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I quartieri residenziali sognano la violenza. Addormentati nelle loro sonnacchiose villette,
protetti da benevoli centri commerciali, aspettano pazienti l’arrivo di incubi
che li facciano risvegliare in un mondo più carico di passione.
(J.G. Ballard, Regno a venire)

 

Nel territorio roccioso del Dakota del Sud si stagliano vaste aree di terreni incolti. Da circa un decennio in queste zone sorgono architetture che richiamano al tempo stesso il passato della Seconda Guerra Mondiale e il futuro raccontato dall’immaginario postapocalittico. Sono file di bunker disposti in modo uniforme. Ognuno di essi occupa una superficie di circa 200 metri quadri. Fanno tutti parte di quella che l’imprenditore immobiliare Robert Vicino, fondatore di The Vivos Project, una compagnia specializzata nella costruzione di bunker tecnologici dotati di ogni comfort, definisce con orgoglio «la più grande comunità survivalista della Terra», o anche «la prossima arca dell’umanità». Vicino non parla come un’analista politico, come un sociologo o un intellettuale. Il suo è il linguaggio del marketing; ricorda David Cruise, il personaggio televisivo di Regno a venire di J. G. Ballard che plasma la comunità proto-fascista del centro commerciale Metro-Centre grazie al suo carisma.

Il nuovo libro di Mark O’Connell, Appunti da un’Apocalisse (Il Saggiatore, 2021, traduzione di Alessandra Castellazzi), ci proietta subito in quest’atmosfera ballardiana in cui l’estetica dell’Apocalisse diventa il trojan horse dei rigurgiti reazionari emersi nell’ultimo ventennio in seguito alla crisi della democrazia rappresentativa e di un capitalismo sempre più disfunzionale.
Che cosa sta vendendo Robert Vicino? Alloggi per godersi una versione extralusso della fine del mondo. I bunker di The Vivos Project includono camere di sicurezza per il Dna, palestre attrezzate, centri equestri: le pianure aspre del Dakota sullo sfondo, come in un classico western, e i comfort delle comunità degli ultraricchi che giocano all’Apocalisse. L’estetica del disastro si fonde così con il mito della frontiera americano: una nuova versione accelerata della logica capitalistica della gated community. Come scrive O’Connell:

«Era una novità dell’immaginario apocalittico: banchieri e gestori di fondi speculativi, abbronzati e rilassati, che approfittavano del collasso della civiltà per passare un po’ di tempo sul campo da golf, mentre la polizia privata armata fino ai denti pattugliava il perimetro per scacciare gli intrusi».

Lo scrittore irlandese, come già aveva fatto per il tema della morte e del transumano con Essere una macchina (Adelphi, 2018, traduzione di Gianni Pannofino), mischia reportage narrativo, meditazioni personali e riflessioni culturali, per documentare gli aspetti più oscuri del survivalismo contemporaneo e decostruire così una certa estetica dell’Apocalisse che nell’ultimo decennio ha affascinato una grossa parte del mondo neo-reazionario occidentale.

O’Connell racconta della sua full immersion nell’universo della sottocultura prepper: il movimento di persone che si preparano all’eventualità di un collasso dell’intera civiltà. Il mondo del prepping è un gruppo chiuso fin dal linguaggio esoterico: Shtf (“Shit hits the fan”, il momento in cui la situazione supera il punto di non ritorno), Teotwawki (“The end of the world as we know it”), Wrol (“Without rule of law”, lo scenario in cui il mondo diventa privo di regole o leggi).

Lo scrittore irlandese parla delle sue ore passate su YouTube «guardando video in cui tizi di nome Brandon o Kyle o Brent illustrano agli spettatori il contenuto dei loro zaini di tela “prendi e scappa” contenenti gli oggetti essenziali nel caso si fossero dovuti avventurare nelle lande selvagge per cavarsela da soli». Legge manuali di sopravvivenza, prende appunti sui discorsi in cui si imbatte sfogliando riviste e blog. Ma basta poco per rendersi conto di cosa scorre sotto questo mondo: la vecchia America bianca, che sogna di difendere la propria famiglia con un fucile in mano e una lattina di birra nell’altra, a metà tra Cane di paglia di Sam Peckinpah e la foto virale della coppia di ricchi armati fino ai denti immortalati lo scorso anno di fronte alla loro lussuosa proprietà, nel mezzo delle rivolte seguite all’uccisione di George Floyd.

Non è un caso che i video di noti influencer del mondo del prepping, come James Weasley, Rawles (scritto così, con la virgola), descrivano spesso il collasso della civiltà nei termini della fine dello stato-nazione, dell’economia basata sulla proprietà privata e del venir meno dell’identità, tre elementi senza i quali, secondo loro, non ci può essere altro che saccheggi contro ristoranti e negozi, razzie nelle case e violenza di massa. Il collasso corrisponde, insomma, alla fine di una certa idea di America.

Nel 2015, su un sito chiamato The Prepper Journal, racconta O’Connell, comparve un articolo dal titolo: «Come sarà un mondo Wrol?». Era il periodo delle rivolte di Baltimora. La foto a corredo dell’articolo mostrava un gruppo di giovani neri incappucciati che saltavano sopra un auto della polizia. Nel pezzo non vengono mai citate le rivolte né Black Lives Matter. Ma sulla fiancata dell’auto è visibile la scritta Baltimora Police. Il nesso, nella mente del lettore, è già stabilito. Il testo dell’articolo diventa quasi superfluo. Il collasso arriverà quando le spinte progressiste e di emancipazione saranno egemoniche, quando le dinamiche capitalistiche verranno messe in questione.

La sottocultura prepper raccontata dallo scrittore irlandese è un microcosmo fatto di mascolinità esibita, paura dell’estraneo, ma anche di un rapporto feticistico con gli oggetti, come tende, coltelli e tute isotermiche, mostrati ossessivamente con tanto di recensione delle marche nei video, tanto per rimanere in quel nesso consumismo-fascismo caro al Ballard di Regno a venire. È, inoltre, una mentalità plasmata da una dicotomia fortissima tra città e ambiente rurale. Lo spazio urbano diventa sinonimo di area densamente popolata e controllata dalla cultura dem: l’epicentro del caos nel momento in cui si inizia a percepire la fine dei tempi. L’ambiente rurale diventa il regno della libertà ritrovata, della brava gente che tra una messa e l’altra si allena a sparare al poligono, dei Rotary Club e dei club per veterani convertiti in gruppi di difesa del territorio.

Da una parte il senso della fine potrebbe essere descritto come la tonalità emotiva attraverso cui ogni generazione recente abita il mondo, il prisma attraverso cui si riflette il linguaggio culturale di questo tempo. In un picnic, la moglie di O’Connell chiede a una coppia di amici se hanno in programma un terzo figlio. Loro dicono di no, motivando la risposta con una battuta: con due, in caso di emergenza in cui fuggire, ne avrebbero potuto prendere ciascuno a testa. Con tre sarebbe impossibile.
Dall’altra parte, però, questa tonalità emotiva non è mai un rapporto neutro con il mondo, ma qualcosa di sempre politicizzato e politicizzabile. Dal prepping alla retorica colonialista di privatizzazione del cosmo di Elon Musk, O’Connell cerca di guardare cosa c’è dietro il velo di questa escatologia di lusso. Come quando viaggia in Nuova Zelanda, divenuta da tempo oggetto d’interesse dei miliardari della Silicon Valley. In questa terra, nell’ultimo decennio, la tecno-borghesia creativa ha cominciato a comprare allevamenti, appezzamenti e proprietà per pianificare il proprio ritiro apocalittico in caso di collasso della civiltà. La Nuova Zelanda è una terra relativamente al riparo dagli effetti più devastanti del cambiamento climatico, dotata di vaste aree disabitate, immersa in uno scenario naturale unico. Ma non c’è solo questo. O’Connell si sofferma su quel crocevia di idee che mette insieme libertarismo radicale, tecnoutopia e visione apocalittica, un mix che da decenni gira direttamente e indirettamente intorno a Peter Thiel, l’imprenditore co-fondatore di PayPal e tra i primi finanziatori di Facebook, cittadino della Nuova Zelanda dal 2011 e consigliere nella campagna presidenziale di Donald Trump. Thiel è anche autori di molti scritti in cui dichiara la pericolosità della democrazia per garantire la libertà dell’individuo. Testi che hanno ispirato l’ormai famigerato manifesto della neoreazione The Dark Enlightenment, scritto dal filosofo britannico Nick Land, che a sua volta rielabora e amplia le tesi del blogger Mencius Moldbug. L’influenza di Thiel su questa galassia non si limita a una questione di influenza intellettuale. Moldbug, ad esempio, il cui vero nome è Curtis Yarvin, deve la sua fortuna economica alla creazione di una piattaforma di calcolo chiamata Urbit. Tra i principali finanziatori di Urbit figura non a caso Peter Thiel, che negli anni ha investito anche in molte start up neozelandesi.

C’è poi un libro che sembra fare da epicentro di tutte queste linee di fuga: dalla Nuova Zelanda alla Silicon Valley, passando per Thiel e la neoreazione. Si chiama The Sovereign Individual: How to Survive and Thrive During the Collapse of the Welfare State scritto da due consulenti in materia di investimenti, James Dale Davidson e William Rees-Mogg. È un testo del 1997  dal tono millenaristico in cui viene magnificata l’ascesa di internet e delle criptovalute per erodere l’ingerenza dello Stato negli scambi tra privati, dove per altro viene paragonato lo stato democratico a un cartello criminale.
L’interesse da parte di Thiel per la Nuova Zelanda, così come di molti miliardari della Silicon Valley, è quello di trasformare questa terra in una sorta di esperimento in vitro per le proprie fantasie politiche. Il termine «utopia» ricorre spesso nei suoi discorsi. Ma come dice la giurista Khylee Quince, intervistata da O’Connell nel suo ufficio alla Auckland University of Technology, ogni appello alla Nuova Zelanda come utopia è sempre un’enorme allarme rosso, in particolare per i maori come lei, poiché quella narrazione «cancellava la presenza di chi era già lì: i suoi antenati».

In Appunti da un’Apocalisse, contrariamente alle aspettative, si parla relativamente poco di cambiamento climatico. L’intento di O’Connell non è minimizzare il fenomeno, ma fare emergere quanto il collasso possa diventare un concetto funzionale alla riappropriazione di privilegi messi a rischio dai processi storici della contemporaneità:

«L’idea del collasso parla, a livello istintivo, a una sensibilità reazionaria — una sensibilità per cui il mondo è sempre necessariamente a uno stadio avanzato di degenerazione, dopo la caduta dall’unità e dall’integrità edeniche. (Il femminismo, il politicamente corretto, l’atteggiamento supino della sinistra nei confronti dell’Islam, e così via: la struttura della civiltà occidentale è, nell’ottica reazionaria, sempre smangiata dall’interno)».

Così, la fascinazione per i bunker di lusso diventa il rovesciamento distopico del sogno americano: un regno sotterraneo e blindato che, nel mezzo del caos mondiale, permette di continuare a vivere in maniera agiata da soli e con la propria famiglia, lontani da qualsiasi sforzo collettivo. Il filosofo francese Paul Virilio, nel suo Bunker Archaeology, parlando dell’impatto di questa costruzione nel nostro immaginario, la paragona a una cripta che prefigura la resurrezione, o a un’arca che traghetta in maniera salvifica in un nuovo mondo. Ma il nuovo mondo, in questo caso, è già vecchio, è il grido disperato della restaurazione. Per questo la preoccupazione di O’Connell non è tanto sulla realtà o meno della catastrofe, ma riguarda la maniera in cui la descriviamo e come la affrontiamo. La parola «comunità» viene nominata più volte nel libro, come contraltare all’individualismo alla base di certe visioni apocalittiche. La sopravvivenza, per il prepper, non è mai realmente una questione collettiva; riguarda piuttosto un orrore profondo di finire tra chi soffre, e non si preoccupa di «prevenire o alleviare le sofferenze altrui».

L’Apocalisse raccontata da O’Connell non irrompe, quindi, come l’evento biblico, la rivelazione che riavvolge il nastro del tempo (ἀποκάλυψις cioè «rivelazione, svelamento, manifestazione»), né come un impossibile sempre al di là da venire, ma che nella sua presenza d’orizzonte ci spinge a riconsiderare la storia che costruiamo e viviamo. Questa Apocalisse si annuncia come il rinforzo di un discorso patriarcale, di classe, individualista e coloniale. L’invocazione della morte del mondo, di un certo tipo di mondo, si sovrappone a una retorica in cui lo spirito di esplorazione umana, come emerge nel discorso di Elon Musk alla Mars Society Convention del 2012, coincide con lo spirito bianco europeo di conquista e sfruttamento.

Ma il libro può essere letto anche come una meditazione critica da parte di O’Connell sulle sue stesse ansie di intellettuale bianco benestante. Nella parte finale, quando si domanda se la sua ossessione e fascinazione per i segni della fine dei tempi e del collasso imminente non siano l’espressione di una condizione di privilegio, O’Connell sembra chiedersi se l’uso strumentale dell’estetica apocalittica da parte dei neoreazionari non si regga su un meccanismo che, con modalità diverse, agisce anche all’interno dello stesso autore. «Cos’altro intendevo con la fine del mondo, dopotutto, se non la perdita della mia posizione al suo interno? […] Alla fine, capii che il collasso della civiltà mi spaventava perché in realtà mi spaventava l’idea di dover vivere, o dover morire, come le persone invisibili e perlopiù ignorate su cui si reggeva quella che noi chiamiamo civiltà. Le persone che coltivavano i chicchi di caffè per il cappuccino chiaro che prendevo sulla via del lavoro. […] L’infinità di senza tetto che oltrepassavo, per cui la civiltà era già collassata». D’altronde, è proprio all’interno di un collasso globale, come ha scritto di recente Paul Preciado riflettendo sulla pandemia, che le politiche adottate sui soggetti marginalizzati cominciano a essere percepite anche sui corpi del resto della popolazione. E proprio la parafrasi di un passaggio di Preciado potrebbe essere la sintesi perfetta di questo libro: ditemi come la vostra comunità sta costruendo la sua sovranità politica e io vi dirò che forme assumeranno le catastrofi e come le affronterete.

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