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In principio, la pelle. Il guscio più esterno, l’organo onnipresente, narrazione primigenia, detentrice della scala cromatica più ampia, custode di «azioni nervose e vasi sanguigni. Botte e traumi. Tutto ciò che, in sintesi, sotto sotto siamo». A seguire natiche, caviglie, pancia, capelli: nei frammenti che compongono Anatomia sensibile (SUR, gennaio 2021, traduzione di Silvia Sichel), Andrés Neuman affida la narrazione alla celebrazione del corpo quale paesaggio incostante, mutevole, personalissimo. Muscoli, organi, tendini: in ciascuna delle trenta istantanee l’io dà voce al microcosmo che ogni regione corporale rappresenta. Dai fianchi a parentesi al ritmo del piede fino alle efelidi-commento della schiena, Neuman scandaglia la grammatica del corpo, passandone in rassegna gli anfratti più reconditi. A ogni sintagma anatomico corrisponde un repertorio di abitudini e peculiarità individuali:

«L’occhio nero fa nottata. Quello celeste, al contrario, apprezza la colazione e la puntualità. Quello verde ospita una tundra e ama l’inverno. Approfittando della sua consistenza di dessert, quello color miele può raggrumarsi di rabbia senza che nessuno se ne accorga. L’occhio blu si annoia con facilità».

E dopo la grammatica la geografia, che collabora nel dirottare in chiave (anche) politica il viaggio nei corpi – la collina del malleolo, i rilievi e le idrografie delle mani, i nei come arcipelaghi. Percorrendoli centimetro dopo centimetro, Neuman esplora l’anima del sé e del mondo e ci consegna una mappa della società attuale. In un gioco di incastri tra percezione e materia, il linguaggio insondabile della figura umana si fa struttura; gli angoli di pelle remoti come certe cicatrici, parole desuete. È lo stesso atto di decodifica che rivela la comunione del corpo con sé stesso e con l’esterno, il dialogo che insceniamo camminando adagio, grattandoci la nuca, mordendoci le unghie.

Nella cartografia letteraria che ne emerge, Anatomia sensibile è un compendio su come scoprire, amare, manutenere un corpo che ci identifica e al contempo ci ricorda che la nostra identità prescinde da esso. La sola trama è il corpo, struttura portante dell’opera. E come il corpo sfugge a ideali estetici convenzionali, così la scrittura rifugge da un genere univoco: quello di Neuman non è né un saggio né una raccolta di racconti. La preferenza è accordata alla forma breve – il libro supera, complessivamente, poco più di cento pagine –, ma a questa brevità fa da contraltare un fitto addensarsi di immagini, e ogni sezione richiede il tempo necessario per essere assimilata.

La narrazione è ripartita in trenta testi in cui, in ordine sparso, diviene protagonista una diversa porzione anatomica, dal biasimo del braccio alla lode del gomito, dalle occupazioni dell’ombelico al manifesto della natica. In tutte queste concentrate trattazioni, di ogni elemento sono evidenziate essenza e funzionalità, virtù e debolezze. Sono allora scagionati, ad esempio, i ciuffi di peli nelle orecchie, sintomo che vi albergano sentimenti reconditi, o la lanugine nell’ombelico, un nuovo inatteso fenomeno di sedimentazione. A tale polifonia anatomica si offre una lingua estremamente malleabile – ora comica, ora densamente poetica –, che mescola registri disparati. La prosa limpida dell’autore si rivela il risultato del perfetto equilibrio di ironia, sarcasmo, poesia, filosofia.

In questo susseguirsi di ritratti, Neuman riesce nell’atto di restituirci l’idea di un’anatomia, la nostra, pari a qualcosa di estraneo, completamente sconosciuto. Il collo non è che il prolungamento delle ossessioni, la tempia il pozzo a cui si abbevera il pensiero: il corpo valica il confine imposto dal proprio perimetro, si scoperchia, si srotola. Dappertutto, l’anima lo abita.

«L’anima è nervo, un fascio di impulsi intercomunicanti. Ma anche mucosa, perché protegge il mondo intimo e si annida negli angoli. E articolazione, sempre capace di collegare due piani. E arteria, certo, quando colma un vaso di sangue. E organo vitale, dedita senza tregua a funzioni primarie per la sopravvivenza. Da ultimo, è cutanea: un mistero che affiora in superficie, un fremito qui e ora».

Nell’ossimorica impresa di sfruttare la materia per valorizzazione la percezione, Neuman consegna l’inventario di un corpo che si fa spartito, vissuto, melodia, ordito; capace, all’indomani del parto, di dispiegare «un territorio transitato da più vite, la trama di una mappa. Seguirlo ci conduce all’origine del cammino, che mai fu retto. Le strie permettono di ricostruire il filo del pensiero prenatale, come una tenue scritta sui vetri».

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