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«Narra, Musa del narratore, l’antico
bambino gettato ai confini del mondo,
e fa che in lui ognuno si riconosca».
(W. Wenders, P. Handke, Der Himmel über Berlin, 1987)

Jacques-Henri Lartigue nasce nel 1894 in un’agiata famiglia parigina. Figlio di un banchiere, riceve la sua prima macchina fotografica a sette anni, nel 1902. Comincia così da subito a scattare e collezionare, e le sue foto immortalano un mondo felice, quello della belle époque, popolato da donne con pellicce, parchi, macchine, aeroplani, spiagge e giochi. La sua vita attraversa le due guerre mondiali, ma la sua cifra non cambia: riesce a proteggere il suo universo felice e a conservarlo sotto una campana di vetro. Segno di fortuna e di privilegio, senza dubbio, ma anche una forma di riconoscenza non banale, una scelta di metodo per niente scontata. Quest’opera elegante e lieve non è patinata, volgare, economica, ma allegra, spensierata, e racconta il tempo sospeso dell’infanzia, contiene la gioia del bel ricordo cui ripensare con affetto e calore, guarda alle cose del mondo con curiosità.

Il soggetto che definisce con chiarezza e sintesi il lavoro di Lartigue è l’essere umano che salta, immortalato in quell’istante tra lo scatto e la ricaduta, nel punto in cui è più lontano da terra.

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Andre Haguet, un cugino di Lartigue, nella foresta di Rambouillet, 1938. Ministère de la Culture (France).

È una fotografia che esprime spensieratezza. Questi suoi scatti sono storie minime: il salto è giocoforza gesto narrativo, perché richiede tanto l’ombra che si stacca da terra quanto la ricaduta. È però allo stesso modo la quintessenza del tempo che si ferma, che non lascia scampo alla possibilità di un’azione duratura: l’attimo dopo lo scatto il corpo in movimento atterra, e si ferma. È un istante da cogliere e assaporare: lo sguardo del cugino André Haguet, a caccia di farfalle, esprime una vitalità sorridente e libera, concentrata, che non potrà mai conservarsi un secondo più tardi; i nervi si riposeranno, la mente si volgerà altrove. Raramente si può essere così certi di ciò che accadrà nell’istante successivo alla fotografia.

Non si tratta della sola contraddizione che permea gli scatti di Lartigue. Infatti, pur annunciando «ciò che sarà» – così prevedibile, così chiaro – il suo gesto rimane puro e svincolato: il «ciò che è stato» barthesiano diventa in lui espressione di un gesto inutile, a-narrativo, fine a se stesso, non inserito nella Storia.

Nella scelta di questo soggetto – il salto – si può riconoscere l’ispirazione infantile che, da fotografo bambino, può averlo incuriosito: doveva essere strano vedere come la macchina fotografica immortalasse una simile azione. A volte, infatti, è lui stesso a chiedere di evitare la posa e saltare, come se invitasse chi ha di fronte a una pausa, a una forma di libertà, e allo stesso tempo come se fosse un bambino che impone la propria giocosità dittatoriale a chiunque gli passi vicino. Sia chiaro: Lartigue è stato fotografo di moda, di automobili, di scampagnate in bici, di donne sdraiate sulla spiaggia, e ha anche stampato a colori. Le foto in bianco e nero dei suoi personaggi “in volo” sono dunque solo una possibilità tra le varie del suo repertorio, ma restituiscono con apparente chiarezza lo spirito che ne anima lo sguardo. Non a caso ne fa da subito la sua firma, e una volta famoso sarà riconosciuto per questo suo segno. 

Una precisazione sulla fama tardiva è necessaria perché Lartigue aveva già pubblicato fotografie in diverse riviste ma solo per caso, nel 1966, sale alla ribalta. È aiutato dalla stima di alcuni amici e da una gustosa coincidenza che più fortuita non si può: Life pubblica il suo portfolio nel numero dedicato alla morte di Kennedy (di grande tiratura, dunque). Quest’aneddoto, insieme ad alcune importanti osservazioni, è contenuto nelle pagine introduttive del catalogo Jacques-Henri Lartigue. L’invenzione della felicità, pubblicato da Marsilio in occasione della mostra organizzata alla Casa dei tre Oci, con contributi dei curatori e di Ferdinando Scianna. È una retrospettiva che attraversa la produzione dell’autore lungo diverse stagioni della vita, disegnandone la biografia. Il termine non è impiegato a caso: la fotografia, infatti, è in e per Lartigue ricordo personale, prima ancora che testimonianza.

Ed ecco: il ricordo, la felicità e lo sguardo infantile, tre caratteristiche che rendono unica la sua arte. Ne vanno aggiunte ancora due: una disinvolta spensieratezza e la tensione verso l’appunto diaristico.

Lartigue, infatti, trattava il proprio lavoro di fotografo con nonchalance, senza bramosia e tensione: viveva di qualche pubblicazione ma poi, soprattutto, di pittura e di incarichi per il cinema. Quest’uso privato della fotografia, come chiunque di noi potrebbe farne per conservare i propri ricordi in un album di famiglia, è parte di un’impressione d’artista amatore che circonda la sua opera di spontaneità, aumentandone il fascino. Nei suoi scatti c’è sobrietà, leggerezza, facilità; sono privi di concettismo, anche se pur sempre ricchi di una cura sorprendente se si pensa alla loro dimensione privata.

È poi a partire da questa pratica spontanea, ‘ingenua’, gigantesca che si può trovare l’ultima e definitiva virtù di Lartigue. Quando le sue opere più private cominciano a essere ri-conosciute, è un altro fotografo, Richard Avedon, che ne incita la metamorfosi artistica, spingendolo a raccogliere in album anche le sue fotografie famigliari. Lartigue compone così nel 1970 il Diary of a century, un album che in francese, tre anni dopo, diventa un più intimo e personale Instants de ma vie; qui il fotografo mischia foto e pagine diaristiche, scritte a mano: ricompone gli album in forma cronologica, certosina, e vi include anche scatti di altre mani, proprio come accade in un album di famiglia. Ecco dunque le forme in cui avviene la sua consacrazione: non davanti all’epifania di una singola foto impeccabile, ma di fronte al frutto dell’opera intera di una vita, composta in nome «una scelta limitata e costante» (Charles Prost) verso i bei momenti che popolano l’esistenza. È dunque essenziale, per comprendere Lartigue, vederne il percorso ostinato, la ricerca e l’intenzione, la cifra, lo stile, che solo in un secondo momento s’innestano sull’occasione. Tutti gli elementi citati in precedenza convergono e si esaltano nella composizione memoriale.

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Il conte Salm durante la finale dei Campionati del mondo di tennis, Parigi, 8 giugno 1914. Ministère de la Culture (France).

Il ricomporre in un’unica grande opera autobiografica l’opera d’arte nata come frammento è tipico di altri artisti, come  Giuseppe Ungaretti, che alla fine della sua vita intitola il suo intero canzoniere Vita di un uomo, o come David Perlov, che ha segmentato parte della sua vita in un diario filmico (Diary). Parlando di Lartigue e della sua personale ricerca del tempo perduto è però un altro il dettaglio che si vorrebbe esaltare, seguendo la scelta compiuta per il titolo della mostra e del catalogo: la gioia, la felicità, la meraviglia colma di gratitudine provata dall’autore per ciò che lo circonda. «La marmellata si fa con la frutta più bella», scrive Scianna, citando Lartigue. L’insegnamento appare prezioso, e a chi volesse accusare di miopia  questo sguardo sognante si dovrebbe rispondere che se è vero che di fronte ai più grandi orrori della storia non è più possibile chiudere gli occhi e tappare le orecchie – quando si decida di scrivere, fotografare, disegnare – allora è tanto più vero che il gesto dell’artista può anche essere un gesto di bellezza, di fiducia, di riconoscenza, di protezione. Si pensi al lavoro sulle comunità ebraiche orientali di Marc Chagall e Roman Vishniac. Anche di fronte alla tragedia più grande bisogna essere in grado di reagire; ce n’è una chiara espressione in un passaggio de Il cielo sopra Berlino (1987) di Wim Wenders e Peter Handke, quando Homer – sperduto narratore benjaminiano – passeggia per la Potsdamer Platz distrutta del dopoguerra:

Nel celebrare la fortuna della propria vita Lartigue è vicino a un importante autore contemporaneo, il fumettista Emmanuel Guibert. È un autore che sul rapporto con la fotografia ha fondato parte dei suoi esperimenti estetici (Il fotografo), e che sta costruendo un monumento all’amicizia e alla capacità dell’essere umano di farsi memoria e ripercorrere la propria esistenza (il ciclo di Alan Ingram Cope). Si nota una certa simpatia, tra di loro, e infatti Guibert cita a più riprese con ammirazione il lavoro di Lartigue. Quando parla dei propri inizi artistici, Guibert racconta di aver iniziato a disegnare per raccontare la vita famigliare che lo circondava, che anche per lui corrispondeva a quella di un’agiata famiglia parigina: il disegno è nato per lui come un modo per mettere al sicuro i propri cari e il mondo felice che componevano, raccontandone le storie, raggruppandoli intorno ai propri schizzi. È con una citazione di questo autore che va a chiudersi l’articolo, perché esplicita con chiarezza la gratitudine che ha mosso e muove il lavoro di questi due artisti. È un modo di sottolineare l’eccezionalità del percorso di quegli autori che decidono, tendenzialmente, di non arrovellarsi, di non cercare la piaga o l’accordo stonato, ma di rimettere loro stessi e gli spettatori in pace con ciò che li circonda, corroborandone l’esistenza con il racconto di cose belle:

«Vedo molto bene l’aspetto infernale della vita; ma ciò non toglie che, pur avendo avuto molto presto la sensazione che tutto finirà, e molto male, sono stato accolto magnificamente in questa vita. Faccio parte di una generazione che, a parte poche eccezioni, ha avuto la fortuna di non partecipare a una guerra: sono il primo di una lunga genia di padri nonni e bisnonni che si sono tutti ritrovati a venticinque anni con un elmetto sulla testa obbligati a sparare. Posso dire che abbiamo avuto delle condizioni di vita eccezionali. Non bisogna nascondere ciò che la vita ha di spaventoso, perché chiaramente non è possibile non vederlo. Però io, che sono un gran fortunato, ho avuto un’infanzia formidabile e non sono stato spinto alla rabbia troppo presto a causa di un’enorme frustrazione, di un dolore immenso, sento come un senso di gratitudine e una sorta di necessità di celebrazione»

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Dani Lartigue, Aix les Bains, agosto 1925. Ministère de la Culture (France).

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↔ In alto: foto © Jacques Henri Lartigue, Richard Avedon, New York 1966. Ministère de la Culture (France).
Si ringrazia la casa editrice Marsilio.

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