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Facciamo ordine: sceneggiature un po’ debolucce oltreoceano, dal freak show finito malissimo all’inaugurazione del nuovo patto Givenchy – paese reale, in una sola grande chiesa che passa da Tom Hanks alla poetessa svariati k, via Bon Jovi attraverso Molinari e Jennifer Lopez. E quindi si ricomincia: il revenge taser roba del passato, ora siamo tutti – in larga parte, molti di noi, un buon numero ecco – progressisti, gruppo misto per Biden, socialisti promiscui a stelle e strisce; facciamo che siamo quelli dalla parte del decoro istituzionale, di sicuro vogliamo la pace, non siamo quella roba lì.

Ma quella roba lì ha un retroterra ideologico capace di modellarsi al processo storico, di inquinare il dibattito pubblico anche senza bisogno di un robusto consenso elettorale. Erodendo i presupposti di una società democraticamente avanzata e incontrando pochi ostacoli alla sua normalizzazione, la destra radicale, populista e nazionalista è ormai in una fase matura, frutto di una strategia evolutiva che ha saputo monopolizzare scontento sociale e declassamento. Non ci si illuda: l’addio di un oligarca eversivo non è il preludio al crollo più generale di tutti i Bolsonaro del mondo, men che meno l’evento apripista alla pace sociale. A maggior ragione andrebbe letto come un promemoria per gli anni venturi questo Ultradestra. Radicali ed estremisti dall’antagonismo al potere di Cas Mudde (traduzione di Andrea Daniele Signorelli, prefazione di Caterina Froio, Luiss University Press, pp. 185, € 19,00).

Cas Mudde, politologo olandese di lunga vaglia ed esperto di estremismi, struttura il libro seguendo due linee guida: da una parte l’autore sceglie un approccio comparativo teso a stanare contiguità e differenze di crescita della destra radicale, nelle molteplici esperienze occidentali; dall’altra si avverte l’urgenza per Mudde di affidare a opinione pubblica e studiosi una diversa interpretazione, a cominciare dal titolo. «Ultradestra» è quindi un termine forse nebuloso, se non eccessivamente contenitore, ma che ha il merito di chiarire quello che è il nucleo teorico del saggio: il costante passaggio di idee, simbologie, immaginari e storytelling tra forze di destra radicale e mainstream right, la loro accettazione all’interno del discorso democratico. Si è detto tante volte, se ne è scritto altrettante, ma se oggi – esempio italiano tra gli altri – il più grande avversario della sintesi moderata e progressista, stando ai sondaggi, è un’alleanza tra postfascisti e libertari xenofobi, con buona pace del bipolarismo all’antica, allora andrebbe ripercorso passo dopo passo tutto quel processo di radicalizzazione del conservatorismo liberale. Certamente noi abbiamo una tradizione diversa rispetto ai vicini europei: come sottolinea Caterina Froio nell’interessante prefazione, il partito tesoriere della vecchia ideologia fascista da noi è sempre stato seduto in Parlamento dal ’48 fino agli anni novanta, poi figli e figliastri hanno fatto via via da stampella o trappola per un altro partito invisibile, costruito sulla percezione e nient’altro, un’azienda al potere decenni prima della Casaleggio&Associati.

I rapporti di forza nel tempo sono drasticamente cambiati: oggi l’agenda di governo – di qualunque governo s’intende, visti i tempi ridottissimi di legislatura possibile, quasi una messa a sistema dell’emergenza ben prima della pandemia – così come la formulazione delle politiche pubbliche sono influenzate da idee che un giorno avremmo considerato marginali, lontane dal discorso dominante. E qui Cas Mudde scrive di un’altra differenza all’interno della sua galassia di riferimento: sbagliato confondere movimenti e organizzazioni di estrema destra con quei partiti che definiamo di destra radicale nazionalista. Linea di faglia è il riconoscimento dell’ordine costituzionale democratico: mentre per i primi la nostalgia è impulso e il sovvertimento la prassi, la seconda non mette in discussione – almeno apertamente – il sistema; si modella invece alla contesa istituzionale e al consenso elettorale salvo voler ridefinire alcune premesse del gioco democratico, come lo Stato di diritto, la separazione dei poteri, l’uguaglianza economica.

Dalla fine della storia a oggi, tre gli eventi secondo Mudde a cui si deve il successo della destra radicale nazionalista: l’11 settembre sposta la linea di frattura tra Occidente e Altro da sé sull’asse etnico rispetto a quello politico ideologico, indicando all’Impero un altro polo oppositivo necessario alla propria percezione globale e storica, persino più chiaro sul piano identitario rispetto al passato; la crisi economica del 2008 riorganizza nuovamente il rapporto capitale-lavoro scaricando il conflitto verso il basso, e scomparse ormai rappresentanza politica e coscienza di classe, lo ridisegna secondo il criterio razziale; infine la cosiddetta crisi dei rifugiati del 2015, se di crisi possiamo parlare, catalizza finalmente le nuove destre dentro gli steccati europei, portando alla luce le contraddizioni della convivenza con Ungheria e Polonia, casi limite che Mudde si prende la briga di ricordare a più riprese. Quello ungherese in particolare è un esempio che evidenzia la radicalizzazione del conservatorismo di cui sopra: alle elezioni nazionali degli ultimi anni Fidesz ha superato a destra Jobbik, il partito storico più smaccatamente di destra in Ungheria, e che oggi siede all’opposizione in alleanza con verdi, democratici e socialisti. La questione, come sappiamo, non è neanche più l’elefante Orbán nella stanza del Ppe, che costringe liberali e conservatori classici a ridiscutere ogni giorno la natura della tanto attesa espulsione; è l’ascesa del modello Orbán, ispirazione per molti partiti di Ultradestra come Fratelli d’Italia, a preoccupare Mudde, così come la possibilità – dopo una potenziale fuoriuscita di Fidesz dal Ppe – di ritagliarsi uno spazio radical-populista di più forte interesse rispetto al gruppo dell’Ecr, o ancor peggio assumendone definitivamente la guida.

Felice poi la scelta di Mudde di mettere in fila le tre principali strategie di sopravvivenza della destra nazionalista, analizzando i diversi movimenti di reazione e assorbimento da parte del bipolarismo classico: demarcazione, scontro, incorporazione, interrogandosi sui risultati effettivi, sulle prospettive ancora percorribili per arginare l’istituzionalizzazione dell’Ultradestra caso per caso. E qui, come spesso capita ai saggi di natura politica, specie se dalle complesse premesse tematiche, Mudde è in più di qualche punto vago e canonico nelle proposte. Chiaro che non basta più lo striscione della democrazia per tutti, così come appare sostanzialmente inutile lasciare il conflitto sociale alla memoria storica del mai più; perché se la coppia Salvini-Meloni, rimanendo ancora in Italia, viene generalmente indicata come espressione politica di centrodestra, abbiamo più di qualche problema. Allo stesso modo, se si continuano a ignorare le ragioni politiche profonde e tutte nostrane che hanno contribuito a fare del M5S il partito più votato alle ultime elezioni, pecchiamo della solita ingenuità; il Movimento è in fase di crollo/sussunzione perché l’arsenale dei suoi significanti vuoti non regge alla velocità con cui cambia il processo politico. Un’agenzia di comunicazione può di volta in volta modellarsi alla realtà, ma oggi un sistema riceve molte più pressioni e domande rispetto ai tempi lenti del passato. Occorre quindi fare qualche passo indietro, e una volta chiarita senza confusione categoriale la natura intrinseca della destra nazionalista, chiederci chi sono i moderati oggi, com’è composta la nostra classe media (qual è la differenza con quelle europee?) che tanto ha contributo al successo del grillismo, quali sono le contraddizioni in seno all’élite italiana, salvo intenderci su chi sia oggi élite.

A sinistra appare sempre più urgente disinfettare le categorie politiche da adesioni subculturali o antropologiche, tornare a ragionare sul modo in cui oggi si costituisce il potere e la ricchezza, e da lì provare a fare pace con la propria cultura politica. Brevemente: non basta più analizzare la destra radicale come cosa in sé e per sé, defilandosi da un’indagine più complessiva. Se c’è stata ampia convergenza accademica e divulgativa sull’ascesa di questa Ultradestra, non si ravvisa uno studio diffuso che metta al centro il rapporto tra classe media e ceto dirigente, o l’esaurimento dell’immaginario dominante – privo ormai di un linguaggio capace di riflettere fedelmente le contraddizioni sociali -, responsabile in ultima istanza del fomento reazionario scambiato per il politicamente scorretto. Insomma se i nostri riferimenti spaziano da Kamala Harris a Lorenzo Tosa, servirebbe uno slancio in più almeno solo nel ripensare effettivamente la propria appartenenza politica.

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