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Grazie ancora una volta alla cura e alla traduzione di Salvatore Mugno, scrittore e saggista siciliano, torna nelle librerie italiane una nuova edizione aggiornata di Les poèmes d’un Maudit di Mario Scalesi (Transeuropa, 2020), l’unica opera del poeta magrebino, pubblicata postuma nel 1923. Nato a Tunisi nel 1892, da padre trapanese e madre tunisina di origini maltesi, Scalesi è stato fondamentalmente un autodidatta e la sua vita breve è segnata da un incidente che lo renderà storpio per sempre, dalla miseria e dalla malattia che lo porterà alla morte appena trentenne in un ospedale psichiatrico palermitano. Verrà seppellito in una fossa comune, quasi a seguire il destino di quei «morti ignorati» di cui loda il sacrificio in uno dei testi forse più rilevanti della raccolta.
Scorporato dalla cornice delle ascendenze letterarie, il maledettismo evocato nel titolo non assume in Scalesi un carattere puramente epigonale, caricandosi fin dai primi componimenti di evidenti implicazioni biografiche. Quella di maudit è in primo luogo una condizione (personale e sociale), non un’autoinvestitura e una rivendicazione correntizia più o meno blasonata: siamo piuttosto lontani dalla dimensione del poeta maledetto di matrice verlainiana e dalle sue declinazioni mitiche. Anzi, al contrario, Scalesi sembra coltivare deliberatamente una lucida e schietta marginalità.
Persino nei suoi accenti rivoltosi e antiborghesi non c’è nulla di epico o di elettivo nella maledizione richiamata dal poeta nordafricano, che mette in versi senza corollari eroici la sua sofferenza di «paria in lacrime», attraversa i paesaggi suburbani su cui si stagliano i suoi «delitti / di rimatore» e fa quotidianamente i conti con tutte le inquietudini identitarie del meticcio.
Il denso saggio che precede i testi della silloge è una vera e propria miniera di informazioni, notizie, dettagli sulla travagliata vicenda biografica di Scalesi e sulla sua unica raccolta di versi, oltre a contenere un rigoroso excursus documentale sulla collaterale attività pubblicistica del poeta e sulla sua collocazione storica nel variegato panorama della letteratura coloniale di lingua francese, nonché sulle alterne fortune della sua ricezione critica. Salvatore Mugno non si limita a esibire le sue credenziali di traduttore e a fornire un profilo essenziale dell’autore, ma compie una ricognizione contestuale e minuziosa sulla figura di Scalesi, instaurando un corpo a corpo con i testi della raccolta, e tracciando una mappa di possibili analogie e differenze tra la poesia del nordafricano e la produzione pressoché coeva. Con il fiuto paziente e tenace di un segugio e una passione scrupolosa quasi da filologo militante, Mugno setaccia meticolosamente anche gli scritti giornalistici del poeta su riviste e periodici tunisini, per meglio cogliere il milieu in cui si è svolta la breve parabola esistenziale e letteraria dell’autore italo-tunisino.

La tua bibliografia saggistica tradisce, tra l’altro, una certa predilezione per gli irregolari: autori spesso colpevolmente dimenticati o considerati marginali, rimasti fuori dai canoni e che meriterebbero di essere (ri)scoperti (penso tra tutti a Tito Marrone di cui ti sei occupato strenuamente). A quando risale la tua scoperta di Mario Scalesi e il tuo interesse sempre più crescente per questo autore?

Ritengo che la condizione di irregolarità sia, in qualche modo, insita nell’idea che io ho dello scrittore, dell’artista. Provare a esprimere, a rappresentare artisticamente se stessi e il mondo costituisce uno status fuori dalla ‘regola’, sempre. Io, poi, ci metto ancora del mio, per così dire. Mi piacciono la ricerca e la scoperta di ciò e di chi, a mio avviso, ha valore, talvolta molto valore, ed è stato, tuttavia, accantonato o marginalizzato con troppa superficialità. E poi ho l’ardire di assumermi il rischio di proporre o riproporre taluni autori. E di farlo anche per decenni. Lo scrittore, così come il critico, lo studioso, credo abbiano questa grande responsabilità: individuare, segnalare e provare a preservare, per quanto possibile, ciò che merita di durare e di essere diffuso.
Scalesi è ancora, dopo una frequentazione trentennale, uno dei miei principali e stabili interlocutori, in tutto ciò che concerne la vita, la letteratura e la loro commistione. Sì, il mio interesse per questo autore è sempre cresciuto nel tempo. Il mio dialogo con lui e la mia passione per la sua opera non si sono esauriti. Ritengo anzi che essa si possa conoscere e valorizzare ulteriormente.

Nel presentare il poeta ai lettori italiani, ritenendola una questione letteralmente preliminare, tu ti metti subito sulle tracce di una possibile collocazione sul piano storico-letterario della produzione di Scalesi, distanziandola quanto basta sia dal tardo parnassianesimo che dallo stesso Baudelaire, nonostante il suo legame ambivalente con questo modello in parte emulato e poi ripudiato, come si evince soprattutto in Lapidazione: una sorta di manifesto della poesia scalesiana. La varietà delle forme adottate e delle scelte linguistiche non consentono, in effetti, una classificazione pacifica né tanto meno spicciola. Eppure, per la nozione che ne abbiamo in Italia, l’impressione è che in molti dei suoi testi Scalesi faccia uso – spesso in modo quasi didascalico – un po’ di tutto l’armamentario figurale del simbolismo francese. Tu perché lo definisci senza mezzi termini un «simbolista solo in parte»?

Se è vero che la poesia simbolista, in prevalenza, «pensa per immagini e non per concetti» e si fonda spesso su parole-chiave, bisogna riconoscere che Scalesi è simbolista soltanto in alcune sue composizioni, una piccola sezione dei suoi circa centodieci componimenti. La gran parte della sua produzione, infatti, è costituita da testi che sviluppano una ricca e coerente articolazione di pensiero e di argomentazioni, che si combinano, per lo più, tra di loro in una visione complessiva del mondo in modo piuttosto lucido e razionale. Non sono molti i suoi testi di ispirazione simbolista.
Nella sua breve vita, il poeta siculo-tunisino ha avuto modo di dispiegare diverse sensibilità, in un crescendo di consapevolezza personale, artistica e storica. Tra le sue poesie, infatti, ve ne sono alcune, poche, riconducibili a un respiro di tipo crepuscolare, altre, invece – un drappello molto più cospicuo, originale e rilevante – propongono una sorta di visionarietà e di horror vacui, intrisi di angoscia e di strisciante follia umana. Si tratta della considerevole vena noir del lavoro dello scrittore nordafricano, quella che indaga quanto di più tenebroso e spaventoso comporta la nostra esistenza, ma senza il compiacimento scapigliato.
Vi è anche un profilo engagé e realistico della poesia scalesiana, che riflette, peraltro, gli umori e gli indirizzi artistici primonovecenteschi, coevi all’attività dello scrittore tunisino. Penso a composizioni vigorose come L’épopée du pauvre e Ode à l’argent e ad alcune liriche contro la guerra che, sotto certi profili, sembrano addirittura muoversi in un solco espressionistico, con la condanna del capitalismo, del militarismo, della violenza contro l’individuo e le masse, e con la critica della morale borghese.

Renzo Paris – che ha curato la prefazione alla tua prima traduzione italiana di Les poèmes d’un Maudit e che negli anni è stato uno dei lettori più assidui di Scalesi –, nel recensire questa nuova edizione, ha invece ribadito soprattutto l’assimilazione del poeta tunisino alla figura di Tristan Corbière e ai suoi Amori gialli.

Sono molto grato a Renzo Paris, scrittore e francesista di primo piano, per gli importanti contributi critici sull’opera del maudit tunisino e per l’attenzione che riserva ai miei lavori. Come è noto, egli ha curato diverse edizioni italiane de Les amours jaunes di Tristan Corbière e, pur nella notevole differenza tra quest’opera e Les Poèmes d’un Maudit, è anche vero che vi sono molte affinità tra i due autori maledetti: a parte le analogie relative alle loro vite segnate da patologie gravi e dalla morte precoce (entrambi muoiono a trent’anni di età), molte sono anche le affinità sul piano dei contenuti delle loro sillogi (entrambi autori di un’unica raccolta) e sul travaglio linguistico dei due poeti. Molto pertinente è, inoltre, il richiamo di Paris ai comuni «amori gialli» dei due scrittori, cioè degli amori infetti, malati, amari, impossibili. Marcelle è il mito femminile di Corbière, una donna che egli condivide con un altro uomo, e che è al centro della sua opera. Tante sono, d’altra parte, le composizioni che Scalesi dedica a figure di donne (tra le quali una Laura), a volte angelicate, ma più spesso descritte come perverse, ingannatrici, disponibili alla corruzione, indifferenti o addirittura sprezzanti dei tormenti maschili, fonti assolute di Vita ma anche della perpetuazione del dolore umano. Entrambi, Scalesi e il poeta bretone, così come Baudelaire del resto, frequentano e scrivono di prostitute, sia pure in modo differente. Scalesi sembrerebbe, in questo caso, meno audace dei suoi confrères. Penso, ad esempio, a una poesia come Les poupées. Insomma, si tratta di un tema enorme, e non soltanto per i poeti, che richiederebbe un intero saggio per essere almeno un po’ sviscerato. Le vite irregolari di questi maudits consentono loro di conoscere il mondo fuori dal talamo delle convenzioni e di approcciarsi alle donne senza infingimenti, senza troppi condizionamenti, senza pregiudizi, infine, né positivi né negativi. In tempi come i nostri, in cui la “guerra dei Roses” è diventata la regola, autori di tal fatta andrebbero studiati davvero.

Alcune poesie, come Sonetto riflesso, indubbiamente uno degli esiti più felici della raccolta, sembrano richiamare (come tu stesso accennavi prima) anche un clima di probabile impronta crepuscolare. Anche a leggerla in questa prospettiva quella di Scalesi, però, a me pare una poesia in cui la dimensione del dolore è meno esibita e dotata di minore sorveglianza autoironica rispetto, per esempio, al contemporaneo Gozzano: la quotidianità e la vaghezza, gli elementi a volte prosastici, il temperamento saturnino, il male di cui si sostanziano i suoi «funebri versi» sembrano rimandare sempre a quella «vita tenebrosa», alla sua condizione di emarginato e alle sofferenze fisiche più che a una compiaciuta postura letteraria (il «freddo spleen premeditato» evocato, appunto, in Lapidation).

Per molti aspetti, è proprio così. Il timbro scalesiano è, solitamente, più quello sarcastico e, per così dire, talvolta perfino auto-sarcastico, che non quello ironico o autoironico. Almeno quando scrive in poesia. Nei testi saggistici, invece, sembra più disponibile all’umorismo, al divertimento. Certi suoi versi sono amari sino al fiele, ma proprio per questo belli e utili. Sì, la poesia può essere utile! Per le nostre anime, s’intende. Scalesi, comunque, non chiede applausi e like, neppure a se stesso, ma, semmai, come fa in una sua poesia, si augura di poter «dormire tra i morti ignorati», cioè di starsene, anche nell’aldilà, lontano dalle ipocrisie del mondo esibizionista. Egli racconta l’impossibilità e la falsità dell’amore, l’assurdità dell’esistenza umana, la fragilità di un Dio assediato da bestemmiatori e da adoratori del vitello d’oro, l’ingiustizia sociale e storica, la sofferenza anche dei ‘sani’ e dei ‘felici’, la coazione a ripetere e a ripetersi dell’umanità che ciecamente si autoriproduce, anche e soprattutto nelle proprie miserie. Pillole non facili da somministrare e ingerire. Anche quando si sofferma apertamente sul proprio dolore, il poeta non chiede mai la commiserazione e la pietà pelosa del lettore.
Il suo mondo non è, certo, quello borghese, protetto e autocompiaciuto presente in tanti testi dei crepuscolari. Egli, infatti, non è un crepuscolare, ma un poeta combattivo, ribelle, incendiario, semmai, ma senza retorica, senza falsi miti ideologici.
Sonetto riflesso è, a mio avviso, un piccolo capolavoro, nonché emblema della purezza, della solitudine, del risentimento del poeta-bambino sofferente e che, di fronte al teatro del mondo, preferisce ritirarsi nella sua cameretta, rifiutandosi di parteciparvi.

A un certo punto, citando testualmente il poeta, ti soffermi sulla «intraducibilità della poesia» e su alcuni aspetti formali e linguistici dei testi con cui hai fatto i conti. Hai incontrato particolari difficoltà nel tradurre un autore dal background culturale meticcio come Scalesi, e quali sono le modifiche apportate ai testi rispetto alla prima edizione del 1997?

In un suo articolo su «La Tunisie Illustrée», pubblicato nel 1920, il nostro poeta spiega perché, a suo avviso, la poesia, a differenza della prosa, è non traducibile, se non con delle forzature. Essa si basa, infatti, in modo sostanziale, pure quando voglia essere dissonante, anche sull’armonia e sul ritmo, come una musica che, in quanto tale, non può essere modificata nei suoi suoni, nelle sue note, se non a prezzo di trasformarla.
Le difficoltà per tradurre una silloge di questo tipo sono davvero infinite. È un lavoro eternamente in progress quello del traduttore. La poesia di Scalesi si rifà ai modelli della letteratura francese, magari scardinandoli un po’, rileggendoli a modo proprio, ma il pensiero dell’autore è intriso di dimensioni molteplici, legate anche alle sue origini italiane e alla sua patria effettiva, che è stata la Tunisia, da lui a volte criticata, ma anche tanto amata. Egli si sente un africano che scrive in francese. Cogliere tutti insieme questi profili della sua personalità talvolta non è facile.
In questa nuova edizione, oltre ad avere enormemente arricchito il saggio introduttivo e la biografia del poeta, ho totalmente rivisitato le mie traduzioni risalenti ormai a 25 anni addietro, perseguendo una maggiore adesione ai testi originali e un perfezionamento della resa del pensiero scalesiano. Sono state apportate innumerevoli variazioni e rifiniture.

Il tuo lavoro è fitto, tra l’altro, di rimandi agli scritti giornalistici di Scalesi, alla sua scrittura saggistica e alla sua attività di critico militante, quasi a sottolineare che si tratta di un lavoro complementare e non meno significativo del corpus poetico. La prospettiva si allarga se si contestualizzano storicamente e culturalmente i suoi interventi su rivista, come hai fatto tu, soffermandoti anche sulle sue idiosincrasie di critico e la sua battaglia per l’affermazione di una letteratura tipica magrebina. Che tipo di saggista e critico letterario è stato Scalesi?

Mario Scalesi è stato un critico e saggista davvero brillante e anzi a tratti stupefacente, soprattutto se si pensa alla sua breve vita e alla sua formazione, grosso modo, da autodidatta. Ma è stato, soprattutto, geniale nel cogliere, con intuizione da antesignano, il ruolo importante che poteva assumere, nel nord Africa, una letteratura di espressione francese, come collante non soltanto tra i popoli del Maghreb e di altre nazioni africane, ma anche come ponte con la cultura europea, nella contestuale e consustanziale difesa dell’identità della Tunisia e del Nord Africa, la cui narrazione doveva essere sottratta agli scrittori, soprattutto francesi, amanti dell’esotismo. Oltre ad occuparsi delle recensioni di opere ed eventi letterari, Scalesi proponeva anche, in modo specifico, una sua visione dell’arte e del suo ruolo, sostenendo vere e proprie battaglie culturali. Se fosse vissuto di più, ci avrebbe regalato di certo altri preziosi documenti e idee.

Tu dedichi, alla fine, un lungo e dettagliato excursus alla travagliata ricezione critica di questo autore. Nonostante sia stato riconosciuto come il precursore della letteratura magrebina di espressione francese e – a giudicare da alcune testimonianze eccellenti – il maggiore poeta tunisino di lingua francese del Novecento, la figura di Mario Scalesi è ancora pressoché misconosciuta in Italia o frequentata soltanto dagli specialisti. Come mai nel nostro Paese le traduzioni di autori di letteratura magrebina sono ancora così ‘settarie’?

Il nostro è un Paese distratto, obbediente alle mode, poco coraggioso, spesso in mano alle conventicole, anche quelle della critica e dell’accademia. Un paese che non ama molto la ricerca e la scoperta. Invaso da editori, autori e libri, ma con pochi veri scrittori e autentici e autorevoli critici.
Mi piace, comunque, ricordare che tra coloro che, in Italia, hanno scritto di Scalesi, oltre a Renzo Paris, vi sono Lorenzo Gigli, Antonio Corpora, Gaspare D’Aguanno, Giuliana Toso Rodinis, Vincenzo Consolo, Aldo Nicosia e vari altri studiosi.
Scalesi non è forse un autore che si addice alle grandi folle di lettori italiani. Ma sono sicuro che potrebbe piacere moltissimo ai giovani, se soltanto avessero la pazienza di leggerlo con la necessaria passione.
Occupandomi di Scalesi e, poi, di Shabbi, il più celebre poeta tunisino in lingua araba del Novecento, mi sono accorto che in Italia mancano, ancora oggi, le traduzioni di parecchie delle principali opere dei più importanti scrittori nostri dirimpettai nel Mediterraneo. È un grave danno per noi e un grosso limite della nostra cultura. Piuttosto che comprare insignificanti best seller, dovremmo fare lo sforzo di intercettare e pretendere libri di maggiore qualità, sia di autori italiani che stranieri.

Un ‘maledetto’ nostrano e di tutt’altra specie come Pasolini, nel risvolto di copertina di Trasumanar e organizzar – la sua ultima raccolta di versi pubblicata in vita – scrive: «So anche che ci sono dei lettori che, di un libro di poesie, ne leggono solo una», e suggerisce provocatoriamente a quei lettori la poesia da leggere di quella raccolta. Se tu dovessi indicare al lettore che si accosta per la prima volta alla poesia di Scalesi soltanto uno dei componimenti raccolti nel libro – magari semplicemente il più rappresentativo o quello che meglio compendia il linguaggio e la centralità dei temi di questo autore – quale componimento sceglieresti?

Un poeta, mi spiace per Pasolini, difficilmente può essere rappresentato da una sua sola poesia. Un lettore che si accontentasse di questo, non sarebbe un buon lettore. Dovrebbe fare lo sforzo di leggerne più di una. Nel nostro caso, poiché la pur relativamente esigua produzione scalesiana, composta da poco più di cento poesie e pubblicata in volume postuma, potrebbe, idealmente, ripartirsi in almeno tre piccole sillogi, ne suggerirei tre: Il vecchio toscano, I minareti e L’epopea del povero. Esse potrebbero essere emblematiche, rispettivamente, del mondo interiore e privato del poeta, della sua appartenenza al Nord Africa e del suo profilo di scrittore rivoltoso e engagé.

Le vieux Toscan

II faisait froid, il faisait noir,
Et tu ne rentrais pas! Ton père,
Debout, sifflotant de colère,
Éprouvait le fil d’un rasoir.
Ta mère pleurait en silence.
Heure tragique! Malgré moi,
J’imaginai sans trop d’émoi
La lame teinte de garance.
Le vieux Toscan badinait peu.
Il jurait, froidement sauvage,
De te taillader le visage,
Ô ma mignonne aux yeux de feu…
Je rêvais de te voir réduite
À ne plus me désespérer:
J’eusse été seul à t’adorer,
Une fois ta beauté détruite.
Tes traits doux et martyrisés
Étant sculptés dans ma mémoire,
J’aurais ressuscité leur gloire
Sous la ferveur de mes baisers.
Par ma patiente tendresse
Refleurissant ton mois de Mai,
De ton sourire parfumé
J’aurais fait mon unique ivresse.
J’ai détourné l’arme. Le ciel
M’inspirait mal pour ta conquête.
Adieu, mignonne! Je regrette
Le crime providentiel.

Il vecchio Toscano

Faceva freddo, faceva buio,
ma tu non rincasavi! Tuo padre,
in piedi, friggendo di rabbia,
arrotava il taglio d’un rasoio.
Tua madre piangeva in silenzio.
Ora tragica! Mio malgrado,
immaginai, senza eccessivo sussulto,
la lama tinta di scarlatto.
Non scherzava il vecchio Toscano,
freddamente inferocito minacciava,
di sfregiarti il volto,
o mia piccola dagli occhi di fuoco…
Sognavo di vederti degradata
da non dover più disperarmi:
io soltanto t’avrei ancora adorato
una volta annientata la tua bellezza.
Delle tue fattezze dolci e martoriate,
ormai scolpite nella mia memoria,
avrei resuscitato la magnificenza
sotto il fervore dei miei baci.
Con paziente tenerezza,
ricreando la tua stagione migliore,
dal tuo sorriso profumato
avrei ricavato la mia sola ebbrezza.
Ma ho deviato l’arma. Mi suggeriva male,
il cielo, per la tua conquista.
Addio, piccola! Io rimpiango
il provvidenziale delitto.

Traduzione di Le vieux Toscan a cura di Salvatore Mugno

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