armata: oggi  sembra banale dirlo, ma la stessa definizione di “staffette partigiane”, per le donne che vi presero attivamente parte e che così sono state messe subito nell’angolo, dà la dimensione di un’ulteriore discriminazione. Se guerre mondiali e Resistenza sono fatti d’armi e ne sono vincitori o vinti soltanto gli armati, allora, dopo il conflitto, nonostante la Costituzione, si poteva ritenere legittimo che le donne restassero al margine della nuova organizzazione. Se così non è, se la vittoria poggia anche sui pedali spinti nel fango e nel freddo da Agnese per portare cibo o messaggi, o nella capacità di Ida Mancuso di salvare Useppe, oppure in quella (non letteraria) di Palma Bucarelli e Fernanda Wittgens, direttrici della Galleria d’arte moderna di Roma e di Brera, a Milano, di mettere al sicuro il nostro patrimonio artistico, allora è stato compiuto un furto»

Uno dei passaggi più efficaci del saggio è l’analisi de La ciociara di Alberto Moravia, nello specifico del modo in cui lo scrittore racconta l’aggressione dell’adolescente Rosetta e della madre Cesira. Perché per quanto le parole di Moravia siano state coraggiose e moderne per il loro tempo, trattando le violenze dei soldati nordafricani portati in Italia dai francesi per sfondare la linea Gustav nel ’44, che erano – e lo sono ancora oggi – uno stigma per molte donne, ci sono delle criticità proprie del modo maschile di intendere e concepire lo stupro.

«Primo: Moravia afferma che la protagonista, Cesira[…], non può essere violentata perché è svenuta e «si sa che è difficile maneggiare una donna svenuta». Al di là della brutalità del verbo «maneggiare», in realtà si possono violentare anche le donne morte: il codice penale stabilisce all’articolo 410 che, nel reato di vilipendio di cadavere, sono inclusi anche gli atti di libidine. In più, una frase del genere fa pensare a una sorta di “complicità”: sarebbe proprio la lotta di una donna a resistere allo stupro a renderlo possibile o addirittura a istigarlo. Non a caso si è detto a lungo, alle donne, di non opporre resistenza mentre è provato che molti stupratori desistono se la incontrano. – scrive Palumbo – C’è poi l’uso del verbo “sfogare”: perché un uomo violenta? Per “sfogare” qualcosa che è irreprimibile in lui e quindi sta alla donna cercare di contenere quest’istinto. Infine: il problema di Rosetta non è tanto di essere stata stuprata da un branco, ma di essersene accorta. Non è lo stupro il problema ma la sua coscienza, ovvero non è un reato ma una colpa, una questione morale che quindi non si pone se non si è coscienti».

Questa intenzione morale dello stupro non appartiene solo a Moravia, ma all’intera società: bisogna ricordare infatti che fino al 1996 la violenza sessuale era considerata dalla legge italiana un reato contro la morale pubblica e non contro la persona. Non solo, l’istituzione del “matrimonio riparatore”, cioè la possibilità per lo stupratore di cancellare il reato sposando la vittima, è stata eliminata solo nel 1981. Non a caso il titolo che avrebbe voluto lo scrittore era Lo stupro d’Italia: la violenza su Rosetta è intesa non in quanto tale, ma come simbolo dell’offesa subita dal Paese.

Molto diversa invece la narrazione di Elsa Morante in La storia. Nelle sue parole non c’è tanto la ferocia dell’abuso subito da Ida Mancuso da parte di un soldato tedesco, quanto la sua complessità intera, fatta di miseria e riaffermazione del potere. E poi va oltre: Ida è una eroina vera, una sopravvissuta calata nella realtà del quotidiano che va contro lo stigma sociale per salvare Useppe, nato da quella violenza, supera lo stupro subìto perché deve vivere, sia pure non per se stessa. Mettendo Ida al centro del discorso, Morante fa una scelta narrativa che ancora oggi, a distanza di più quarant’anni, risulta eccezionale rispetto allo schema dominante di racconto della violenza di genere. Infatti nonostante sia un tipo di violenza che ha radici sistemiche e culturali, è tutt’oggi raro che le voci delle sopravvissute trovino spazio.

In Non per me sola, Valeria Palumbo ha unito una pluralità di voci e di sguardi che costituiscono un patrimonio per la letteratura e la cultura italiana. È vero che ormai i romanzi non hanno più la stessa capacità di diffondere modelli sociali, in questo sono stati superati da tempo da altri media, e il mondo della narrativa contemporanea è popolato da molte scrittrici di talento, ma è altrettanto vero che l’immobilità di vecchi schemi pesa ancora e soprattutto «è importante dare alle più giovani la certezza che non avanzano allo scoperto, e che dietro di loro ci sono una lunga elaborazione e una lunga storia di emancipazione e di conquiste. Serve per scrivere una storia plurale, più complessa, magari contraddittoria, ma senz’altro più completa. Le scrittrici l’hanno raccontata. Tocca a noi, per costruire un presente più consapevole, il compito di inserirle nelle nostre fonti autorevoli e dare ascolto alla loro voce».