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«Dietro i vetri, nella sera d’inverno, probabilmente noi rimarremo muti, io perdendomi nelle favole morte, tu in altre cure a me ignote.»
Dino Buzzati

Agnese ha la gonna raccolta nel pugno, il secchio stretto contro il fianco. Nel secchio, giuggiole verdi e rossastre.
Si lascia alle spalle il frutteto, attraversa il giardino all’italiana, prende il sentiero ombroso che porta alla villa. Quando si accorge dell’ospite apre la mano, la gonna le ricade sulle caviglie. Fruga nel secchio.
«Buonasera! Vuole assaggiare?» esclama. Tende la mano. L’ospite batte i tacchi, poi si piega verso di lei, intercetta un raggio di sole. Lei ammutolisce.
Il suo sguardo si impiglia nelle piccole cose: il frustino appeso al polso, un bottone dorato, il colletto aperto, la gola nuda, l’ombra lieve di una vena.
Il maggiore Francesco Baracca guarda la giuggiola, la prende tra pollice e indice, la chiude nel pugno. Il guanto di cuoio manda un gemito.
È la tarda estate del 1917.

Agnese versa nella bacinella un po’ d’acqua che prende il colore rosato del cielo. Si bagna le tempie, la fronte e i polsi, scioglie e rifà l’acconciatura guardandosi nello specchio scuro. Sente una porta che sbatte, un rumore di ruote sulla ghiaia. Scende di corsa.
Arriva sulla porta in tempo per vedere l’automobile che supera il cancello e si mette in strada. Ascolta il rombo del motore finché non svanisce, quindi si incammina nel giardino. Dalle finestre guarda le cameriere che apparecchiano in sala da pranzo, suo padre che riordina i documenti nello studio, sua madre che parla con la cuoca.
Si siede su una panca di pietra, poi il vento si alza e la fa fremere. Agnese balza in piedi, riprende a camminare tra gli alberi.
L’acqua si raffredda sulla pelle, le mette i brividi.

***

Inserisce timidamente, tra le preghiere della sera, la frase vorrei rivedere il maggiore Baracca, poi arrossisce, si affretta a seppellirla tra i paternoster e gli avemaria.
Raccoglie le ultime giuggiole, lasciandole cadere nel secchio pensa a quell’incontro. Cerca di ricordare il viso del maggiore, ma non ci riesce. Rivede soltanto il grigio-verde dell’uniforme, il rosso del colletto, e sotto un triangolo di pelle scoperta che le sembra così indifeso, così nudo da sconvolgerla.
Se il tempo è bello, fa lunghe passeggiate che la portano al campo di volo. Con la scusa di riprendere fiato si ferma, la mano sul fianco, e osserva gli hangar, la pista. A volte intercetta un aeroplano in fase di atterraggio: lo guarda virare sul campo e prova una delusione cocente.
Quando suo padre non c’è, si infila nel suo studio e sfoglia i quotidiani; legge i bollettini del generale Cadorna, i resoconti dalle zone di guerra, le cronache delle battaglie aeree. Impara le montagne del Friuli, i numeri delle squadriglie, i nomi dei piloti. Scruta le piccole fotografie che accompagnano gli articoli, passa l’indice sulla macchia chiara che dovrebbe essere il viso del maggiore. Esce dalla stanza con le mani nere d’inchiostro.
Una sera scende in giardino.
È ottobre e tira vento, le stelle sono piccole e fredde, la luna disegna ombre puntute sui muri. Agnese alza lo sguardo. La gola nuda di Baracca. La striscia di pelle bruna tra il guanto e il polsino. È giusto? si chiede.
È appropriato volere una persona in questo modo?

***

Ha origliato una conversazione di suo padre.
«Ripiegamento… come è possibile?!… preparo il campo… un nuovo alloggio… quando? Domani pomeriggio?… e Baracca?… capisco, capisco… come… in rotta? In rotta?».
Ha gridato le ultime parole, poi ha abbassato la voce. Agnese è tornata di sopra, si è chiusa in camera. Ora si avvolge la sciarpa attorno alla testa, la gira attorno al collo e le sembra di soffocare, il cuore le batte come se volesse sgusciarle fuori dalla bocca. Guarda nello specchio la sua faccia livida, la sua bocca larga e socchiusa. La pioggia si schianta contro la finestra.
Esce di soppiatto, passando per la cucina. Lungo il viale si mette a correre, la gonna bagnata le si incolla agli stinchi.
Lungo la strada osa immaginare che il maggiore si accorga di lei, che le venga incontro e le parli gentilmente. A quel pensiero le manca il fiato.
Arriva al campo.
Un aeroplano sbuca dalle nuvole, compie un giro sul campo, atterra. Il pilota si mette a sedere sulla carlinga, si sbraccia verso gli hangar. Il resto della squadriglia lo raggiunge in breve tempo. Manca solo Baracca.
Il cielo si scurisce, al campo si accendono le luci. Le campane del Duomo battono le sette. Agnese volta le spalle alla pista e si incammina con il viso dolorante per la febbre.
Un ronzio.
Torna indietro in tempo per vedere l’aereo in mezzo alla pista. Una porta si spalanca, un fiotto di luce gialla si riversa sull’erba e sul pilota. È il maggiore, che guarda nel buio come se la vedesse. Agnese trattiene il fiato, alza la mano, ma Baracca distoglie lo sguardo, si allontana.
Lei torna a casa in lacrime, va in camera, si toglie i vestiti bagnati e si mette a letto.

Sogna un campo di volo, una fila di fuochi in mezzo all’erba bluastra. Un cannone spara a intervalli regolari. I piloti della 91esima stanno decollando, uno dopo l’altro scompaiono tra le nuvole nere.
Il maggiore resta solo. Regge una torcia accesa. Si dirige verso gli hangar. Sfiora le pareti di tela e il fuoco divampa. Il campo brucia.
Lascia il suo aeroplano per ultimo. Lo fissa, poi gli getta addosso la torcia. Il cavallino sulla fiancata annerisce, si accartoccia.
Agnese si avvicina, lo guarda alla luce delle fiamme. La sua faccia è livida, gli occhi sono brucianti, rabbiosi.

Si sveglia che è quasi mezzogiorno. Per un po’ resta distesa a fissare il soffitto, poi sospira, si alza, indossa una vestaglia pesante, infila le pantofole.
Il salotto è tutto cristalli e luci pallide. Davanti alla finestra c’è il maggiore, uniforme grigia e mani dietro alla schiena, che si volta e la chiama per nome.
Agnese si aggrappa al corrimano. Chiude gli occhi.

***

Agnese e il maggiore passeggiano per la campagna brulla. L’erba gelata scricchiola sotto le scarpe. Agnese, in imbarazzo, si strofina le mani. Cerca qualcosa di cui parlare, e finalmente nota un punto marrone contro l’azzurro metallico del cielo.
«Guardi» dice indicandolo.
Il gheppio si libra a mezz’aria, il capo chino, le ali e la coda larghe. All’improvviso si lascia cadere, piomba sul campo e si risolleva reggendo un topo tra gli artigli.
«È una posizione che si chiama “Spirito Santo”» Agnese prende coraggio e si volta verso il maggiore. Legge nei suoi occhi un’ombra di furia. Vede la sua bocca serrata, il muscolo teso della mandibola. Pensa al suo sogno.
«Com’è volare?» gli domanda per distrarlo.
Il maggiore batte le palpebre. «È come avere un corpo nuovo, più grande, prodigioso, che può fare qualsiasi cosa desideri. Andare ovunque. Vedere il mondo intero. A volte, quando l’aria è più pulita, si distingue…» si interrompe. «Per diventare piloti occorre – è indispensabile – essere coraggiosi ma razionali, perché un duello aereo assomiglia a una zuffa tra cani. Se sfioro un apparecchio in volo, se le nostre ali si toccano… è solo stoffa e legno…» parlando solleva le mani, le muove mimando le virate, le discese, gli aeroplani che si sfiorano e si allontanano intatti.
«Vi capita mai di sentirvi solo, lassù?»
«A volte».
Lei pensa di avere la domanda giusta. La butta fuori in fretta, con voce strozzata. «E quando siete qui, insieme agli altri, vi sentite solo?».
Il maggiore si ferma e si volta; per un attimo Agnese alza lo sguardo, poi torna a fissargli il petto: il giaccone bordato di pelo, la giacca di panno grigio.
«Siete così coraggioso» mormora. Allunga la mano, gli sfiora il braccio, con le dita sposta la stoffa, trova il polso, la pelle tiepida. Il sangue di Baracca le pulsa sotto l’anulare, batte veloce e leggero. Lei respira a fondo. Se chiudesse il pugno, lo graffierebbe. Non sono mai stati così vicini.
Alza la testa. Per la prima volta non ha paura di guardarlo negli occhi. «Ho sentito che rimarrete da noi per la notte». Le si intorpidisce la bocca. «Se voleste venire da me, non vi direi di no». Il maggiore non risponde. Lei fa un passetto indietro ma preme la mano sul suo polso – i battiti sono più forti, colpi di martello. «Non potrei dirvi di no» aggiunge.
Indietreggia ancora, si stacca, porta le dita tremanti alle labbra.

***

L’ombra grigia alla finestra. I piedi nudi. Lo scatto della serratura. La pelle d’oca sulle gambe. La mano sul vetro. Il giardino imbiancato. Il cielo coperto. I fiocchi sul davanzale. L’alone pallido del fiato. La luce bluastra. Lo scricchiolio del pavimento. La vestaglia scura. Le spalle dritte. L’incavo morbido della gola.
Un tocco tiepido.
Questo accade in una notte d’inverno.

***

Il quotidiano è in salotto, su un tavolino. È una copia del Messaggero; la data è 24 giugno 1918. Agnese si ferma a guardarlo. Il titolo dell’articolo di spalla, in alto a destra, attira la sua attenzione. Comincia a leggere. Arriva in fondo. Batte le palpebre. Lo legge daccapo. Arriva in fondo. Storce la bocca. Raccoglie il giornale tra le mani, accartocciandolo, affondando le unghie nella carta. Barcolla verso la finestra.
È una giornata limpida, le montagne sembrano grandi e vicine, punteggiate di fuoco e fumo. Sembra che basti allungare la mano per prenderle e chiuderle nel pugno.
Agnese alza lo sguardo, lascia cadere il giornale, e scoppia a piangere.

Ha l’odore delle lacrime sulle guance, sui capelli. Rivede la gola del maggiore così com’era a settembre, così com’era a febbraio – nuda, la pelle sempre liscia. Vorrebbe chiuderla tra le mani: mima il gesto sollevandosi sulle ginocchia, poi ricade. Vorrebbe aver avuto il coraggio, pensa chiudendo gli occhi, le lacrime ferme nelle pieghe della pelle, vorrebbe averlo stretto e baciato, invece ha avuto solo quella gola nuda, piccole porzioni di pelle, la sua mano attorno al polso.
Vorrebbe – e manda un singhiozzo – tornare indietro, cambiare le cose, e invece le restano, come fantasmi che la infestano, il suo fiato sulla guancia, il gesto con cui ha chiuso la giuggiola nel pugno, il suo viso alla luce della neve.

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↔ In alto: foto Italian Aviation Mission, Ansaldo A.1 Balilla in 1918 / Wikimedia Commons.