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Berta Schrei, giovane donna che ha perso il primo amore sotto le armi della seconda guerra mondiale, è la protagonista di Il peso delle cose, il romanzo d’esordio dell’autrice austriaca Marianne Fritz. Il libro, vincitore del Premio Robert Walser nel 1978, arriva in Italia per i tipi di Safarà, nella traduzione di Giovanna Agabio.

Marianne Fritz è un personaggio peculiare del panorama letterario europeo: quasi sconosciuta al grande pubblico, ha vissuto per lo più in semi isolamento, attorniata da libri, fogli di carta e faldoni rigorosamente ordinati, come racconta la bella audiobiografia impossibile in forma di monologo registrata per Phenomena podcast. Dopo la pubblicazione de Il peso delle cose, la scrittrice autoconsacrò infatti la propria vita alla stesura di un’opera mastodontica, Die Festung (“La fortezza”), migliaia e migliaia di pagine raccolte in due volumi, più un terzo interrotto nel 2007 dalla morte dell’autrice, incentrati sulla storia della prima e seconda repubblica austriaca. Si tratta di un lavoro ossessivo, scritto con caratteri e versi di lettura differenti, intervallati da grafici, appunti, testi sovrapposti, pervasi da uno sperimentalismo selvaggio, dal desiderio di forzare la scrittura oltre i limiti conosciuti. Die Festung ha fatto di Fritz una scrittrice profondamente divisiva: alcuni grandi nomi le hanno riservato disprezzo, come Thomas Bernhard, e altri ammirazione, come W. G. Sebald. Considerata un’autrice di culto, nel 2001 è stata insignita del premio Kafka. Tuttavia, fuori dalla sua Austria, il nome di Marianne Fritz è meno celebre di quanto si possa pensare.

Con Il peso delle cose, Safarà – casa editrice impavida che si è già cimentata nella pubblicazione di opere complesse come la quadrilogia di Alasdair Gray, Lanark, o la trilogia di Brian Catling, Vorrh, in corso di pubblicazione – ci affida dunque il primo romanzo di una scrittrice dimenticata e la sua potenziale rinascita.
Ancora distante dello sperimentalismo più estremo che sarebbe arrivato in seguito, Il peso delle cose contiene già alcuni dei temi cari a Marianne Fritz, analizzati poi più diffusamente in Die Festung. Su tutti spicca una critica feroce alla società austriaca del secondo dopoguerra, incapace di venire incontro alle persone più fragili e diretta come un treno verso il mito della produttività a ogni costo.
Protagonista della storia, dicevamo, è Berta Schrei, giovane rimasta incinta del soldato Rudolf poco prima della sua partenza; dal fronte torna invece il commilitone Wilhem, che le annuncia la morte dell’amato e il giuramento di prendersi cura di lei. La vicenda è narrata seguendo un tragitto non lineare, che prende avvio dall’esterno e arriva al nodo centrale descrivendo una spirale. In apertura infatti troviamo Wilhelmine, amica di Berta, che ne lamenta le disgrazie e prende contemporaneamente le distanze da lei: il titolo del primo capitolo è una presa di posizione immediata, “Wilhelmine non è Berta”. Scopriamo presto che al suo rientro Wilhelm ha sposato Berta e i due hanno avuto una bambina; eppure all’inizio della narrazione è Wilhelmine la moglie di Wilhelm, mentre Berta è rinchiusa in una struttura psichiatrica, e dei due figli non c’è nessuna traccia. In prima battuta il libro sembra attraversato da una vena satirica, che deride la pragmatica Wilhelmine e le sue ipocrisie, che riconosce in Wilhelm un uomo confuso da un contesto che non riesce a capire davvero: «Credeva in tutto e in niente, dubitava di tutto e di niente, era il sognatore nato che non sognava. In breve, era un degno rappresentate della sua nazione». La critica sociale è sarcastica ma feroce e ben presto i toni irrisori si dileguano per lasciare spazio al profilarsi della tragedia, in cui risuona una nemesi da mito classico.

Un senso di ineluttabilità attraversa il libro sin dall’inizio, eppure il maelstrom in cui sprofonda Berta Schrei tramortisce il lettore, che si ritrova invischiato in un vortice narrativo e linguistico. La scrittura è convulsa e tuttavia precisa, secca al limite della scarnificazione. Procedendo per sottrazioni e sottintesi Fritz seguita a narrare da diverse prospettive e la lingua la segue, variando a seconda del personaggio messo in campo, senza però perdere in unità e concretezza.
Berta è una figura spettrale, leggiadra nella sua totale assenza di pace, costantemente preda di conflitti interiori generati da quella che viene a più riprese definita «la piaga Vita». Ma non è sempre stato così. Quando Rudolf le era accanto, prima della guerra, era pervasa da una luce e un senso di fiducia che Fritz descrive magistralmente: «Sul viso di Berta si diffondeva quello splendore spensierato e caldo della giovinezza che pensa sia giunto il momento di allargare le braccia e che la cosa migliore sia quella di abbracciare e al tempo stesso accarezzare tutta la terra». Quanto più commovente è il suo slancio speranzoso verso il futuro, tanto più rovinosa sarà la caduta.

Wilhelm invece è un uomo di buon cuore ma di poco spessore, che si ritrova suo malgrado in balia di forze troppo più grandi di lui, uomo grigio in un paese straziato di cui non mancano le descrizioni di palazzi sventrati dalle bombe, e dove anche i racconti per bambini contengono sempre una morte violenta. Wilhelmine è una donna solida, calcolatrice, emblema di quella realtà da cui la protagonista è schiacciata fino alla follia: «Per Berta Wilhelmine era la vita in sé, per come parlava con lei, come la biasimava, come le profetizzava una brutta fine: a lei e alla sua nidiata». Tra i tre intercorre una sorta di “oggetto magico”, un talismano narrativo rappresentato da un ciondolo con una Madonna di latta, che Wilhem regala a Berta, che lei indossa e in cui trova appiglio nella sua stanza d’ospedale, che Wilhelmine vorrebbe invece ottenere per sé, a suggellare il proprio trionfo.

Vi sono infine i due figli di Berta, chiamati a loro volta Berta e Rudolf, quasi uno specchio ideale di quello che sarebbe potuto essere se la guerra non si fosse frapposta tra i due amanti. Ogni miraggio viene però stroncato da un contesto meschino e disumano, in cui a contare è solo il profitto: entrambi i bambini hanno difficoltà di apprendimento e un senso di sconfitta autointroiettato li rende incapaci, agli occhi della madre, di sostenere «il peso delle cose». Berta è divorata da incubi in cui i suoi figli sono crocifissi, derisi e maltrattati, costretti a vivere come bestie. Se l’esistenza è dunque «la piaga Vita», dove riporre le proprie speranze? Quale rifugio è più accogliente, più sicuro, se non la morte?

La maternità e la vita domestica si tramutano in un macigno opprimente, vortice terrificante che oggi potrebbe essere diagnosticato come depressione post partum e che l’Austria del secondo dopoguerra poteva invece solo etichettare come follia e allontanare alla vista. Per molti aspetti in Il peso delle cose risuonano elementi de La carta da parati gialla di Charlotte Perkins Gilman, racconto di orrore domestico del 1892. Anche qui una donna annega nella propria esistenza coniugale, in una stanza in cui era stata “costretta al riposo” dopo aver messo al mondo il proprio bambino. Anche qui una donna sprofonda nell’ossessione, e resta schiacciata da oneri insostenibili. In entrambi i testi, inoltre, le figure di contorno si mantengono in una dimensione di ambiguità, e resta sottile la consapevolezza del male che stanno facendo alla protagonista: quanto Wilhelmine con le sue formali consolazioni aggrava volontariamente la situazione psicologica di Berta? E quanto Wilhelm «il sorridente» annienta Berta con la sua incapacità di comprendere quel che le sta accadendo? Quanto il marito della protagonista di La carta da parati gialla ha contezza dell’apporto controproducente che la terapia dell’isolamento sta esercitando sulla moglie?

Rimane l’immagine tragica di Berta, a sua volta miniatura di latta, icona dolente e blasfema, macchiatasi del più oscuro dei delitti. Passiva e mostruosa allo stesso tempo, Berta non lancia mai quell’urlo disperato che campeggia sulla disturbante copertina del libro. Il massimo della sua reazione è la ripetizione meccanica delle parole «Ecco. Ecco», quasi a prendere atto che se la vita è una ferita non è possibile aspettarsi altro che orrore incombente.

«Forse quadra tutto. Forse niente del tutto».

Il peso delle cose è un libro in cui la verità non è mai spiattellata. Anche la specularità dei nomi – le due Berta, i due Rudolf, Wilhem e Wilhelmine – accresce il disorientamento del lettore, facendo della storia un incubo labirintico, che dà un saggio del totale spaesarsi della sua protagonista, dei suoi tentativi di non affogare mentre tutto intorno a lei cospira, più o meno ignaro, per sommergerla. Marianne Fritz attraversa questo luogo spaventoso con una precisione ancor più terrificante, disseminandolo di momenti onirici e altri solidamente reali, come indizi sparpagliati sulla scena del crimine. Incrollabile, tiene fede all’idea di autrice aliena da compromessi: non concede alcun conforto, né tantomeno spiegazioni palesi, solo corridoi più bui in cui smarrirsi.

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