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Questo articolo è stato originariamente pubblicato su Osservatorio Balcani e Caucaso che ringraziamo.

La rotta balcanica per centinaia di rifugiati e migranti parte da Istanbul. Per moltissimi, usare la rete dei trafficanti è una scelta obbligata.

«Abu Al-Hakam? Ho trovato il tuo numero su Facebook, sto pensando di migrare in Europa»

«Non c’è problema»

Comincia così la telefonata a uno dei membri di una rete di trafficanti che opera a Istanbul. Un mondo in chiaroscuro fatto di attività illegali condotte alla luce del sole, di annunci in rete come fossero pubblicità di agenzie di viaggi, di seminterrati dell’antica capitale ottomana colmi di giubbotti di salvataggio e occhi sospetti. Istanbul ospita oltre 350mila siriani, un mondo variegato fatto di nuova imprenditoria e accattonaggio, studi d’arte e manovalanza. Il network di trafficanti che si è stabilito nella metropoli non ha né la struttura né i modi della criminalità organizzata locale, ma agisce piuttosto come un’intricata rete di contatti attraverso la quale si può riuscire a ottenere il viaggio via mare che porta verso la Grecia e l’Europa. Invece, i viaggi via terra attraverso la frontiera bulgara o greca sono divenuti impraticabili.

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Contattare i trafficanti. Il primo passo per i migranti che vogliono andare in Europa è quindi entrare in contatto con il network. Spesso è sufficiente il passaparola, chiedere a una persona fidata che probabilmente ne conoscerà un’altra e questa un’altra ancora. L’alternativa è internet: su Facebook riusciamo a farci accettare in un gruppo chiuso in lingua araba. Tra i vari post, troviamo tariffari per la contraffazione di documenti: 50 dollari per una carta d’identità o un certificato di matrimonio, 350 per un diploma di laurea, fino ai 1250 per un passaporto nuovo di zecca. Gli annunci vantano prezzi competitivi e grande professionalità. Soprattutto, troviamo numeri di telefono. Ne scegliamo due e, con l’aiuto di un giovane siriano, li contattiamo. Il primo si fa chiamare Malik Samiah. Parla con un tono rassicurante, quasi affettuoso, e spiega che da Istanbul si raggiunge in autobus Didim, una località poco lontana da Smirne sulla costa della Turchia occidentale: «Da lì parte il nostro viaggio. Organizziamo i più gratificanti viaggi! Trentacinque passeggeri su ogni gommone al massimo. È davvero un viaggio incantevole. Ti posso inviare il video del viaggio di ieri su Whatsapp».

Il filmato che riceviamo mostra un gommone carico di adulti e bambini in procinto di raggiungere un’isola. La giornata è soleggiata, le persone si scambiano sorrisi e grida di esultanza, un quadretto quasi idilliaco. Parliamo di soldi e il trafficante ci chiede 550 dollari da depositare all’ufficio di una compagnia assicurativa ad Aksaray, un quartiere di Istanbul sul lato europeo. «Ma puoi usare l’ufficio che preferisci. L’importante è che tu arrivi sano e salvo. Io riceverò i soldi da qualunque ufficio tu decida di usare».

Il secondo trafficante si presenta come Abu Al-Hakam. Il prezzo che ci chiede è superiore, 750 dollari. «Ma è per la tua sicurezza», sottolinea. «Se non c’è bel tempo non si parte. Se ci sono controlli della polizia posticipiamo il viaggio a un giorno successivo. Non sarai abbandonato». Anche in questo caso, i soldi vanno depositati prima della partenza a un ufficio di Aksaray.

«Vai ad Aksaray e chiedi di Abu Ziad. Conosci il ristorante Anas? Chiedi a loro, lo conoscono». Al-Hakam spiega quindi che i soldi non saranno ritirati dal network fino al momento dell’arrivo in Grecia. Solo a quel punto si chiama l’ufficio e si sblocca il pagamento con una parola d’ordine concordata al momento del deposito. «Però quando decidi di pagare verrò con te all’ufficio: dobbiamo registrare entrambi i nostri nomi».

Una volta pagato, i migranti partono in autobus verso Didim, dove si salpa. «Il gommone sarà guidato da uno di voi, uno a cui i miei uomini avranno dato le istruzioni necessarie. Guidare un gommone è facile, è come andare in bicicletta. E poi i miei vi terranno d’occhio per accertarsi che non vi accada nulla».

Ma una volta sbarcati, che succede? «Alla spiaggia troverai i volontari della Croce Rossa. Altrimenti rivolgiti alle autorità locali, ti daranno un foglio di via. Poi raggiungi Atene e lì puoi contattare una persona, ti darò il suo nome, che ti accompagna fino al confine serbo. Una volta in Serbia, la Croce Rossa ti aiuterà a raggiungere la Germania».

Aksaray. Salutiamo Al-Hakam, è il momento di andare ad Aksaray. Aksaray è un quartiere residenziale e commerciale a tre fermate di tram da Santa Sofia. Ci troviamo sulla sponda europea di Istanbul, in una delle zone più multiculturali della città che, da qualche anno, è diventata una delle aree dove hanno cominciato a stabilirsi anche siriani in fuga dalla guerra.

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Locale iracheno nel quartiere Aksaray di Istanbul

Il locale menzionato dal trafficante è una sorta di tavola calda che serve classiche pietanze siriane. È uno dei più frequentati, si affaccia su una strada trafficata con marciapiedi affollatissimi. I camerieri del ristorante sono tutti arabi, sostengono che i trafficanti bazzicano spesso da quelle parti, ci dicono i nomi con cui si fanno chiamare. Il luogo di incontro per lasciare Istanbul e tentare la traversata verso la Grecia è proprio qui a due passi dal ristorante.

Gli autobus privati che raccolgono i migranti si fermano in una piccola piazzetta chiusa sugli altri due lati da una moschea e un serie di edifici a quattro piani che ospitano uffici ed esercizi commerciali. Ci sono più scritte in arabo che in turco. «Partono da qui quasi ogni giorno, li caricano sui bus a tarda notte», ci racconta Ismail, un 30enne di Homs che vende tè caldo sulle panchine di questa piazzetta dove passa le sue giornate; per questo è ben informato sui movimenti dei migranti. «Qui si possono vedere trafficanti a tutte le ore del giorno e della notte». Sostiene che la maggior parte di loro sono siriani «ma hanno solo un piccolo ruolo in questo business, prendono una percentuale sul costo del viaggio ma la maggior parte del denaro va ai turchi».

Sorprende sapere che la principale stazione di polizia di Istanbul è a meno di due chilometri di distanza. Ismail è scappato dalla Siria con la famiglia quattro mesi fa e ora vive in città con sua moglie e due figli piccoli. Non riesce a guadagnare molto col lavoro che fa, ma è sicuro che Dio si prenderà cura di lui. Gli chiediamo se una volta raccolti abbastanza soldi sarebbe disposto a partire, sorride e alza gli occhi al cielo, «Inshallah», se Dio vuole.

In un seminterrato a breve distanza troviamo un negozio dove vendono giubbotti di salvataggio. A colpo d’occhio si vede che non hanno nulla a che fare con quelli certificati in vendita nei negozi di articoli nautici: niente strisce catarifrangenti, imbottitura inesistente, danno l’impressione che una volta in acqua ti tirino a fondo, più che salvarti la vita.

Due uomini di mezza età stanno aiutando un bambino ad indossarne uno, cercano di capire se sia della taglia giusta. Se ne vanno senza comprare niente non appena rivolgiamo la parola al commesso, che ci parla in arabo con un forte accento turco. Non sembra molto contento di spiegarci cosa vende nel suo negozio, ma ammette di vendere prodotti che definisce originali e altri non originali a prezzi chiaramente inferiori.

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Nella stessa piazzetta di Aksaray da dove partono gli autobus, un uomo magro con carnagione scura e baffetti radi è seduto da solo su una panchina. Lo interpelliamo in arabo, sorride immediatamente e ci invita a sederci con lui.

Mentre parliamo ci offre sigarette di contrabbando e racconta senza problemi di essere yemenita e di lavorare nel mercato del traffico: fa l’intermediario tra i trafficanti e i migranti. Il costo del viaggio è 1300 dollari, più del doppio di quanto ci era stato detto al telefono. «Ma i soldi servono anche per le eventuali tangenti che devo pagare», dice mentre si accende un’altra sigaretta.

Insiste nel dire che se si vuole un viaggio sicuro è necessario spendere molto. Il prezzo per viaggiare di inverno è più basso rispetto all’estate, quando il costo della traversata arriva fino a 3000 dollari. Dice che ci sono più di 100 persone che operano nella piazzetta di Aksaray per organizzare i viaggi. Conferma che i soldi devono essere depositati prima della partenza in degli uffici lì attorno e che lui li ritirerà solo a viaggio avvenuto, «i proprietari di questi uffici sono turchi», sostiene. Scambiamo i numeri di telefono, poi l’uomo si congeda raccomandando: «Fatevi sentire, domani c’è una partenza».

Una strada obbligata. Per capire chi, invece, questo viaggio lo vuole intraprendere o l’ha già intrapreso, telefoniamo a Hashem, un ragazzo siriano di origini palestinesi. Sta aspettando la chiamata per la partenza, lascerà la Turchia entro 2-3 giorni. Gli chiediamo come si sente, se ha paura, delle persone con cui ha a che fare e del viaggio che sta per affrontare. Si rende conto che la gente che ha contattato non ha scrupoli, non ha a cuore la sua vita. Ma per lui, in fondo, la fiducia non ha nulla a che fare con tutta questa faccenda: i suoi trascorsi, ciò che ha passato nel corso della sua vita, è più che sufficiente a fargli accettare con fatalismo e noncuranza il rischio di annegare nelle acque gelide dell’Egeo.

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Aleppo (Siria): i crateri delle bombe diventano piscine per ragazzini (Repubblica.it, Luglio 2014)

Mohamad è invece un giovane siriano di Aleppo: uno di quelli che ce l’ha fatta. Ha intrapreso il viaggio 3 mesi fa e ha raggiunto la Germania. «Prima ho tentato di stabilirmi in Giordania, poi in Turchia, ma in questi paesi non c’è modo di ottenere i documenti necessari per il ricongiungimento con la mia famiglia, che è ancora ad Aleppo. Allora ho deciso di ripartire. Affidarsi ai trafficanti non è una scelta, è l’unica strada. Quasi nessuno tenta di varcare il confine con la Grecia a piedi: troppo sorvegliato, troppo pericoloso. Ho pagato 1000 dollari tramite amici e sono partito con un autobus da Istanbul, c’era un’altra cinquantina di persone con me. Al primo tentativo siamo tornati indietro dopo due ore di viaggio, non ci hanno mai spiegato perché. Il giorno successivo siamo ripartiti e abbiamo raggiunto una località vicina a Smirne. Là siamo rimasti accampati nei boschi per tre giorni prima di imbarcarci; ci hanno portato da mangiare e da bere, il minimo indispensabile, ma eravamo costantemente sorvegliati e non ci potevamo allontanare».

«Quando li contatti i trafficanti ti corteggiano, almeno finché non li paghi. Poi l’unica cosa a cui pensano è metterti su una barca e mandarti in mare. Mentono, lo sanno tutti, il loro atteggiamento rassicurante è una farsa, ma se vuoi partire non c’è altra scelta».

Ogni giorno a Istanbul si possono raccogliere centinaia di storie come quella di Mohamad, perché centinaia sono le partenze che la rete dei trafficanti organizza quotidianamente.

L’Organizzazione Internazionale per la Migrazione stima che dall’inizio del 2016 più di 102,547 migranti hanno raggiunto la Grecia partendo dalla Turchia, un dato 26 volte superiore allo stesso periodo dello scorso anno. Trecentoventuno sono coloro che, sempre nel 2016, non sono mai arrivati sull’altra sponda.

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