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Terminata la lettura di Spirdu, ultimo libro di Orazio Labbate, ho provato l’immediato desiderio di rivedere L’esorcista di William Friedkin. Il motivo più immediato di questa reazione è molto semplice da spiegare: uno dei due protagonisti del romanzo, Jedediah Faluci, è un esorcista che, come ci informa la presentazione dei personaggi nelle prime pagine, vive ed esercita a Falconara, presso Butera, in Sicilia. Ma al di là dell’ovvio punto di contatto rappresentato dal mestiere di Jedediah, un’altra probabile causa sta nel fatto che uno degli elementi fondamentali della narrazione di Spirdu risiede proprio nel rapporto tra esseri umani ed esseri demoniaci, tra i vivi e l’influenza che i morti continuano ad esercitare – ma su questo, come su altri punti, non ultimo il titolo, sarà il caso di tornare con maggior attenzione più avanti. Ancor più a fondo, è l’adesione di romanzo e film a un medesimo orizzonte culturale che mi ha riportato sulla traiettoria del capolavoro di Friedkin: perché per quanto la presenza della Sicilia (terra natia di Labbate) occupi una posizione centrale sia a livello stilistico sia come teatro degli eventi, lo sguardo dell’autore si rivolge anche e soprattutto oltreoceano, a quegli Stati Uniti che pare abbiano avuto un peso non indifferente nella sua formazione. Fatta questa premessa, è meglio andare con ordine e spiegare di chi e di cosa stiamo parlando.

Senza mezzi termini, limitatamente alla generazione più giovane (diciamo chi è sotto i quarant’anni), direi che pochi scrittori e poche scrittrici, qui in Italia, hanno avuto la capacità di dare forma a un immaginario così denso, preciso e passionale come Labbate. Un immaginario che non è solo espressione delle ossessioni dell’autore, del suo rapporto con una tradizione letteraria (e anche cinematografica) che, come detto, affonda nella sua Sicilia e corre fino agli Stati Uniti, non senza uno sguardo a certe proposte novecentesche per lui irresistibili (Kafka, Bernhard, Landolfi o Manganelli, giusto per fare qualche nome); ma soprattutto un immaginario che è la precisa testimonianza della fedeltà a un’idea di letteratura come vigoroso e fermo scandaglio delle ombre del cuore umano, come combattimento da portare avanti a testa alta. Sebbene i suoi tre romanzi abbiano connotati marcatamente horror e si inseriscano nel solco della letteratura fantastica, non c’è spazio per la paura nella scrittura di Labbate. Troppo sincera e troppo vera per cedere a debolezze o a corrive soluzioni stilistiche; troppo decisa e troppo concreta per lasciare indifferente chi sente ancora il bisogno di scommettere sul futuro della letteratura.

È il 2014 quando Labbate pubblica il suo primo romanzo, Lo Scuru, presso i «Romanzi» di Tunuè. Tre anni dopo, per la stessa casa editrice, esce Suttaterra. La recente pubblicazione di Spirdu, inserito nella prestigiosa collana «Incursioni» della Italo Svevo (curata da Dario De Cristofaro), prosegue e sistema nella forma di trilogia la vicenda avviata con gli altri romanzi: è la trilogia del Gotico siciliano, tendenza di cui Labbate è a tutti gli effetti l’iniziatore.
Pur ponendosi come terzo momento di una storia cominciata anni fa, è bene ricordare che Spirdu può anche essere letto in totale autonomia, senza che per questo si perdano le sue suggestioni più profonde (ancora meglio se poi vengono recuperati gli altri due libri, perché così sarà possibile non solo collegare i vari personaggi ma anche osservare l’evoluzione stilistica). Si tratta di una storia che si divide tra la già ricordata Butera e la statunitense Milton, in West Virginia. Una storia che si avvolge intorno alle spaventose presenze del Signore dei Puci e di Razziddu Buscemi («un demone perseverante d’odio»), e che in Spirdu coinvolge essenzialmente due protagonisti, residenti rispettivamente nei due luoghi summenzionati: l’esorcista Jedediah Faluci e la detective Kathrine Pancamo, lui abituato a confrontarsi quotidianamente col soprannaturale, lei costretta a cimentarsi con questa nuova dimensione e ad andare oltre le esperienze acquisite col suo lavoro; l’uno che vive con il padre, il quale avrà un ruolo non secondario nell’apertura della strada verso le forze tenebrose più crudeli, l’altra cresciuta in orfanotrofio e spinta da una perdita dolorosa a ricostruire la storia della sua famiglia fino alle origini. Già nel rapporto tra i due protagonisti si rileva uno dei momenti di “doppiezza” della narrazione, che si sorregge sulla spinta di molteplici forze contrapposte: i vivi e i morti, i figli (soprattutto orfani) e i genitori, il peso dei corpi e la fluidità degli spiriti, il dialetto (in grande quantità) e la lingua nazionale, sfumature barocche e rimandi alla cultura di massa, la Sicilia e l’America. Su quest’ultima dialettica si ripresentano i protagonisti: Jedediah, in quanto esorcista, getta un ponte tra la sua isola e le invenzioni di Friedkin e di William Peter Blatty (autore del romanzo L’esorcista); Kathrine cresce negli Stati Uniti e a Milton lavora come detective: non sarebbe un dettaglio rilevante se non facesse pensare alla serie tv True Detective, esattamente come il personaggio di Rust in Suttaterra, nel cui nome Labbate omaggia l’investigatore interpretato da Matthew McConaughey nella prima stagione (e parlare di True Detective conduce, implicitamente, a uno scrittore importante come Thomas Ligotti, i cui libri hanno ispirato la serie tv e a cui Labbate guarda con interesse). Inoltre, la partenza per la Sicilia in cerca delle origini di lei, dopo un primo, traumatico contatto con l’orrore, avviene dall’aeroporto di Baltimora (e Baltimora è Edgar Allan Poe, certo, ma è anche la città di The Wire, altra serie capolavoro della HBO).

Ma forse la grande sintesi delle spinte oppositive di cui si sta parlando si trova semplicemente nel titolo. Un utilissimo Dizionario del gotico siciliano presente alla fine del volume ci informa del significato di molti termini a cui andiamo incontro. Alla voce “Spirdu” si legge: «timore; paura; spirito; demone». Il titolo, quindi, condensa in sé un’esplicita ambiguità: si riferisce certamente alle malvagità contro cui si scontrano i protagonisti – abbandonati a una lotta durissima e condannati a una profonda malinconia –, ma anche al terrore, alla paura da cui pare difficile allontanarsi (e «l’emozione più vecchia e più forte del genere umano è la paura», così H. P. Lovecraft inizia il saggio L’orrore soprannaturale nella letteratura).

La paura di cui si parla nel tessuto narrativo, è il caso di ribadirlo, sta in perfetto contrasto con l’atteggiamento tutt’altro che pavido della scrittura, che affronta di petto e con coraggio gli elementi su cui lavora e si avventura in soluzioni stilistiche preziose e affascinanti (che per restare in ambito siciliano possono far pensare alle lezioni di Stefano D’Arrigo, di Gesualdo Bufalino e soprattutto di Vincenzo Consolo, sebbene l’orizzonte in cui si muove Labbate, si sarà capito, è parecchio diverso). Già all’altezza dello Scuru si aveva l’impressione che la prosa di questo scrittore avesse un carattere incontenibile, come se al suo interno si sedimentassero forze incandescenti. Con il tempo e con il lavoro si è arrivati a un’alta maturità, alla capacità sempre più agile ed elevata di incastrare una materia debordante e incontrollabile, tanto è dinamica ed energica, quasi fosse il prodotto di una violentissima scossa tellurica, in una struttura precisa e sorvegliata. Anche quando la lettura si fa più impegnativa per il costante corpo a corpo con il lessico, rimane un senso di grande musicalità, di armonico piacere nel sentire scorrere le parole. E pure la dimensione linguistica, e non potrebbe essere altrimenti, partecipa attivamente al gioco di tensioni contrarie di cui si è detto.

Particolarmente interessante è la sfida di riuscire a mantenere un saldo equilibrio tra la dimensione incorporea degli spiriti, che si muovono su distanze siderali e riescono a entrare fin dentro la carne delle vittime, e la densissima corporalità delle cose e degli esseri umani, che occupano in maniera sensibile lo spazio e possono diventare strumenti di apparizione degli spettri. La materia si presenta nelle pagine con tutto il suo peso. Parlando di un assassino e dei risultati dei suoi crimini: «Soprannominato dai giornali “Devil’s Nipper”, lasciava soltanto la carne viva e poca piddi. Quella che rimaneva assomigliava infatti a una rugginosa pelle di pollo al forno. Uomini e donne, magri e grassi. Con le facce bollite e la bocca chiusa come a rifiutare l’eucaristia». E più avanti, di fronte al cadavere di una persona di cui qui si tace il nome per non rivelare troppo della trama: «u muortu ormai buttato a mare, ormai roba secca e divelta ca vucca aperta a mangiare la terra Impero do schifìu, ormai magro e senza pelle, tirata via e affondata, e con la pelle finale del colore della carne animale scotta. Si inginocchiò. Gli prese il viso anch’esso senza più piddi. Gli toccò gli occhi antiquati per la morte atroce. Gli prese il mento e squadrò disarmata il brandello nnuccùtu di carnazza. Gli accarezzò le labbra il cui sangue cadeva celere come pulviscoli liquidi. Gli accarezzò i capelli rapidamente come a rassettarglieli pulìtu per un loro incontro. Gli baciò la fronte e siccome era frisca gliela baciò ancora come a riscaldare il corpo nonostante l’assoluta nichilità. Gli tastò i piedi che lambivano il suolo della chiesa ed erano zampe non più piedi, piedi smarriti nella loro nuova e beffarda metamorfosi».

Non solo i corpi degli esseri umani: anche alcuni degli enti immateriali, una volta chiamati in causa, sembrano solidificarsi e prendere vita poggiando sul peso della loro impossibile materialità. È il caso delle ombre: «Le ombre agli angoli della sala si godevano acquattate l’agonia degli uomini»; e ancora: «Affioravano dagli angoli delle strade ombre e uomini annoiati a morte, che a uno spiritista sarebbero apparsi come esseri bruciati vivi su tutti i nervi»; oppure l’ombra che pare divorare gli esseri viventi: «Rubbàtu via via dall’ùmmira crescente del mandorlo».

Materiale e immateriale sembrano fondersi e separarsi senza soluzione di continuità, tenendo sempre ben salda a terra la massiccia presenza di ogni figura evocata. Senza poi dimenticare l’incidenza dei defunti e l’importanza che il loro ricordo riveste nei sentimenti di Jedediah e Kathrine.

Tutto quanto detto finora è forse insufficiente a restituire il quadro di una ricerca così ricca e complessa come quella portata avanti da Orazio Labbate. Quel che è certo è che questa ricerca si è già ritagliata un posto di rilievo nella letteratura italiana contemporanea, e ad essa potrà sempre chiedere riparo chiunque senta ancora bisogno di perdersi nei labirinti di tenebra del linguaggio, chiunque, in definitiva, senta ancora il fascino di una letteratura che esplori l’immaginazione andando oltre quella che convenzionalmente chiamiamo realtà, verso zone che pur tuffandosi nell’irreale e nel fantastico tengono dentro di sé tracce indelebili della presenza umana su questa terra, «impossibile da chiarire per chiddi che della realtà vedono sistemi formali e pulìti».